Ristorante il Gobbetto
Vico Sergente Maggiore 8 (Quartieri Spagnoli – centro storico)
Tel.39+081.2512435
Aperto: tutti i giorni a pranzo e cena (12,00 – 15,30 – 19,00- 24,00)
Chiuso: lunedì
Carte di credito e bancomat: si
A pochi passi dai gioielli d’arte famosi in tutto il mondo: Palazzo Reale, Piazza del Plebiscito con la Basilica di San Francesco di Paola, la Galleria Umberto e Via Toledo, nascosta in quel dedalo di “vichi e vicarielli” che formano“ i Quartieri Spagnoli”, spunta luminosa, confusa tra attività commerciali e “bassi”, un’insegna d’altri tempi “Ristorante Il Gobbetto”. Ristorante in un vicolo? A modo suo e grazie alle trascorse esperienze del proprietario Ciro Esposito Alaia, direi proprio di sì.
Ciro è qui dal 1977, dopo aver fatto gavetta e “rubato” il mestiere da Ciro a Santa Lucia, Il Cantinone, la Cantinella del Mare e da ultimo, al Cucciolo al vicino Vico Berio, dove gestiva ill locale con suo fratello. Poi la decisione di mettersi in proprio, già, perché per Ciro la ristorazione, pur se tradizionale, è altra cosa: è esperienza, improvvisazione, capacità di rivisitare un piatto, presentazione a tavola, servizio semplice e impeccabile. Quando decise di imbarcarsi da solo in una nuova avventura scelse un nome scaramantico: “il Gobbetto” ( a Napoli toccare la gobba di qualcuno si dice porti fortuna). In realtà il nome deriva soprattutto da una piccola statua lignea che troneggia nel locale, raffigurante proprio un gobbetto, che Ciro comprò dalle mani di un artigiano lucano tanti anni fa.
Il doppio cognome del nostro patron ci suggerisce un’origine non del tutto partenopea, mi dice poi Ciro, di esser soltanto nato a Somma Vesuviana (Na) ma di esser “cresciuto e pasciuto” sempre “ncopp’e quartiere”, in Rua Catalana per l’esattezza. Quando 35 anni fa, il nostro oste – ristoratore decide di mettersi in proprio, sceglie una zona strategica ad un tiro di schioppo dai monumenti più visitati, dai negozi di Via Toledo e dai Teatri San Carlo ed Augusteo. I suoi intenti sono chiari, conto leggero, servizio semplice, menù di solida tradizione, accompagnato, per rispetto verso gli ospiti non napoletani, con piatti classici della cucina nazionale, ecco il perché del Ristorante al posto di Osteria, o, Trattoria. In realtà, l’aria della Napoli verace si respira dappertutto, persino nel divertentissimo, quanto commovente, accento di Rosario, di nascita ucraina, approdato a Napoli da oltre 5 anni che parla solo il nostro dialetto con una deliziosa inflessione dell’est, accompagnata da una cortesia ed educazione rare da trovare in giro. Diciamoci la verità… posso mai risparmiarvi un po’ di storia di questi meravigliosi posti, che sarebbero un paradisio se non fossero invasi dal degrado umano e ambientale?
Partiamo proprio da Palazzo Reale, costruito nel 1600 da Domenico Fontana, esso divenne la residenza dei viceré spagnoli e poi di quelli austriaci ed, in seguito, dei re di casa Borbone. Dopo l’Unità d’Italia fu eletta residenza napoletana dei sovrani di Casa Savoia. Nel 1888, per volere di Umberto I, le nicchie esterne furono occupate da gigantesche statue dei re di Napoli: Ruggero il Normanno, Federico II di Svevia, Carlo I d’Angiò, Alfonso I d’Aragona, Carlo V d’Asburgo, Carlo III di Borbone, Gioacchino Murat e Vittorio Emanuele II di Savoia. Ora, non tutti sanno che c’è un’allegra storiella delle statue di Palazzo Reale, una lunga discussione che va avanti dalla fine dell’Ottocento: “Carlo V d’Asburgo, indicando una pozza d’acqua in terra esclama: “Chi ha pisciato ccà ‘nterra?” (chi ha fatto pipì qui per terra)? Carlo III di Borbone risponde: “I nun saccio niente” (Io non ne so niente), mentre Gioacchino Murat ribatte: “ song’ stat’ io e allora?” (sono stato io, e allora?). A questo punto, interviene Vittorio Emanuele II, il più drastico, sguaina la spada e urla: “ mò to taglio!” (ora te lo taglio).
