Via Nicotera 13
Tel.081.41.65.41 – maxmarangio@hotmail.it
Aperti tutti i giorni, pranzo e cena ( 12,30 – 15,00; 19,00 – 23,00.)
Chiuso: domenica sera
Ferie: due settimane centrali in agosto
Facciamo qualche passo indietro, un tre secoli, più o meno. Sì, perché le mattonelle di stile vietrese che rivestono le pareti dell’Osteria La Mattonella in Via Giovanni Nicotera, risalgono proprio al 17oo. L’autore pare, sia un certo Salvatore delle Donne.
Questo luogo è davvero uno scrigno della memoria, qui ci sono segni della storia di Napoli rari e introvabili, come il pozzo chiuso che corrisponde con Napoli sotterranea, un complesso di cavità e cunicoli scavati nel sottosuolo tufaceo della città. Al suo interno si collocano soprattutto strutture e ambienti risalenti al periodo classico greco-romano. Un’eccezionale testimonianza archeologica, i primi manufatti che si ritrovano in questi affascinanti luoghi persi nell’oscurità del sottosuolo, risalgono a circa 5000 anni fa, quasi alla fine dell’era preistorica, fino ad arrivare ai resti delle strutture realizzate nel Seicento. Sono diversi i punti di accesso a Napoli Sotterranea: il primo si trova a Piazza San Gaetano, mentre il secondo a via Sant’Anna di Palazzo, a due passi da Via Nicotèra.
Un altro richiamo al passato viene dai grandi chiodi rimasti attaccati alle pareti che testimoniano la precedente presenza di stalle confinanti con i giardini dell’attiguo Palazzo Monteroduni, poco più giù sulla destra, dove si attaccavano i cavalli.
In realtà, le pareti dell’osteria, che sopra ho definito semplicisticamente mattonelle, si rifanno all’etimologia ed alla storia dell’antica “ riggiola” napoletana. Nei secoli scorsi per “riggiola” s’intendeva la semplice piastrella in cotto grezzo, adatta a piastrellare un pavimento. Stante questa funzione, l’ipotesi più accreditata vuole che il termine derivi da un latino volgare “rubjòla” con translitterazione di jo in ggi+ vocale come succede per il classico habeo diventato tardo latino habjo e napoletano aggio. Rubjola, vorrebbe dire, da un latino della decadenza, dal classico ruber, “rossiccia”, proprio ad indicare il tipico colore rosso della terracotta, materiale con il quale si fabbricava l’originaria riggiola napoletana. Questa è la tesi del nostro grande Lello Brak. Una tesi più complicata vorrebbe riportarne il significato all’origine spagnola. La caratteristica della riggiola è di essere molto resistente.
L’operaio che pavimenta le stanze è chiamato “’o riggiularo” e sta ad indicare una persona particolarmente esperta nella posa delle riggiole, per quanto riguarda sia l’eventuale taglio da eseguire sia la vera e propria disposizione a terra che nessun altro è in grado di fare con tale abilità.
La storia dei “riggiolari” napoletani ha suscitato notevole interesse tra gli studiosi di ceramica. Valutando attentamente la situazione economica e sociale del territorio partenopeo si è finalmente compreso che il sorgere, a partire dal primo decennio dell’Ottocento, di tante fabbriche di mattonelle, specialmente tra via della Marinella, il Borgo Loreto e la Piazza del Carmine, non fu casuale. Si è perciò parlato di vero e proprio primato artistico del centro ceramico partenopeo nel XIX secolo, con estensione della fama ed esportazione degli impianti napoletani in Calabria, Sicilia e addirittura all’estero (Francia, Inghilterra, Africa). Tra tutte, si ricorda la famiglia dei Giustiniani, il vero capostipite della scuola Giustiniani fu, Nicola.
Al n. 13 in Via Giovanni Nicòtera si trova da oltre settant’anni, un affascinante locale storico, Vini e Oli fino al 1978 e tradizionale osteria napoletana da allora ad oggi. La mescita, di proprietà di tal Mario Tuccillo, venne rilevata da Rosa de Stefano, mamma di Antonietta e nonna di Massimo, appunto nel 1978.
