Vicoletto Rosario a Portamedina 25
Tel.081.199 14757
Aperti: solo a pranzo dal lunedì al sabato 12,00 – 16,30
chiusura:domenica
Ferie: ultime 2 settimane in agosto
Carte di credito. Bancomat: si
Napoli evoca il caos, il groviglio, il perdersi in una sorta di labirinto della memoria. Questa sensazione la si percepisce immediatamente se si prova a districarsi nel dedalo degli infiniti incroci di vicoli, vicoletti, scalini e gradoni alle spalle di Piazza Carità, in zona Montesanto, quartiere Montecalvario. Per indicare questa zona è sufficiente dire “I Quartieri”. Essi risalgono al 1536, quando iniziò la lunga dominazione spagnola a Napoli. I Quartieri spagnoli si estendono su una superficie molto vasta dal C. Vittorio Emanuele a Via Toledo. Ora, a proposito di caos, per raggiungere questa suggestiva zona della città, vuoi per piacere, vuoi per lavoro, è assolutamente sconsigliato l’uso dell’auto, l’alternativa? Niente autobus, Montesanto è un terminal a tre stazioni: qui arrivano la Metropolitana, la linea ferroviaria della Cumana e la storica funicolare di Montesanto che collega Piazza Montesanto con via Morghen, nelle vicinanze di Castel Sant’Elmo, nella zona collinare della città.
La Funicolare fu inaugurata il 30 maggio 1891, e oltre alle due stazioni terminali, ha una sola stazione intermedia denominata Corso Vittorio Emanuele, all’altezza dell’ex Ospedale Militare.
Percorrendo la Pignasecca, si arriva direttamente in Piazza Carità, che deve il nome alla chiesa di S. Maria La Carità (metà XVI sec), lasciandosi alle spalle il monumento a Salvo D’Acquisto, intitolato alla memoria del Vice brigadiere dei Carabinieri Salvo D’Acquisto, che sacrificò la vita, salvando 22 prigionieri, e, perciò fucilato il 23 settembre 1943, si svolta a destra per Via S.Liborio. Prima di procedere verso la meta low cost, non si possono trascurare alcuni altri insediamenti storici della piazza, in ordine sparso: Palazzo Mastelloni dove visse, fu arrestata e poi giustiziata, Luigia Sanfelice, nobildonna originaria del Regno di Napoli coinvolta nelle vicende della Repubblica Napoletana e protagonista del romanzo di Alexandre Dumas La Sanfelice. Questo stesso palazzo ospita dal 1840 la Ditta Alberto Napolitano di Antonio Napolitano & C. S.r.l., fondata da Antonio Napolitano, costruttore di pianoforti ed abile artigiano, conosciuto in tutto il mondo.
Napoli, almeno dalla metà del 1400 e per altri quattro secoli ha visto nascere, senza soluzione di continuità, in diversi stili architettonici, palazzi nobiliari di grande valore storico, a pochi passi da Palazzo Mastelloni, c’è Palazzo Trabucco, sontuoso edificio e straordinario esempio di architettura civile settecentesca. Poco distante, la Chiesa di San Nicola alla Carità, su via Toledo, è famosa per il suo presepe.
“Il Presepe di San Nicola Nel presepe di san Nicola alla Carità, sono alla portata di tutti, pastori che sul cosiddetto mercato difficilmente verrebbero acquistati, ma che sono, oltre al fatto catechistico, certamente la forza ed il …valore: è la “Vetustà”. Sono pastori che si sono “invecchiati”, lavorando, con l’offrirsi a centinaia di migliaia di persone ogni anno. Pastori che fin dall’origine sono usciti da mani artigiane , creative ed “economiche”, usando quei mezzi che in tempi antichi la povertà faceva avere, ma che l’amore a rappresentare la vita del Cristo, spingeva ad essere fantasiose. Basta guardare la cucitura di alcuni merletti. Son pastori che hanno dato il via a tanti pastori meravigliosi moderni che però escono, spesso, da uno stampo.”