Queste straordinarie statue, ormai hanno un ruolo importante nella città di Napoli, sono opere che vivono con la città. I napoletani ci passano, ci parlano, i ragazzini giocano a pallone, in fondo la storiella sottolinea l’aspetto umano dei regnanti smussando un po’ gli aspetti di sovrana regalità e sottolineando la proverbiale ironia partenopea. L’ingresso di Palazzo Reale guarda su Piazza del Plebiscito, dove si affacciano anche la basilica di San Francesco di Paola, Palazzo Salerno e il Palazzo della Prefettura.
È divertente il “gioco”che i napoletani fanno spesso fare ai turisti nella piazza. Il turista dovrà attraversarla ad occhi bendati, partendo dal palazzo reale fino ad attraversare lo spazio tra le due statue di Carlo III di Borbone e Ferdinando I, camminando in pratica lungo una linea retta. La leggera pendenza della superficie della piazza farà virare la persona bendata, non consentendole di proseguire diritto ed attraversare le due statue. Quando la persona aprirà gli occhi rimarrà stupita dalla traiettoria che ha seguito camminando, notando di essersi comportato come una persona che si perde nel deserto. Al centro del colonnato spicca la Basilica di San Francesco di Paola, elemento dominante, eretta da Ferdinando I, come ex voto per aver riconquistato il regno dopo il decennio di dominio francese. Adiacente al Palazzo Reale, sorge maestoso il Teatro San Carlo, tra i più grandi ed antichi teatri europei: 40 anni più vecchio della Scala e 50 anni ancora più della Fenice. Dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’Umanità, è tra i più rinomati teatri d’opera di tutta Italia.
Il teatro si affaccia da una parte su via San Carlo e dall’altra su Piazza Trieste e Trento, già Piazza S.Ferdinando, ha una forma asimmetrica e angolosa dove troneggia la fontana che e’ chiamata affettuosamente dai napoletani “‘a carcioffola,’a funtana do comandante ( Achille Lauro, già sindaco di Napoli), non è un’opera dall’alto valore artistico, ma i napoletani le sono molto affezionati. La vasca è di forma circolare e non si può non rimanere meravigliati di fronte allo spettacolo dell’acqua che zampilla allegramente. “A carcioffola” è nel cuore della gente ed è un punto di ritrovo per le calde serate estive per chi non ha altre possibilità.
Non è finita qui, ancora due splendori circondano questa suggestiva piazza: il Caffè Gambrinus e la Galleria Umberto I. Il Gran Caffè Gambrinus è un locale storico di Napoli, il suo nome prende spunto da quello di Joannus Primus, re delle Fiandre, leggendario inventore della birra. Arredato in stile Liberty, conserva al suo interno stucchi, statue e quadri della fine dell’800 realizzate da importanti artisti napoletani. Tra queste vi sono anche opere di Gabriele D’Annunzio e Filippo Tommaso Marinetti.
Nato nel 1860 dopo l’unificazione d’Italia, fondato dall’imprenditore Vincenzo Apuzzo, riscosse immediatamente un enorme successo e riscontro da parte della popolazione di ogni ceto, richiamata dall’opera dei migliori pasticceri, gelatai, e baristi da tutta Europa, di cui si avvalse il suo fondatore; ciò, nello stesso tempo, gli procurò subito la benevolenza della famiglia reale ed il riconoscimento per decreto di “Fornitore della Real Casa”. Dopo Apuzzo la gestione passò a Mario Vacca, che negli anni 1889-1890 per affrescare il locale chiamò i migliori impressionisti napoletani: Luca Postiglione, Pietro Scoppetta, Vincenzo Volpe, Eduardo Matania, Attilio Pratella, Giuseppe Alberto Cocco, Giuseppe Casciaro, Giuseppe Chiarolanza, Gaetano Esposito, Vincenzo Migliaro, Vincenzo Irolli e Vincenzo Caprile. Dalla bella epoque in poi passarono nelle sue sale dorate personaggi illustri d’ogni tempo e paese, diventati poi clienti affezionati: Gabriele D’Annunzio – che ai tavolini del caffè scrisse la poesia “La Vucchella” musicata poi da Tosti -, Benedetto Croce, Matilde Serao, Eduardo Scarpetta, Totò e i De Filippo, Ernest Hemingway, Oscar Wilde, Jean Paul Sartre, fra gli altri.
