Trattoria La Campagnola
Cucina Tipica Napoletana dal 1946
Via Tribunali 47 80138 Napoli
Tel. e Fax 081 459034
trattoria.campagnola@libero.it
Aperto: dal mercoledì al sabato, pranzo e cena ( 12,00 – 15,30 / 19,00 – 23,00.), domenica e lunedì solo a pranzo
Chiusi: martedì, domenica e lunedì a cena)
Ferie: 15 gg in settembre
Carte di credito, no American Express, Bancomat: si
Il centro antico di Napoli incardina il cuore autentico della città, si estende per 1700 ettari e vanta ben 27 secoli di storia. Ora, un ettaro equivale a 10.000 mq., moltiplicate per 1700 e avrete un’idea delle dimensioni della Napoli antica. Più della metà di tale superficie è stata dichiarata nel 1995, Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. Il cuore del centro storico è caratterizzato dalle sue chiese (oltre 400). L’antica struttura di Napoli è stata negli anni marcatore fondamentale della storia e dello sviluppo della città. L’area del centro antico corrisponde al primo insediamento di Neapolis (V secolo a.C.) con una struttura “a scacchiera” formata da tre grandi strade orientate da est a ovest, dette decumani: decumanus superior (via Sapienza, via Pisanelli, via Anticaglia, ecc.), decumanus maior (via Tribunali), decumanus inferior (via B. Croce, via S. Biagio dei Librai, ecc.) intersecate da una serie di strade di collegamento tra nord e sud chiamate “cardines”. Il centro storico di Napoli riveste una notevole peculiarità rispetto a quello delle altre città italiane: solo qui sono presenti, infatti, le stratificazioni di epoche successive a partire dal periodo greco-romano fino ai nostri giorni. Il Decumano Maggiore inizia da Piazza Bellini, dove, a cielo aperto si possono ammirare i resti di un tratto delle mura greche, portate alla luce dagli scavi del 1954.
Lasciata Piazza Bellini, vivace centro culturale e punto d’incontro di giovani artisti e intellettuali, prendiamo per via San Pietro a Majella, dove si erge austera l’omonima chiesa, dedicata a Pietro da Morrone, il famoso Papa Celestino V, il Pontefice del “gran rifiuto”: Celestino V, nato Pietro Angeleri e detto Pietro da Morrone fu il primo Papa che volle esercitare il proprio ministero al di fuori dei confini dello Stato Pontificio, e uno dei pochi, ad abdicare.
Il chiostro della chiesa ed altri locali attigui sono la sede dal 1806 del Regio Conservatorio di Musica.
Da qui, salendo per Piazza Miraglia, sede del vecchio Policlinico, l’unico in città fino agli anni ’70, si arriva in via dei Tribunali.
Via Tribunali è la vera e propria spina dorsale della città: qui sono state ritrovate stratificazioni archeologiche tra le più “recenti” della civiltà greco – romana, i resti di abitazioni nello spazio antistante alla chiesa di Santa Maria Maggiore della Pietrasanta. Lachiesa di Santa Maria Maggiore alla Pietrasanta, tra le più interessanti dal punto di vista storico ed artistico fu la prima della città ad essere dedicata alla Vergine. Venne chiamata “della Pietrasanta” perché all’interno veniva custodita una pietra che, quando la si baciava procurava l’indulgenza.
Principale testimonianza della città greco-romana è l’area del foro, l’attuale piazza San Gaetano. In italiano foro, indica la “piazza”, il luogo centrale di ogni città romana, dove sorgevano i principali edifici pubblici, destinato a tenervi il mercato e trattarvi affari. Il forum si trovava quasi sempre all’incrocio delle due strade cittadine principali: il cardine e il decumano massimo.
Sulla sinistra di Piazza San Gaetano, si erge il magnifico Complesso monumentale di San Lorenzo Maggiore, con a fianco il Convento la cui facciata riporta i simboli dei nove Sedili più importanti di Napoli, con i sottostanti scavi: il complesso archeologico di San Lorenzo Maggiore si estende in corrispondenza di un’ampia area che rappresentava il fulcro della parte commerciale della città antica, l’agorà greca. Le ricerche archeologiche hanno identificato con sicurezza il macellum, l’antico mercato alimentare semi-coperto, da cui si accedeva in corrispondenza dell’attuale via Tribunali.
