di Monica Piscitelli
La collocazione spazio – temporale
Fuorigrotta è la porta per i Campi ardenti. Il quartiere deve il suo nome alla sua posizione “al di fuori della grotta”, ovvero in quella zona che anticamente era di collegamento, attraverso gallerie (la attuale Quattro Giornate è del 1940) tra Neapolis e l’antica Puteoli.
Quando quest’ultima, già alla fine del II secolo a.C, divenne il più importante scalo commerciale del Mediterraneo occidentale, si rese necessario realizzare un collegamento stradale con la “città nuova”. Si aprì allora la cosiddetta via per colles, che attraversandola, sottrasse all’isolamento la zona di “Fuorigrotta” poi definitivamente divenuta via di passaggio con il traforo della collina di Posillipo chiamato Crypta Neapolitana.
I documenti e le raffigurazioni a tutti i primi del Novecento, la descrivono come un’ampia e malsana zona di campagna. Francesco Alvino (1845) racconta che “il villaggio di Fuorigrotta (…) è tutto occupato dal monte di Posillipo, che per molte ore del giorno gli toglie la benefica luce del sole, perciò è tetro ed umido. Viene abitato da circa 2300 persone e quasi tutte addette all’agricoltura; il suo territorio produce grano, frutta e mediocre vino (…). Recente è la fondazione di questo villaggio, mentre in un’antica pergamena citata dal Chiarito, sotto Costantino si ha che in Fuorigrotta erano paludi e terre selvagge (…). Come pure in due carte citate da Giustiniani, sotto Carlo di Durazzo, chiamavasi luogo e non ancora abitato. Però sorgeva a villaggio già a’ tempi del Capaccio ed egli lo descrive d’aere nociva ed umida. Infatti anche il Mormile nella descrizione di Napoli e Pozzuoli dice che tutto il villaggio e le campagne erano piene di umidi vapori e lo rendevano inabitabile, ma ciò ai suoi tempi già cominciava a svanire per la diligente cultura”.
Il quartiere crebbe e assunse il suo aspetto attuale in epoca fascista, con la creazione del Viale Augusto e della Mostra d’Oltremare nel 1940. Alla luce di quest’ultima, destinata a gran centro esposizioni, il vecchio quartiere fu sventrato: furono abbattute vecchie abitazioni, e con esse anche la storica vecchia Chiesa di S. Vitale che custodiva le spoglie di Giacomo Leopardi poi traslate al Parco Virgiliano.
Il quartiere oggi e la Pizzeria Cafasso
Fuorigrotta si presenta come un quartiere moderno, un quartiere che solo dagli anni Novanta in poi si è guadagnato una sua dignità accogliendo il ceto medio della città, passaggio che ne ha fatto un’area ambita come il Vomero, pur non avendone lo smalto.
Solo un appassionato del genere, può cogliere il pregio dei pochi elementi architettonici degni di nota, per lo più risalenti al secolo scorso: le stazioni della ferrovia Cumana costruite dall’architetto Fradiano Frediani intorno al 1939; l’edificio della Facoltà di ingegneria del 1955, una serie di case popolari, lo stadio San Paolo inaugurato nel 1959 che deve il suo nome al fatto che si racconta che San Paolo raggiunse l’Italia attraccando a Fuorigrotta.
Proprio a un passo da questo quadrilatero, nel 1953, Giuseppe Capasso, dopo aver lavorato lunghi anni nella pizzeria dei genitori, fonda la pizzeria Capasso (oggi Cafasso) con la moglie Elena Gonzales. Me ne racconta la storia il figlio Ugo che con i fratelli Antonio e Rosario (questi scomparso quattro anni fa), ha portato avanti il locale fino ai giorni nostri. Tra le prime cose che mi mostra, un ritaglio di giornale nel quale la pizzeria di famiglia è descritta come “un luogo insolito”. Nata come Pizzeria “Capasso”, a pochi anni dalla sua apertura, il locale cambia nome diventando “Cafasso”. Ma a cambiare nome non è solo la pizzeria, ma la famiglia stessa. La causa, un errore burocratico di trascrizione del cognome scoperto in occasione della rivendicazione della pensione di guerra del nonno. Ancora oggi, in città, ci sono fratelli e sorelle che portano il cognome Capasso e altri che portano quello Cafasso, semplicemente perché non tutti hanno affrontato, al tempo, la lunga procedura di correzione.