Il bar è di antica origine. Dalla Turchia si estese a Napoli per la particolare abitudine della consumazione del caffè diffusosi col regime spagnolo. Il primo bar fu proprio il “Caffè”, dove persone di cultura amavano raccogliersi per degustare tale bevanda e intrattenersi in argomenti letterari. La storia di una città si consuma per le strade, nelle case, nei suoi locali, che risultano quindi, fondamentali nel recupero di una parte del suo passato, la tradizione orale per una critica lettura del presente; una parte di storia che è passata nei caffè, nei ristoranti, nelle pizzerie, attraverso aneddoti e citazioni che gli stessi proprietari custodiscono come un’ eredità da non disperdere. A proposito di ritrovi, fino al 1884, anno dell’epidemia di colera, la zona su cui sorge oggi la Galleria Umberto era intensamente urbanizzata e caratterizzata da un groviglio di strade parallele, unite da vicoli, che da via Toledo sboccavano di fronte a Castel Nuovo. Questi vicoli godevano di cattiva fama in quanto vi si trovavano taverne, case di malaffare e vi si consumavano delitti di ogni genere. Questa fama perdurò per quasi tutto l’Ottocento, finché nel 1885, grazie alla legge del Risanamento, la zona di Santa Brigida ricevette una nuova definizione territoriale. Il progetto prevedeva una galleria a quattro braccia che si intersecavano in una crociera ottagonale coperta da una cupola.
Entrando dal lato del Teatro San Carlo ci s’imbatte nella lapide dedicata a Paolo Boubée. Nella parte sottostante la Galleria esiste un’altra crociera, di dimensioni minori, con centro il teatro della Belle Epoque, il Salone Margherita il cafè-chantant di Napoli, il primo mai aperto in Italia. Nacque per idea dei fratelli Marino di Napoli, che decisero di importare il modello dei cafè chantant francesi in Italia.Venne inaugurato il 15 novembre 1890 nella Galleria Umberto I alla presenza della créme cittadina: principesse, contesse, uomini politici e giornalisti come Matilde Serao presenziarono alla prima del nuovo locale che divenne il simbolo della Belle époque italiana.
Importanti e famosi artisti che iniziarono la loro carriera proprio nei caffè-concerto furono Anna Fougez, Lina Cavalieri, Lydia Johnson, Leopoldo Fregoli, Ettore Petrolini, Raffaele Viviani, che calcarono tutti le assi del Salone Margherita.
Tra le star internazionali non mancarono La Bella Otero e Cléo de Mérode. Il teatro fu chiuso nel 1982. Dopo l’acquisto della struttura da parte di privati, il Salone Margherita ha riaperto i battenti e, in attesa di restauro, ospita spettacoli di teatro e di varietà, mostre e serate di tango. Napoli, si sa, oltre a vantare tanti primati, buoni o cattivi che siano, è anche la città dei miracoli: torniamo a pochi metri da Vico Sergente Maggiore e da Via Speranzella, qui c’è un’antica sedia di legno, ricoperta di vecchia tappezzeria e diventata luogo di preghiera per le coppie che non possono avere figli.