Infine sulla destra della piazza, prima di addentrarsi in via San Liborio, una sorridente scimmietta in bronzo ci “invita”ad entrare: è il simbolo del monumento della gelateria artigianale napoletana, La Scimmia.
In realtà, la gelateria nasce a Taranto grazie a Michele Monacelli nel 1922, quando il gelato freddo si faceva con sale e ghiaccio. Nel 1933 Monacelli si trasferisce a Napoli, nell’attuale sede di Piazza Carità 4 e, perseguendo il principio della qualità, grazie alla scelta di materie prime freschissime, il locale è diventato ben presto un punto di riferimento in Italia. Specialità, gelato alla nocciola e brioche farcita al cioccolato.
II gelato è artigianale come tanti anni fa; la differenza è solo nelle apparecchiature, che hanno subito un’evoluzione tecnica a tutto vantaggio del gelato: le creme, infatti, sono pastorizzate ed omogeneizzate col risultato di un gelato “cremoso” dalla struttura finissima. Le ricette sono tradizionali, cioè quelle di una volta, con la sola differenza degli zuccheri, che sono stati ridotti ad una percentuale del 18-19% sia nei gelati che nei semifreddi, per renderli meno calorici, ed è stata introdotta una varietà di gelato ipocalorica. (tel.081/5520272). Superato l’attacco di golosità, ci si avvia per la lunga Via San Liborio, una delle più famose strade dei Quartieri Spagnoli, che prende il nome da una chiesa ubicata in Piazza Carità, costruita nel 1694 e destinata ad un conservatorio di suore. La vera notorietà di Via S. Liborio, però, è dovuta alla famosissima commedia “Filumena Marturano” di Eduardo De Filippo, nella quale è rievocata la storia di una ragazza diventata prostituta per necessità. Filumena, infatti, abitava in un “basso”, proprio in Via San Liborio, insieme a tanti altri componenti della sua famiglia. E’ famosissimo il monologo della protagonista che racconta la sua infanzia e la dolorosa adolescenza nei “bassi”.
Via San Liborio è ricca di pittoresche traverse e gradinate, verso la fine, in via Rosario a Portamedina (la nostra meta finale) c’è la chiesa di Santa Maria del Rosario a Portamedina, che ha almeno altri due nomi: Chiesa di Santa Giovanna d’Arco e Rosariello a Portamedina, purtroppo è chiusa al pubblico, magro compenso, si può ammirare l’ingresso.
A Via Portamedina è ispirato anche il film della prima regista italiana donna, Elvira Notari, “La Medea di Porta Medina” del 1902, tratto da un fatto di cronaca nera e interpretato recentemente da Lina Sastri. Prima della Notari, Matilde Serao pubblicò il romanzo, in stile insolitamente checoviano: “Suor Giovanna della Croce”, monaca di clausura, espulsa dopo 35 anni dal convento di Suor Orsola Benincasa e costretta a rientrare nei “bassifondi civili” perdendosi in miseria e umiliazioni. Cammino per Via San Liborio, molto lentamente per curiosare nelle traverse, ascoltare le voci provenienti dai “bassi”, mi incuriosisce il nome di un vicolo: “Bonafficiata Vecchia”, qualcosa mi torna in mente, ma non ci arrivo subito…si! La smorfia napoletana e il gioco del lotto.
Questo vicolo deve il nome al termine napoletano che definisce il gioco del lotto. E’ risaputo che da epoca antica, forse greco-romana, esistevano antiche lotterie. Da un documento del 1520 si apprende che le “Beneficiate” erano affidate al controllo degli eletti, quindi da beneficiate a “bonafficiata”. Il termine divenne per i napoletani la serie di cinquine fortunate che veniva affissa (afficiata) con caratteri cubitali sulle porte delle ricevitorie. Si presume che il toponimo assegnato al vicolo sia legato al fatto che nel 1700 in questa zona vi fosse una prima ed importante ricevitoria.