La struttura attuale di via dei Tribunali, con gli archi e il mercato rispecchia fedelmente la sottostante stratificazione greca.
Nella stessa area sorge il tempio dei Dioscuri, incorporato nella Basilica di San Paolo Maggiore, monumentale e imperdibile complesso che risale al VII sec.
Al centro del chiostro della basilica si trova un pozzo, che, secondo una credenza popolare, offre l’acqua più fresca della città.
Proseguendo su Via Tribunali, poco prima di giungere all’agognata meta dove si mangia bene e si spende poco, ritroviamo sulla sinistra la Chiesa di Santa Maria delle Anime al Purgatorio ad Arco, conosciuta come “ ‘A Chiesa de’ cape ‘e morte”.
La chiesa è un po’ arretrata rispetto alla strada, vi si accede da una scala con due rampe di scalini, davanti alle quali ci sono quattro paracarri di granito coperto da teschi di bronzo con tibie incrociate, (per questo è conosciuta come ‘a Chiesa de’ cape ‘e morte).
Nel mezzo dei paracarri, dalla strada, attraverso una finestra rettangolare con una grata di ferro, s’intravede il sotterraneo, come un immagine composta da tanti quadrati, tutti uguali: sono le sepolture delle anime del purgatorio, dette pure “Aneme Pezzentelle”, ovvero, resti, per lo più anonimi, sepolti lì per volere di un gruppo di devoti nobili, che si prodigavano nell’opera misericordiosa di seppellire coloro che morivano poveri e senza parenti, in un luogo ritenuto santo, e farvi celebrare messe giornaliere, in modo che potessero presto, “Povere Capuzzelle”, raggiungere la beatitudine del Paradiso. La “contropartita” di quest’atto benevolo, è noto con il termine napoletano “ ‘O Refrisco”: si tratta di un rituale di culto, che si fonda su una specie d’adozione: una persona sceglie un teschio dal mucchio anonimo e se ne prende cura; la “Capuzzella” adorata, sarà oggetto di preghiere e tributi vari, in cambio si chiederanno grazie, si accenderanno candele e si tributeranno ex voto.
Tra gli innumerevoli resti sepolti in quella terra santa, infine, spicca una nicchia, con un teschio coperto da in velo da sposa adagiato su un cuscino bianco. Sono i resti di una certa Lucia, morta all’età di 16 anni, ai quali sono legate una serie di leggende e che è pregata ed invocata in massa da fedeli con tanta devozione, sistemando nei suoi pressi moltissimi fiori, santini, foto di persone care morte, immagini di ex voto e lumini accesi. La più ricordata grazia riferita, alla Capuzzella miracolosa di Lucia, è quella che fa riferimento soprattutto alle zitelle, che invocatola riescono a trovare marito ed a sistemarsi. Talvolta poi, i teschi hanno una storia e un nome trasmessi attraverso racconti tramandatisi nel tempo; è il caso del “monaco” (‘a capa ‘e Pascale) in grado di indovinare i numeri vincenti al lotto, quella del “capitano”, figura di riferimento emblematica del cimitero delle fontanelle, o quella di “donna Concetta” nota più propriamente come “a’ capa che suda”.” Il rapporto della città di Napoli con la morte è un interrogativo che sorge a ogni angolo. A Napoli la morte è l’altra faccia della vita: non si scaccia, ci si allea per averne vantaggio. Da sempre i napoletani hanno dimostrato di avere un rapporto “particolare” con i defunti, fatto di timore e di rispetto e la città ha conservato nel tempo culti e rituali legati alla morte che sono oggi parte integrante del patrimonio culturale.