La passione dei Cafasso per la pizza risale a un bel pezzo più indietro nel tempo di Giuseppe Cafasso, Don Peppino, che, mettendo da parte le sue aspirazioni a un tranquillo lavoro da impiegato, avviò la pizzeria rendendola negli anni un riferimento tra quelle della città. Ugo, che oggi si alterna al banco con il figlio Stefano, mi racconta che anche i nonni Giovanni e Adele (nata Lieto) lo erano. Anzi, che era stata proprio la nonna Adele, pizzaiola proveniente da una famiglia di pizzaioli, a convincere il nonno, che era impiegato in una fabbrica, a dedicarsi a quest’arte. Avevano cosi’ fondato insieme, sui primi del ‘900, la pizzeria Capasso a Porta San Gennaro E’ qui che Don Peppino impara a fare le pizze, prima di lasciare il locale di famiglia per creare la sua attività a Fuorigrotta. La Pizzeria Capasso di Via Foria, tra quelle storiche della città, dopo la morte dei genitori, è rimasta nelle mani dei fratelli di Giuseppe, Antonio, scomparso circa 10 anni fa, e Vincenzo, ottantunenne, che ancor oggi la guida con il figlio.
In un ambiente semplice e familiare, la pizzeria Cafasso, con i suoi 80 coperti, propone, elaborata con la miscela di farine preparata a mano secondo la ricetta di Don Peppino, la sua pizza, piccola e vaporosa. Cornicione ben demarcato e perfetta rotondità. “La pizza è come il caffè. Una pizzeria adotta una miscela di farine come un bar adotta quella di caffè. E’ un aspetto che le differenzia profondamente” dice Ugo Cafasso.
L’impasto, del quale si occupa, oggi, per lo più Stefano, è preparato al mattino e utilizzato per le pizze sfornate a partire dal mattino successivo, per l’intera giornata. La proposta è sostanzialmente centrata sulla tradizione: Margherita, Marinara, Ripieno e tutte le più classiche.
Cavalli di battaglia del locale che, racconta Ugo, più per spirito di servizio che per convinzione, viene incontro alle richieste dei clienti più giovani con qualche strappo alla regola (una per tutte la pizza con le patatine), sono il “Calzone ripieno di scarola” (con la sua crosticina di formaggio grattugiato sopra) ; la “Doc” (filetto di pomodoro, mozzarella di bufala, basilico e olio extra vergine a crudo) e la “Ciro” (provola, filetto di pesce spada affumicato, rucola e scaglie di parmigiano).
Le precedono la classica fritturina all’italiana, “rigorosamente preparata fresca ogni mattina” sottolinea Ugo, crocchè, arancini, frittatine e qualche antipasto (alici marinate, insalata di mare ecc) tra quelli elencati della carta della Osteria che viaggia parallelamente a l’attività di Pizzeria. Anche qui la scelta è più che tradizionale. Tra i primi, dagli Gnocchi alla sorrentina agli Spaghetti alle vongole o alle cozze; tra i secondi, dalla Cotoletta alla milanese alla Bistecca alla pizzaiola oppure, per il pesce (per lo più indicato come congelato), dal Baccalà (fritto o alla siciliana) ai Polpi in cassuola.
Un fritto per iniziare, pizza e birra nazionale mediamente 15 euro, servizio incluso.
La pizza di Cafasso, si diceva, è piccola come quella che si incontra più spesso al Vomero. Per chi ritiene lo sia troppo, con un sovrapprezzo del 50% viene servita una versione gigante che mette in pace lo stomaco. Al ristorante si cena con, mediamente, dall’antipasto al dolce, con poco meno di 30 euro, servizio incluso.
Per l’immagine ottocentesca di Fuorigrotta: http://www.flickr.com/photos/9764655@N07/2154272236/
Pizzeria Fratelli Cafasso
Via Giulio Cesare, 156
tel. 081 2395281
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