Naturalmente la Smorfia napoletana è quella che vanta la tradizione più ricca in fatto di figure e rappresentazioni in bilico tra mistero e ironia. Prendiamo ad esempio “ ‘O Munaciello”, ovvero il personaggio più nominato e più temuto dai napoletani. Spiritello dispettoso, è lui l’entità più citata nelle leggende, anche perché, al comportamento curioso, spesso si accompagnano benevoli “lasciti” in moneta contante. ‘O Munaciello, infatti, suggerisce ai suoi protetti i numeri da giocare al Lotto, oppure, fa scherzi che possono essere trasformati in numeri vincenti da giocare. Attenzione però, se ricevete la visita di ‘O Munaciello, no lo dite a nessuno: si potrebbe innervosire e non lasciarvi più stare…
E non è tutto, ‘O Munaciello ama le case e oltre a dover fare attenzione a non offenderlo, la famiglia che lo ospita non deve mai contraddirlo e lasciargli sempre una sedia libera, nel caso volesse sedersi. Una vecchia leggenda napoletana racconta che : “Moltissimi anni fa, in un appartamento in Piazza Garibaldi a Napoli abitava una giovane vedova con figli. La donna viveva una vita di stenti, ma nella sua casa alloggiava anche un ospite occulto, ‘O Munaciello, che era trattato con rispetto e riverenza. Commosso dalle lacrime della donna e soddisfatto per le attenzioni ricevute, decise di darle una mano. La donna cominciò a trovare denaro nei punti più disparati dell’appartamento e suo fratello corse subito a giocare i numeri al Lotto: soldi 14, meraviglia 15, fantasma 1. Centrò un terno secco sulla ruota di Napoli e con il ricavato acquistò un fabbricato al Corso Umberto, lo adibì ad albergo ed i proventi servirono al sostentamento suo, della sorella e dei nipoti.”
Cu ‘o juoco
d”a bonafficiata
nisciuno mai
s’è sistemato;
chi joca sempe
tutt”e semmane,
‘na vranca ‘e cicere
se trova ‘mmano!
..Chist’è ‘o juoco
d”o sugnatore,
e ‘o cagna’ vita
resta nu suonno;
tutta ‘na vita
spera nel botto
d’una agognata
quaterna al lotto!…
Lasciato Vico Bonafficiata, intravedo un locale con un cancello, senza, insegna, sembra un deposito, sulla sinistra tante frasche di alloro e due uomini, uno più anziano, l’altro più giovane, mi fanno segno: ho capito, sono arrivata, la trattoria è qui nello stesso posto da 60 anni, dal 26 marzo del 1960. La famiglia Casillo, Clemente, per tutti “Don Antonio”, Maria (Correale, ricordate questo cognome…) e il figlio Vincenzo, pur essendo originari rispettivamente di Ottaviano e San Giuseppe Vesuviano,e mantenendo da sempre rapporti, soprattutto per le forniture, con i paesi di origine, vivono a Napoli da sempre. La famiglia di Clemente era specializzata nella costruzione di botti di legno, ma i figli erano tanti e non tutti potevano imparare il mestiere, così, Clemente a 9 anni fu mandato a Napoli, presso un parente per cominciare a fare “’o uaglione int’ ‘e cantine” (il ragazzo nelle osterie – mescita di una volta). Clemente girando per tutta la città, imparò il mestiere e, alla fine degli anni ’50, già fidanzato con Maria, trova una grotta, completamente da ristrutturare in Vico Rosario a Portamedina. L’avventura comincia: si mettono in proprio, il 26 marzo del 1960 si apre, Clemente e Maria non sono ancora sposati, lei è minorenne e scende in osteria a cucinare accompagnata dalla madre Anna Correale, cuoca sopraffina, la sua trattoria insieme al Marito Michele era in Via Egiziaca a Pizzofalcone , purtroppo ha chiuso nel 1975. I crocchè di patate di donna Anna sono rimasti nella storia e nei ricordi dei napoletani.