Poche centinaia di metri più avanti, gli occhi s’incantano alla vista della Chiesa dei Girolamini, complesso basilicale barocco, tra i più grandi e belli d’Europa. La chiesa, dopo una chiusura di oltre trent’anni, è stata riaperta al pubblico nel 2009. Bellissimo il silenzioso chiostro degli aranci, al quale si accede da Via Duomo.
All’estremità orientale di via dei Tribunali , in direzione di Castel Capuano, incrociamo la chiesa o cappella del Monte dei Poveri , una delle cappelle più importanti di Napoli, inglobata nel Palazzo del Monte dei Poveri, fondato nel 1563 e ospitante dal 1819 l’archivio storico del Banco di Napoli.
Ancora una volta, ce l’avete fatta:
siamo alla fine di via Tribunali, di fronte a noi Castel Capuano, che corrisponde al limite del decumano maggiore. Di origine normanna, il Castello deve il suo nome al fatto di essere ubicato a ridosso di Porta Capuana, che si apre sulla strada che conduceva all’antica Capua.
Passiamo ad argomenti più ameni: lungo via Tribunali, oltre all’immenso patrimonio storico – artistico, sopravvivono alcune realtà di grandissimo interesse culturale e antropologico . Per citarne alcune: la Libreria – Editore Colonnese, i laboratori dei maestri liutai in Via San Sebastiano nei pressi del Conservatorio.
La libreria antiquaria fu fondata nel 1965 da Gaetano Colonnese insieme alla moglie, Maria Corona , a pochi metri dalla sede attuale in Via San Pietro a Majella, all’interno di un cortile.Fu subito punto di riferimento per la diffusione di libri e riviste sul movimento operaio, oltre che per i libri non reperibili sul mercato tradizionale. Pubblica periodicamente un catalogo di libri esauriti e rari, non disdegnando – quale felice corollario – testimonianze significative: vecchi giornali e riviste, stampe antiche e moderne, cartoline, fotografie, oltre ad una selezione di argomenti che introducono ai gusti dei Colonnese: editoria non seriale, cinema, teatro, letteratura per ragazzi, libri sul libro, gattofilìa e letteratura gattesca, oggetti contemporanei di un artigianato colto. A sette anni dalla la scomparsa di Gaetano Colonnese, l’attività della libreria editrice è portata avanti dalla moglie e dai figlicon molte difficoltà .
Veniamo ai Maestri Liutai. Una delle più antiche botteghe è la liuteria Calace fondata nel 1825 per opera di Nicola Calace, a Procida (Na) dove si trovava confinato per motivi politici. Iniziò l’arte liutaia con apprezzate chitarre. Alla sua morte la tradizione venne continuata dal figlio Antonio che, dopo essersi trasferito a Napoli, iniziò la costruzione di pregiatissimi mandolini che oggi si possono ammirare in collezioni private.
Ebbe due figli Nicola e Raffaele, ai quali insegnò tutti i segreti dell’arte liutaia. Alla sua morte i due fratelli lavorarono insieme realizzando splendidi mandolini, ma ben presto la supremazia indiscussa come compositore, musicista e liutaio di Raffaele Calace creò dissidi insanabili e Nicola Calace emigrò in America nel 1906 dove insieme all’amico italiano “Nicola Turturro” continuò la sua arte realizzando bellissimi strumenti. La genialità di Raffaele Calace intanto era in continua ascesa. Tramandò la sua arte al figlio Giuseppe Calace che realizzò pregiati strumenti e con la sorella Maria continuò anche la tradizione concertistica. Meritò molte onorificenze, e la commenda della Corona d’Italia. Anche’egli tramandò al figlio, Raffaele jr. i segreti dell’arte liutaia, che dalla morte del padre segue la gloriosa tradizione familiare, continuando a costruire e perfezionare sempre di più gli strumenti che oggi rappresentano il punto di riferimento per tutti i concertisti del settore.