Via Speranzella in ricordo della chiesa di Santa Maria della Speranza, appunto detta Speranzella. Qui c’èra la friggitoria di Don Amalia, che fece incantare Salvatore di Giacomo “Donna Amalia Speranzella quanno frie paste crisciute, mena l’olio int’’a tiella, Donna Amalia ‘a speranzella”. La chiesa fu fondata nel 1559 dal nobile spagnolo Juan de Ciria Portocarrero. L’intitolazione dedicata a Santa Rita della Speranzella risale al secolo scorso e deriva dalla diffusione del culto della santa di Cascia. La sedia-reliquia, appartenuta alla prima santa nata a Napoli, è custodita da oltre due secoli al secondo piano di una casa-santuario in Vico Tre Re a Toledo. Affissi alle pareti dell’appartamento, centinaia di annunci di nascite di colore rosa e azzurro ringraziano la “santarella” per la grazia ricevuta.
“La santa ti aspetta”, dice suora Elisa, energica 65enne, accogliendo centinaia di uomini e donne di tutte le età, che ogni giorno affollano la dimora, con annessa chiesa, diventata meta fissa del turismo religioso. Al termine della messa, una scala ripida conduce i fedeli lungo uno stretto corridoio in un appartamento di tre stanze dove Santa Maria Francesca delle Cinque Piaghe, nata Anna Maria Rosa Nicoletta Gallo, trascorse metà della sua vita in castità e sofferenza, fino alla sua morte avvenuta nel 1791, all’età di 76 anni. Ritratti della compatrona di Napoli, insieme a biglietti di ringraziamento spediti da ogni parte d’Italia e dall’estero, adornano le mura spoglie dell’appartamento. In un angolo, sotto una vecchia coperta di lana, riposa la sedia “dei miracoli”. “Sei sposata?”, chiede sorella Maria Giuliana a una giovane donna seduta sulla sedia di legno, prima di sfiorarle il ventre con un reliquiario, che protegge dal tempo una vertebra e un piccolo ciuffo di capelli appartenuti alla santa. A qualche minuto a piedi da Vico Tre Re a Toledo, procedendo a destra per Via Speranzella, dopo qualche centinaio di metri svoltiamo a sinistra su Vico Sergente Maggiore e scendendo, sulla destra ci ritroviamo davanti al locale di Ciro Esposito Alaia: Il Gobbetto. Intanto una curiosità… chi è il Sergente Maggiore al quale è intitolata la strada? Per trovare una risposta abbastanza logica, dobbiamo risalire al periodo del vicereame austriaco succeduto a quello degli spagnoli: durante la permanenza austriaca, durata quasi trent’anni, militari ed ufficiali alloggiarono negli stessi quartieri occupati dagli spagnoli; ora, per gli austriaci il grado di Sergente Maggiore corrispondeva a quello di viceré, ergo comandante generale in capo delle milizie. Ecco spiegato il mistero, il vicolo è dedicato ad un generale non ad un anonimo sergente.
Torniamo al n. 8, l’ingresso è allegro, colorato, ma senza nessun indizio che faccia pensare ad uno specchietto per le allodole. Qui tutto è storia, ricordi, regali di amici, nulla di artefatto. La sala lunga e piacevolmente raccolta, è divisa da un arco in mattoncini, sotto il quale c’è il banco frigo con contorni e verdure varie. Tavoli in legno e sedie impagliate, mise en place semplice e accurata. La cucina è in fondo, quasi a vista, i clienti quotidiani, entrano e vanno curiosare senza problemi.
Alle pareti due vecchie grandi padelle con le ricette che sono il fiore all’occhiello: i “maccarune aumm, aumm” e il filetto alla “Nerone”. I due piatti sono lo specchio dell’indole di Ciro, tradizione e tecnica imparata in tanti anni di gavetta. Andiamo al menù, contrariamente a quanto accade nelle trattorie e/o osterie, il menù non è giornaliero e neanche recitato a voce. E’ un piccolo quaderno con copertina e logo : Il Gobbetto Ristorante dal 1977.
I piatti in carta sono tanti, il menù cambia quattro volte l’anno con le stagioni. Naturalmente prevale la tradizione napoletana, ma, ci sono anche classici della cucina nazionale come le scaloppine, le cotolette, risotto alla pescatora, o, filetto alla griglia. Le scelte ovvie si fermano qui, ora veniamo alla sostanza. Come sempre si parte dal pane, ottimo, croccante all’esterno, consistente e sapida la mollica, fornitore personale, un mini market dei Quartieri.