Maria e Clemente si sposano nel 1962, la trattoria, con già due anni di vita, era conosciuta tra le migliori in città. Correale, questo nome non mi è nuovo…eh certo! Vittorio Correale, Da Vittorio, Cucina Tipica in Via Diocleziano, ci siamo già stati, è il fratello di Maria, ma che combinazione:).
Insomma, una stirpe di cuochi storici nel cuore di Napoli da circa 60 anni. Il figlio Vincenzo, a 15 giorni era già in trattoria, la cucina ce l’ha nel sangue. Il locale è da sempre un “covo” di intellettuali, artisti, giornalisti e gente comune appassionata della buona cucina napoletana, sana e senza fronzoli. Un luogo dove mangiare bene, spendendo poco, sentendosi a casa, con l’impressione di essere davvero rientrati a casa, magari da mamma con il piatto in tavola. Questo girovagare tra i luoghi del buon mangiare a poco prezzo della mia città mi ha aiutato a comprendere che, nonostante la cucina della nonna e della mamma vengano ormai considerate minori, la gente comune, fatta di professionisti, intellettuali, giornalisti, artisti , impiegati, persone del quartiere, cerca queste cose. Si è creato in città un “giro” di questi luoghi, a tavola ci si scambia indirizzi, informazioni, come se stesse nascendo un vero e propri circolo dei locali storici di città. Il posto è di una semplicità strabiliante, qualcuno abituato ai luoghi più “in”, potrebbe dire insignificante. In effetti, manca l’insegna all’entrata, la trattoria è quasi nascosta da una cappella votiva. L’ingresso della trattoria si riconosce unicamente da… “Don Antonio”, alias Clemente Casillo, che presidia in piedi almeno fino alle 15,00. Se gli chiedete se è da lì che si entra(da un ambiente in cui sono accatastate cassette di acqua minerale e le damigiane di vino della casa, lui risponde sistematicamente, con l’abituale tono da finto burbero che si porta dietro da anni “Signo’ a cca’ nun stamm’ a Pusillec’ (Posillipo) trasìte! (entrate) .
La mancanza dell’insegna è però rimpiazzata però dall’antica usanza della frasca ( i rami con foglie) in bella vista, per far capire che il locale è aperto e che si può mangiare, come si faceva diversi secoli fa: i pellegrini e i viaggiatori che volevano sostare e rifocillarsi per la notte nelle locande, si fermavano soltanto se c’èra la frasca sull’uscio, altrimenti, niente da fare. Da qui il proverbio tutto napoletano ” Levamm’ a frasca a miez'” (lasciamo stare). Clemente e Maria hanno ristrutturato il locale da da soli, era una vecchia grotta in tufo, oggi trasformata in due salette e una micro cucina a vista,
arredata con i mobili di casa, i cassetti per piatti, posate, la dispensa, i pensili per bicchieri e pentolame, il cestino delle spezie, aglio, pepe, sale, basilico, origano, prezzemolo, in un angolo un gran bacile di plastica con dello splendido baccalà messo a spugnare. Quando è pronto, Vincenzo avvisa gli aficionados per telefono.
Le pareti sono di semplice maiolica, molto spartane, a parte la squadra del Napoli e Padre Pio. Come spesso in questi locali, in un angolo la televisione è accesa senza che nessuno la guardi con particolare attenzione. Sembra di esser proiettati d’incanto all’inizio degli anni ’60. Le note di colore arrivano dalla cucina di Mamma Maria: rosso pomodoro, per l’esattezza rosso “piennol.