Torniamo finalmente al civico 47 di Via Tribunali, siamo nel 1946. Sono gli anni dell’immediato dopoguerra, si cerca di ricominciare. Giovanni Bufalino, napoletano verace, classe 1930 decide di aprire una delle attività più comuni e redditizie di quegli anni, la mescita di vini con rivendita di molti altri generi di prima necessità che, una volta a Napoli, si vendevano a peso: legumi di ogni tipo, farine, granaglie, salsa di pomodoro, baccalà, olive, capperi, sugna, pasta, pane, olio, che si misurava con la classica unità del decimo, il caffè macinato al momento, zucchero, tonno sott’olio venduto in carta oleata, uova. A proposito di queste ultime, in tutte le mescite, c’èra l’abitudine tra gli avventori, sia, a mezza mattina, che, a metà pomeriggio, di accompagnare il bicchiere di vino ad uova sode per attenuare gli effetti dell’alcool a digiuno. Quando il Comune di Napoli estese la licenza per vendere vino anche ad altri tipi di esercizi, Nonno Giovanni e la moglie Filomena, di qualche anno più giovane, ma scomparsa negli anni ’90, decisero di allargare il locale a trattoria, inizialmente con pochi piatti caldi della cucina napoletana, poi man mano il menù si estese fino a comprendere l’intera tradizione della gastronomia partenopea. Il locale, oggi, come allora si componeva di due sale separate da un arco, ad ora di pranzo nonno Giovanni, improvvisava una porta di fortuna per separare cantina e trattoria e, se mancavano posti a sedere faceva sede le persone sulle casse vuote delle bottiglie.
Tutto questo accadeva di fronte agli archi di Via Tribunali, una volta sede di un mercato ben più ampio e ricco di personaggi indimenticabili. C’erano molte botteghe di macellai, il “baruccio” di Don Ciccio, dove si compravano 25 gr. di caffè tostato e macinato insieme ai 100 gr di zucchero e da dove la mattina al’alba saliva un inconfondibile aroma di caffè fresco e di anice.
La frutta che si pesava con la “valanza” costava tra le 50 e le 80 lire al chilo. 0,03 – 0,04 cent).
La bottega dell’ovaiolo, un piccolo buco sotto i portici di Via Tribunali non c’è più, in compenso, è rimasto Don Franco, proprio di fronte alla Pizzeria Sorbillo. Resiste ancora Carmela l’acquaiola, che dà sollievo ai passanti nelle calde notti estive di Via Tribunali.
Il mercato sotto gli archi è molto più piccolo di com’era nel dopoguerra, quando era famoso per i capitoni che si vendevano la sera del 24 dicembre, sempre all’ultimo momento quando scendevano i prezzi, perché allora i soldi erano pochi. Il riciclo era uso comune, lo spazzino saliva per le case si buttava poco, e molti alimenti si vendevano in contenitori a rendere. La roba vecchia si vendeva al “ sapunaro” a Vico Storto Purgatorio ad Arco ( nei pressi della Chiesa delle “pezzentelle”) che comprava a peso, pagando in pietre di sapone. Il sapone contraccambiato, era sopraffino, prodotto dai monaci Olivetani, nella loro spezieria all’interno dell’omonimo Monastero, situato nei pressi dell’attigua chiesa di Santa Maria di Monteoliveto, ora meglio nota come Sant’Anna dei Lombardi. Il sapone di piazza degli Olivetani era così pregiato e profumato, che già nel Quattrocento era venduto a 24 carlini la libbra. Gli anziani del vicolo ricordano ancora la voce cantilenante a memoria: “ robba ausata, scarpe vecchie, simme lente, stamme cca’ ! bona ge’! arapite ‘e recchie, sapunare sapuna’”. Molti proverbi sono stati ispirati dal ‘O Sapunaro, uno per tutti “ ccà ‘e pezze e ccà ‘o sapone” per rivendicare la simultaneità tra il pagamento e un servizio reso. Le ultime due figure dei tempi di Nonno Giovanni sono Gelsomina “‘a capera”, una sorta di moderna parrucchiera moderna che andava in giro di casa in casa a pettinare le signore anziane, creando trecce, corone e “tuppesse” con decine e decine di ferretti. L’operazione richiedeva un certo tempo, era dunque naturale che si spettegolasse raccontando i fatti degli altri, da qui un altro famoso detto napoletano “ chella è ‘na capèra”, ovvero è una pettegola, conosce i fatti di tutti. In ultimo, mi racconta, restio il decano del quartiere, su Via Tribunali, c’è Bellomunno e mentre lo dice fa un gesto molto esplicativoJ, si tratta, infatti, della prima azienda di Pompe Funebri fondata in Italia nel 1820, che a richiesta, utilizza ancora carri trainati da cavalli, ricavati da carrozze reali del ‘700. ORA PARLIAMO DI COSE AMENE:
Bene adesso parliamo di cose allegre: Giovanni e Filomena, visto che la trattoria prendeva piede, decidono di dedicarsi esclusivamente alla cucina. Portano avanti il locale insieme, inseparabili, fino agli inizi degli anni ’90, quando Donna Filomena scompare, lasciando il testimone al marito e alla figlia Teresa, la mamma di Antonio Castelluccio, l’attuale titolare della Campagnola, insieme con suo fratello Raffaele. Il nome del locale deriva da un pioneristico esperimento di un grossista di vini vesuviano che acquistava locali in tutta Napoli e li dava in gestione a condizione che si chiamassero tutti “La Campagnola” e che acquistassero i vini soltanto da lui, insomma, il franchising dei nostri tempi.
In cucina ci sono Mamma Teresa, la moglie di Antonio, Lucia ed una serie di zie e cugine difficili da distinguere l’una dall’altra. Il locale emana calore ed accoglienza da tutti i pori, legno dappertutto, le vecchie scaffalature dei tempi della mescita, e, udite, udite: cucina totalmente a vista separata dalla sala solo da una vetrata. “E’ sempre stato così mi dice Antonio, già dai tempi di mio nonno”. Allora, mi viene da pensare, la cucina moderna di oggi non ha inventato niente di nuovo e ritorno sempre a quella frase di Massimo Bottura che mi rimarrà impressa per sempre: “ per fare avanguardia e andare verso il futuro, bisogna conoscere profondamente il passato, poi guardarsi bene attorno e poi, con molta cautela, fare piccoli passi in avanti senza mai dimenticare il passato e prestando continua attenzione a quello che succede fuori”.
All’ingresso è rimasto il vecchio bancone della mescita che oggi è multifunzione, mescita, enoteca, bar e cassa. Le due sale sono vestite con tovaglie di color rosso acceso, niente carta in giro, anche i tovaglioli sono di stoffa. Circa 50 coperti, semplici piatti bianchi e deliziosi bicchieri da osteria. Il personale indossa la maglietta rossa del locale, in fondo, al centro della seconda sala, di fianco alla cucina, troneggia un’enorme lavagna con il menù del giorno che cambia quotidianamente, secondo la regola delle antiche famiglie dei piatti settimanali. Lunedì: fagioli e scarola, pasta e fagioli, linguine alla puttanesca e pasta al forno.
Mercoledì: pasta e patate con provola, mezzanella lardiati, zuppa di spinaci e lenticchie. Giovedì: pasta alla genovese, manfredi sugo e ricotta, orecchiette con i broccoli.
Venerdì: pasta e ceci, spaghetti alla luciana (con i polipetti), gattò di patate.
Sabato: pasticcio di maccheroni al forno, tagliatelle in bianco al grattè, rigatoni alla Campagnola ( con sugo e ortaggi).Domenica: gnocchi, cannelloni e lasagne.
Non farete in tempo a leggere tutto il menù dalla lavagna, perché Antonio in persona, o il personale di sala, avranno già cominciato a recitarlo stile allegro e contagioso “ jingle swing”, non a caso, sull’arco che separa le due sale c’è un cartello, dipinto a mano dagli artigiani che realizzano quelli dei fruttivendoli. “ E’ APERTO IL MANICOMIO”. Lo spiritoso avviso risale ai tempi di nonno Giovanni, ritiratosi dall’attività nel 2007, che lo volle sin dall’inizio perché all’ora di pranzo – variabile tra le 12, e le 15,00, l’osteria si trasforma in un allegro e vorticoso avvicendarsi di voci e volti multietnico: clienti che chiedono spiegazioni sul menù e camerieri che per fare più presto portano i clienti in cucina per mostrare loro le pietanze.