Il contesto: Via Nicotèra è un “melting pot” per dirla all’americana, di classi sociali e diverse abitazioni, dal “basso” al palazzo nobiliare, nel cuore della Napoli storica: vi si accede da vari punti del quartiere Chiaia, ai confini con quello di Montecalvario che coincide con i “Quartieri Spagnoli”. Possiamo raggiungere a piedi L’Osteria dello storico Patròn Peppino Marangio, scomparso in un tragico incidente. Oggi nel locale ci sono sua moglie Antonietta Imperatrice e suo figlio Massimo. Torniamo per un attimo in via Nicotèra, raggiungibile dal Corso Vittorio Emanuele, la strada più lunga di Napoli, dalle Rampe Brancaccio e dai Gradoni di Chiaia, costruiti per collegare la città bassa con la nascente città alta (Vomero) .
Si arriva alla nostra meta dove mangiare a meno di venti euro, anche dai Quartieri Spagnoli, attraverso Via Santa Teresella agli Spagnoli, dove sorge l’omonima chiesa molto probabilmente, luogo di visite della celebre rivoluzionaria Eleonora Pimentel Fonseca, tra i protagonisti dei moti repubblicani del 1799, la quale abitò, con la famiglia d’origine, proprio in questa strada. Si può passare anche da Piazzetta Mondragone sede del Museo del Tessile e dell’Abbigliamento “Elena Aldobrandini” Fondazione Mondragone.
Il Museo ospita gli arredi sacri ed opere dell’annessa Chiesa di S.Maria delle Grazie, quadri dei maestri napoletani del ‘600, pregiati tessuti della collezione Passerini, splendidi abiti della donazione Del Balzo e Pignatelli. Il percorso più semplice e noto per giungere in Via Nicotèra parte da Piazza del Plebiscito, arrampicandosi su per via Gennaro Serra , fino in Via Monte di Dio sede del prestigioso Teatro Politeama. Prima di svoltare a destra verso la nostra meta, nello slargo di Via Monte Di Dio, ci troviamo davanti ad un reperto archeologico a cielo aperto: la Necropoli di Pizzofalcone, rinvenuta casualmente nel maggio del 1949 in Via Nicotera n. 10 sul colle di Pizzofalcone, durante i lavori di ristrutturazione di uno stabile distrutto durante la seconda guerra mondiale. Una volta svoltato a destra, attraversiamo lo storico Ponte di Chiaia, quello che univa la miseria di vicoli e vicoletti dei quartieri poveri alla nobiltà. Il Ponte di Chiaia costruito nel 1636 per collegare la Collina di Pizzofalcone con quella delle Mortelle, appare come un arco trionfale.
Attraverso un altrettanto memorabile ascensore ed una scala si accede da Via Chiaia a Monte di Dio. A pochi metri c’è un delizioso scorcio, quasi intatto, la scalinatella di Vicoletto Sant’Arpino,
Si sono aperte tre profonde voragini che hanno causato lo sgombero di circa 70 famiglie e la chiusura di diverse strade della zona con forti danni per gli esercizi commerciali della zona, compresa la nostra Mattonella. In via Nicotera fino alla metà degli anni ’60 si andava al cinema, al Palazzo e al Lux (ricordatelo lo ritroveremo…). Poi vennero gli anni dei cinema d’essai, qui c’èra il NO che ha resistito fino alla metà degli anni ’80. Bene, facciamo un piccolo salto indietro, 1978: Rosa De Stefano, nata nel quartiere, in Via Speranzella,
Cuoca da sempre, presso la mensa della Chiesa della Madonna di Lourdes in Corso Vittorio Emanuele, prende al volo un’occasione: la Mescita Vini e Oli di Mario Tuccillo, con sede in via Nicotera 13 dagli anni’50 decide di cedere.
Rosa rileva la cantina insieme al figlio Giuseppe, per tutti, Peppino.
Il locale è un gioiello dal punto di vista storico, Giuseppe e la mamma capiscono che devono lasciare tutto il più intatto possibile: ecco allora il pavimento di basalto, (‘e vasole) ,
le travi di legno a soffitto, le putrelle di ferro con la puleggia per calare il vino in cantina,
Attraverso le botole di ferro rimaste com’erano. Poi il pezzo forte, le ceramiche, le riggiòle napoletane di Salvatore delle Donne, quelle della sala
e quelle della cucina, molto simili alle mattonelle della cucina del mitico “Miseria e Nobiltà” di Totò.