Sì, perché l’origine vesuviana della famiglia influenza naturalmente il tipo di piatti e ricette, qui il “pomodorino del piennolo”Dop è dappertutto. La cucina di Maria credo sia la stessa da sempre, sei fuochi, pentole e padelle di alluminio, le tradizionali padelle nere per la frittura, dalle quali escono meravigliose fritturine, di paranza, alicelle indorate e fritte e patatine. Attenzione, le patatine fritte di Maria sono pericolose, creano dipendenza, una volta mangiate diventano peggio della nutella.
Naturalmente l’olio viene cambiato ad ogni frittura. Il menù varia ogni giorno , si decide a seconda di quello che si compra al mercato, ma, come nelle famiglie di un tempo, c’è il calendario di un piatto legato ad un giorno della settimana. Vincenzo arriva la mattina presto, fa la spesa concordata con mamma Maria che arriva un po’ più tardi. Papà Clemente, cioè Don’Antonio, sovrintende al tutto, seduto fuori bottega e controllando la situazione. Ecco il calendario della settimana:
Lunedì: Pasta e patate , senza provola mi specifica Maria, io la faccio come la faceva mia madre e alla gente piace. Martedì :pasta al forno , preparata in contenitori monoporzione in modo da non manipolare il piatto ad ogni fetta
Mercoledì: Maccheroni in bianco alla San Francesco con carne trita, piselli, cipolla, pancetta, parmigiano e un paio di pummarolelle.Giovedì:ovviamente mamma ha fatto ‘e gnocchi.Venerdì: Genovese, fiore all’occhiello di Donna Maria. Sabato:in inverno brodo di carne con spaghetti spezzati, d’estate spaghetti al pomodoro fresco. Domenica: Riposo e Napoli allo stadio o in tv. Naturalmente ci sono sempre dei piatti fissi che si preparano ogni giorno : il ragù, il sugo al pomodorino fresco, il “macchiato” con aglio, olio, peperoncino e qualche pomodorino, la pasta e fagioli, ceci, o lenticchie, lasagne a carnevale, spaghetti a vongole o con le telline, con le cozze quando è stagione.
Anche per i secondi siamo fissi sulla tradizione, il misto carne del ragù con polpette, tracchiolelle (spuntature di maiale) e salsicce,
delle favolose polpette fritte,una gloriosa frittura di paranzella (alicelle da mangiare in un boccone con le mani, triglie e merluzzetti freschissimi),
i polipetti affogati, il venerdì è il turno della carne della genovese.
Quasi ogni giorno un magnifico polpo in insalata che ricorda molto quello del fratello Vittorio in via Diocleziano, vi toccherà assaggiarli entrambi per fare la differenza. E ancora coronello in bianco e baccalà fritto o, alla siciliana.
Il profumo del pane arriva dalla cucina, “viene da Cardìto (paese in provincia di Napoli) ogni giorno, è cotto a legna, ce lo porta lo stesso fornitore da 35 anni.
L’olio extravergine di oliva è pugliese, – ne consumiamo 3 litri al giorno mi dice Vincenzo – il vino, naturalmente è vesuviano, caprettone e falanghina ( praticamente Lacryma Christi Bianco senza denominazione) il bianco e , naturalmente, piedi rosso. Entrambi molto bevibili , freschi e fruttati. Serviti nel classico bicchiere da osteria che ormai adoro.
I contorni sono semplici, i classici napoletani. Friarielli, broccoli lessi, carciofi,peperoni in padella, freschissime insalate miste arricchite da pomodorini del piennolo un po’ meno maturi e olive bianche e,
naturalmente, le patate fritte tagliate al momento, in questo i due fratelli Maria e Vittorio sono fenomenali, è difficile dire chi sia il più veloce.
Niente dessert, per quelli basta allungarsi in Piazza Carità alla Gelateria La Scimmia. Il caffè sì, lo fa Maria con la moka, rigorosamente servito in vetro.
Il servizio è sfacciatamente spartano, self service ad oltranza: tovaglie e tovaglioli di carta, cestelli di posate di casa con i tradizionali coltelli a seghetta, nessuno uguale all’altro, bicchieri da prendere nella credenza.