La clientela è mista e numerosa: studenti, professori universitari, medici, musicisti, anziani del quartiere, commercianti e tanti turisti, soprattutto nei mesi di novembre e dicembre quando si anima la famosa via dei presepi, San Gregorio Armeno. Golosa la proposta di antipasti: mozzarella di bufala aversana e prosciutto crudo,
mozzarella in carrozza, fiori di zucca fritti, farciti con ricotta e prosciutto, e indimenticabili crocchè di patate fatti in casa dalle mani di Teresa e Lucia,
un deja vu che mi riporta all’infanzia… un piano di legno, canovaccio di lino e ordinate file di crocchè fatti da mamma, zio e prozia, pronti per il tuffo nell’olio extravergine, con il pezzetto di fiordilatte semifuso all’interno, sale, pepe, prosciutto cotto e prezzemolo.I secondi si alternano tra i classici salsicce e friarielli,
braciola al ragù, strepitosa parmigiana di melanzane ( che è in realtà un piatto jolly, sta bene in qualunque momento del pasto),
alici fritte, carne al ragù e alla genovese, polpette fritte e al sugo, cotolette e scaloppine, baccalà fritto o alla carrettiera, calamari, frittura di paranza, pescato del giorno alla griglia o, all’acqua pazza. Giostra di contorni partenopei, tutti appetitosi: zucchine alla scapece, friarielli, melanzane sale e pepe ( senza pomodoro), carote all’insalata con olive e prezzemolo, melanzane a “scarpone” insalate miste, broccoli, patate fritte tagliate al momento e verdure alla griglia cotte all’istante.
Carosello napoletano per i dolci: tiramisù, ricotta e pera e profiterole fatti in casa e poi sfogliatelle, babà e le pastiere solo a Pasqua e Natale, olio di gomito di Teresa, Lucia & Co.
A questo punto, la curiosità nasce spontanea: i fornitori. Il pane, profumatissimo arriva da un forno a legna di Sant’Anastasia nel vesuviano, da qui provengono anche i pomodorini del “piennolo”.
Frutta e verdura sono oggetto di una severa selezione fatta tutte le mattine all’alba da Antonio, direttamente al mercato ortofrutticolo. L’olio extra vergine è pugliese, per la carne e per il pesce, Antonio vuole menzionare i suoi fornitori storici di via Tribunali: la pescheria di Don Ciccio e la Macelleria Giordano. La pasta è una buona qualità abruzzese. Per il vino si può scegliere: la storica mescita della casa offre rosso e bianco da tavola dei Campi Flegrei,
oppure, c’è una buona selezione di etichette campane e non. A differenza della maggioranza di questa tipologia di locali, qui non si fa asporto. Antonio vola tra cucina, tavoli e cassa, sempre con il sorriso sulle labbra, calmo pacifico anche nel più totale caos. Perché? Sta realizzando il suo sogno: si è diplomato presso l’istituto tecnico per l’Agricoltura e l’Ambiente, ma nel sangue ha sempre avuto l’osteria, annusava l’aria della trattoria già da quando era nella pancia di Mamma Teresa. L’entusiasmo di far mangiare bene le persone e far conoscere la vera cucina napoletana non si ferma ai fornelli. Periodicamente Antonio ospita stages di americani, inglesi e giapponesi che vogliono andare a fondo e studiare la nostra gastronomia che, più che un modo di cucinare, è uno stile di vita, il caos apparente: a tutti sembra il manicomio, per noi napoletani è la vita di tutti i giorni. A proposito di pazzi e manicomi, ecco il quid: dall’antipasto al dessert con vino della casa e tanto di caffè
espresso spenderete 18,00 euro per un menù con piatti di terra, circa 20,00 se sceglierete piatti di pesce. Tutto buonissimo, tanta allegria, servizio fulmineo e appassionato, aperto per tutto il mese di agosto … “cose ‘e pazz’!
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