Nonna Rosa rimane in cucina fino al 1983 , continua Peppino, affiancato dalla moglie Antonietta e dal 2001 dal figlio Massimo. Poi nel 2008, l’imprevedibile, Peppino perde la vita in un tragico stupido incidente , travolto mentre era sul marciapiede. Antonietta e Massimo dopo un momento di forte disorientamento, cercano di metabolizzare il dolore e decidono di portare avanti il sogno di Peppino, Oste istrionico adorato dai clienti. Nonna Rosa non scende più, ha 83 anni, aiuta da casa. L’ambiente è lo stesso, non è cambiato nulla, tavoli e panche in legno, fotografie di Totò ovunque: la passione di Peppino, conosceva a memoria ogni singola battuta di tutti i film del Principe De Curtis. In un angolo noto una chitarra, sembra “vecchiarella”, sì, mi conferma Massimo, era di papà, la ebbe in regalo all’inaugurazione da un cliente, perché Peppino, oltre ad adorare Totò, amava profondamente la musica napoletana, anche quella delle sceneggiate e cantava per gli ospiti: “quanti paccheri (schiaffi) hanno preso i clienti!” ricorda Antonietta ridendo.
Mamma e figlio e, sporadicamente la sorella Fàtima, studentessa universitaria, lavorano uniti dal ricordo quotidiano di Peppino, in un dolore che è forte, composto, quasi sereno, mai rassegnato. L’osteria è su due livelli, sfruttando quella che una volta era la cantina, è stata ricavata un’ampia sala, tutta legno e ceramica di Vietri con le riproduzioni delle riggiòle originali del piano di sopra ed un bancone di servizio in legno e maiolica tanto bello, quanto evocativo, ispirato agli acquerelli ottocenteschi di Gatti e Dura.
Mi giro e vedo un pozzo misterioso, chiuso: “ c’è Napoli Sotterranea qui sotto” mi dice Massimo.
Nella sala – ex cantina, deliziosamente arredata con tovaglie a quadretti e ceramiche vietresi, questo ragazzo cresciuto in fretta, conserva ottime bottiglie, qualcuna anche rara, mi ha promesso di aprirne qualcuna.
Gli chiedo il motivo di cotanto assortimento, “la clientela è di buon livello, ama mangiare semplice, ma bere bene”. Sono professionisti, docenti della vicina università del Suor Orsola Benincasa, attori dei vicini teatri, magari mangiano solo un piatto, ma non rinunciano ad una buona bottiglia. Do uno sguardo ai prezzi: onesti. Qui nel 2001, continua orgoglioso Massimo, è nata l’ultima versione di “Scugnizzi” di Mario Martone, nostro cliente affezionato. Anche Roberto Benigni è passato di qui per festeggiare la fine di una tournèe in città.
Antonietta mi racconta un po’ di storia: suo padre Martino faceva la “ maschera” al cinema Lux, i bambini del quartiere che si intrufolavano al buio senza pagare, l’avevano soprannominato “Martino pila in testa”, perché ogni volta che li beccava, li colpiva con la pila sulla testa per cacciarli via. Nello stesso cinema, c’èra un ragazzo che vendeva bibite, gelati e caramelle…si chiamava Giuseppe Marangio: di qui al fidanzamento e al matrimonio con Antonietta, il passo fu breve. Chiedo a lei e Massimo di parlarmi delle materie prime: solo di prima scelta mi rispondono, altrimenti non avrebbe senso, pochi semplici piatti preparati solo con cose buone. La pasta è una delle migliori di Gragnano, il pane è spettacolare arriva da un forno a legna artigianale della zona collinare di Napoli, Marano, devo scoprire dove si trova, si sente il profumo anche a distanza.
La spesa di frutta e verdura si fa dal fruttivendolo dietro l’angolo, lo stesso di tutta la vita, visto che anche Antonietta è nata e cresciuta a pochi passi da qui. Idem per la carne. Il baccalà, mi dice la cuoca, lo pago caro, da un fornitore nei pressi dei Quartieri Spagnoli, ma non lo cambierei per nessun motivo, è il fiore all’occhiello della nostra cucina. Sì, torniamo ai fornelli, il menù è giornaliero e molto semplice: l’antipasto è composto da un crocchè di patate vero (no gene pesca!), un involtino di melanzane o zucchine con provola e prosciutto e una mozzarellina impanata e fritta a regola d’arte.