Pane e bevande li serve Vincenzo. Il locale si affolla già dalle 12,00, cominciano a fioccare le ordinazioni da asporto ad orario: “ Mà, tre paste al forno a meno un quarto”, dice Vincenzo alla mamma che memorizza senza scrivere. Arrivano i medici del vicino Ospedale Pellegrini, i professionisti dei vicini studi di Piazza Carità e Via Toledo, e poi gente sparsa del quartiere, pubblico quotidiano, cliente da 20, 30 o, persino 40 anni, come un delizioso nonno con nipotino, ancora in grembiulino blu, che viene ogni giorno dopo la scuola,
o, un vecchio signore che ordina, solo dopo aver letto tutto il giornale. Si conoscono tutti qui, e anche se arrivano nuovi clienti, quella che traspare dagli occhi di Maria e Vincenzo è la voglia di accontentare le persone, di far mangiare bene la gente, di fare con passione il proprio lavoro, ogni giorno da 60 anni. La maggior parte delle persone ordina il primo piatto e il napoletano verace si riconosce se, alla pasta al ragù, accompagna il pane. Tra i clienti abituali, noto da lontano una signora anziana, esile e molto distinta, ordina acqua, pasta e fagioli,
e una fritturina di paranza. Mente attende , sbocconcella un po’ di pane e si guarda intorno, con l’aria di chi ha voglia di chiacchierare. Mi avvicino e chiedo se posso sedere con lei, i suoi occhi sorridono, mi dice si con molto entusiasmo, si chiama Raimonda, viene qua da 40 anni, vive sola in uno dei vicoli di Via San Liborio, chiacchieriamo, solo dopo un certo tempo, ( non si nota affatto) lei mi dice: “ Sa, io non la vedo, solo un’ombra, sto diventando cieca”. Come fossimo amiche da sempre mi racconta tutta la sua vita:” facevo la prima sarta da Sarli (noto stilista napoletano), ero sempre molto elegante, anche carina ma, mia madre era possessiva e così non mi sono sposata. Sono sempre stata curiosa, non ho studiato ho solo la Quinta elementare, leggevo tanto, avrei voluto fare l’architetto. Oggi in Tv guardo solo Ballarò, Santoro, il Telegiornale, Report e qualche volta Vespa. ( fantastica penso tra me e me) . La fisso ammirata, il coraggio e la serena allegria di questa donna , cieca da quasi 20 anni, mi hanno colpita al cuore. La sua malattia non la ferma, esce da sola, va persino in vacanza dalle suore in estate, cucina, fa tutto da sé. Le chiedo di parlarmi delle differenze della vita in questi quartieri negli anni del dopoguerra, mi racconta dei rifugi dalle bombe vicino alla Pignasecca, della solidarietà tra le persone. Oggi – continua Raimonda – sono tutti cattivi, avidi e sospettosi, conta solo chi ha soldi. Qui dentro sto bene, l’aria è quella di una volta, tutti mi sono affezionati e io lo sento, lo vedo con gli occhi dell’anima, la stessa di Maria, Clemente e Vincenzo che perseverano ogni giorno, contro ogni difficoltà per il piacere di far mangiar bene la gente senza “spennarla”. Per un menu’ completo di carne spenderete intorno ai 15 euro, di pesce sui 20 euro, acqua e vino della casa inclusi. Nella mia vita ho viaggiato abbastanza, fuori da sterili campanilismi che non mi appartengono, credo di poter affermare che, forse, non c’è un’altra città, grande come Napoli, pur con tutti i suoi problemi, dove esistono ancora luoghi che fanno bene al corpo e allo spirito come la trattoria della famiglia Casillo.
Qui, con l’equivalente di tre tornesi, uscirete rinati, anima e corpo. Vi sentirete sereni, sicuramente convinti della bellezza della vita e della grande ricchezza che possiamo ricevere ancora dalle persone, nonostante tutto.
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