Ciro è “figlio d’arte”, in effetti, prima di cominciare la gavetta nei ristoranti, è stato dietro i genitori, anch’essi proprietari di una trattoria che oggi non c’è più. Il suo piatto forte non manca mai : “e maccarune aumm aumm”, trafila corta condita con un sugo preparato con pomodori pelati, basilico, olio, cipolla, pancetta, trito di salsiccia, melanzane a funghetti, mozzarella e parmigiano grattugiato. Tanto per stare leggeri. Gli antipasti sono quelli della tradizione: tante verdure, alla griglia, in padella o fritte, mozzarella di bufala dell’agro aversano, salumi, pane, burro e alici, insalata di mare, polpo in insalata, bruschette ed alici marinate.
I primi piatti giocano in equilibrio tra mare e terra, a seconda della disponibilità del mercato: spaghetti a vongole, o, allo scoglio, il super classico “scarpariello”, ovvero, bucatini, salsa di pomodoro, meglio se del “piennolo”, pecorino grattugiato, olio, peperoncino, aglio, basilico, sale e pepe; ancora, linguine alla puttanesca, il minestrone napoletano, con le tradizionali verdure oltre a cavolo, patate, spinaci e scorza di parmigiano, immancabile, la pasta mista patate e provola. Tutte presenti all’appello le minestre: pasta e fagioli, lenticchie, ceci, piselli, zucca, cavolo. I primi al forno, solo su ordinazione, Ciro non ama servire piatti “rinsecchiti” o riscaldati. Tra i secondi il pesce la fa da padrone, arriva dal vicino mercato della Pignasecca. Mussillo in bianco con le olive, fritto, o, in cassuola, coroniello in bianco, frittura di baccalà e alici, oppure calamari fritti, sautè di vongole,polpi alla “luciana” e una mitica zuppa di cozze. Se, “ ‘e maccarune aumm aumm” sono il piatto forte di terra, quello di mare è senza dubbio ‘o pignatiello ‘e zì Papele (nomignolo in dialetto per Raffaele),
si tratta di una cassuola con crostini abbrustoliti, sugo di mare ristretto, moscardini, vongole, lupini, telline (arselle), gamberi e calamari, sale e una spruzzata di pepe, il solo profumo manda in estasi, mangiarlo vale un pranzo intero, provare per credere. Sul lato carne ci manteniamo sul tradizionale, grigliata mista, filetto, carne della genovese e del ragù quando sono di giornata. I contorni fanno la gioia dei vegetariani, verdure di stagione sempre fresche. Super tradizionali i dolci: pastiera, crostate e torta caprese.
Vi starete chiedendo:” ma le foto dei piatti”? Ebbene sì, sono capitata di Giovedì Santo e gira e rigira, sono sei mesi che vado in cerca di luoghi sani, antichi e low cost, il cerchio non si è ancora ristretto ma, le coincidenze possono capitare: alle mie spalle, in sala dal Gobbetto, chi ti ritrovo?
Due facce conosciute by FB, gourmet di tradizione e fedeli lettori di questo blog, clienti quotidiani venuti appunto per la zuppa di cozze del Giovedì Santo.
La foto di “famiglia” è inevitabile, Ciro è in evidente imbarazzo,
lui non è un uomo di sala, il suo posto è ai fornelli, lì è felice,
perché come ha ribadito con una simpatica cartolina attaccata in bella vista al muro…
ovvero: ‘a vita è nu muorz’…
A proposito di “muorz” , vediamo quanto costa mangiare al Gobbetto: antipasti misti 5 – 6 euro; primi piatti di terra dai 5 ai 7 euro; primi di mare 9 euro; secondi di carne tra 6 e 8 euro, idem per polpi alla luciana, zuppa di cozze e frittura di paranza; il pignatiello vale 9 euro, ma, non ce la fareste a mangiare altro; dessert 4 euro. Insomma, a conti fatti, arriverete a 22 – 23 euro inclusi vino della casa (falanghina o, aglianico del Beneventano), il magnifico pane di cui sopra, la cordialità napo-ucraina di Rosario, la gentilezza e i modi da “io Signore lo nacqui” di Ciro Esposito Alaia.
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