I primi non sono moltissimi ma tutti autentici e fatti “a mestiere”: il posto d’onore spetta alla genovese, preparata con tre tipi di cipolle, dorate, bianche e un paio di Tropea. Penne lisce o ziti spezzati, il sugo è bruno denso, profumato, olio non se ne vede, per chi gradisce ,una grattugiata di pecorino.
Porzioni notevoli. A pari merito la pasta e ceci, esattamente come quella di casa mia: pasta mista di Gragnano, (perfettamente al dente), ceci cremosi, ma non passati, colore scuro, sapore intenso, “azzeccata” al punto giusto.
A seguire, il ragù, la puttanesca, minestra di fave e cicoria, o crema di cicoria e peperoncini verdi fritti (il papà di Antonietta era di origine pugliese). Nota bene: la cicoria, così come molte altre verdure, i cipollotti, i peperoncini verdi, e quello che c’è di stagione arriva dall’orto, quasi a km zero, della fidanzata di Massimo, la sua famiglia è proprietaria di un’azienda agricola nell’agro nocerino – sarnese, magica terra vulcanica. Ancora, zuppa di lenticchie e broccoli, spaghetti ai calamari, pasta e patate con la provola, pasta e zucca, verza e riso (l’unico piatto con il riso che i napoletani accettano mi conferma Antonietta), a Carnevale la lasagna con sfoglia fresca ( la pettola) e ricotta romana. Restano ovviamente sul classico anche i secondi: polpette al sugo o fritte, polpettone al forno, braciola al sugo con tutti i crismi ( punta di natica e pecorino romano, aglio, prezzemolo, passi e pinoli per la farcia), braciola di cotica per quelli più “hard”, salsicce e croccanti friarielli, dall’acqua alla padella con olio e peperoncino.
Carne alla pizzaiola e poi il lato mare: primo in classifica: baccalà, fritto o alla “carrettiera”, alici marinate o in tortiera, frittura di calamari, polpo in cassuola o all’ischitana, ovvero polpo crudo gettato in aglio, olio e peperoncino, e poi ricoperto di vino bianco, una ricetta di Nonna Rosa. In estate spaghetti con le cozze o frutti di mare e “impepata” di cozze. Quanto ai contorni, si rispetta la tradizione partenopea: parmigiana di melanzane, solo quando è stagione, zucchine alla scapece, peperoni in padella, verdure grigliate in estate, zuppa primavera con fave, piselli e carciofi, insalate fresche, verdure lessate, zucca alla griglia, peperoncini verdi imbottiti, ingrediente principale: la solita “santa pacienza”, stavolta di massimo che pulisce e svuota i peperoncini uno, ad uno. Il vino della casa è un onesto e gradevole Solopaca in bicchieri da osteria, e caraffa di Vietri , ma, chi vuole, può scegliere tra blasonate bottiglie campane e nazionali.
Il dessert è particolare, un’idea di Peppino: piccoli bicchierini di cioccolato artigianale riempiti con il “Frangelico” un aromatico liquore alle erbe.
A questo fine pasto, Giuseppe aveva dato un nome un po’ piccante: “Impeachment”. Perché? Andava consumato in un solo boccone (Bill Clinton e Monica Lewinsky insegnano…) Oltre al dessert imbarazzante, torroncini di San Marco dei Cavoti e biscotti alla mandorla.
Torniamo seri: qui la ceramica impera, questo è la mattonella, oops, il biglietto da visita che, solo tre anni fa, Peppino Marangio, regalava ad ogni cliente, a prescindere dall’importo del conto.
A proposito di conti: siamo intorno ai 18 euro dall’antipasto al dessert “piccante” , vino della casa e caffè. Logicamente saliamo di prezzo se si scelgono vini più nobili. Da Antonietta e Massimo si respira semplicità, passione sommessa, mai urlata, ma sempre presente, in ogni sguardo, parola o, sorriso. Nulla può accadere, il calore umano e la simpatia di queste persone ti fanno sentire a casa, al riparo da tutto.
g.b.c
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