Osteria La Chitarra
Rampe San Giovanni Maggiore 1/bis
Tel. 081 552 91 03
Aperto da ottobre a giugno dal lunedì al sabato a pranzo e cena 12,00 – 15, 30/ 19,00 23,30.
Da luglio a settembre aperto solo a cena
Chiuso la domenica. Da luglio anche il sabato a pranzo
Carte di credito e bancomat: si
Ferie: due settimane in agosto
Napoli, via Mezzocannone, “cittadella” universitaria, ma, anche strada di collegamento con tante delle attrattive del centro storico della città. Napoli è una metropoli, ma anche, un paese, che con le sue storie, leggende, luoghi unici e la cucina popolare, continua a essere un mito e, nonostante tutto, una speranza: quella di ritrovare l’autenticità, lontano da qualsiasi retorica e comprendere le ragioni profonde delle proprie tradizioni culturali e gastronomiche per trasmetterle alle nuove generazioni, abituate a ingurgitare cibi finti e merendine.
In questa zona, esclusi forse luglio, agosto e alcune ore della tarda serata, la maggior parte delle persone è abituata a convivere con il caos più completo. Una confusione stratificata per classi sociali, età e nazionalità. Durante la pausa estiva l’ambiente è meno affollato, ma, altrettanto variopinto e interessante. Si va dalle frotte di turisti, intruppati in carovane, a quelli più curiosi che girano per proprio conto, agli abitanti della zona, per finire con le fiumane di ragazzi dal palato “anestetizzato”, in fila davanti a rosticcerie, paninerie, kebab e simili. Non mancano poi, spesso una di fianco all’altra, le trattorie per turisti “ sprovveduti”, quelli che si lasciano attirare dai menù a prezzo fisso, o dai richiami “accattivanti”dei camerieri. Tutto questo accade nei luoghi simbolo del centro storico, quelli più conosciuti, come Piazza del Gesù Nuovo, Via Santa Chiara, Piazza San Domenico Maggiore, la zona dei Decumani, con Piazzetta Nilo, San Gregorio Armeno, la via dei Pastori, con le loro magnifiche opere in terracotta, (tra le quali è recentemente entrata anche quella del nuovo Sindaco di Napoli) Piazza Dante, Via Tribunali, Piazza Bellini, Via Costantinopoli e tanti altri luoghi che abbiamo visitato durante gli ultimi dodici mesi. C’è poi una parte del centro antico, meno conosciuta, più dimessa, ma altrettanto affascinante. E’ la zona definita dall’infinità di vicoli e rampe, che in un modo, o nell’altro, mettono in collegamento tantissimi luoghi di Napoli, anche distanti tra loro. In queste vie ancora si conduce la vita domestica del vicolo, fatta di condivisione, litigi, solidarietà e pettegolezzi.
Tra queste, le Rampe di San Giovanni Maggiore, che dalla parte bassa di via Mezzocannone, conducono alla Basilica di San Giovanni Maggiore. Le Rampe, circa una trentina di gradini, si raggiungono da Via S.Aspreno, passando per via Sedile di Porto. Vale la pena di raccontare una storia tutta napoletana che riguarda questa via, intitolata al Vescovo Aspreno, primo vescovo e patrono di Napoli, che viene invocato per la cura dell’emicrania e delle malattie osteo-articolari , dal quale, si racconta, sia derivato il nome commerciale dell’ASA (Aspirina).
Moltissimi napoletani, presi dalla grande devozione per il patrono principale della città San Gennaro e dal suo periodico spettacolare miracolo della liquefazione del sangue, hanno dimenticato o, addirittura ignorano che il primo vescovo della nascente comunità cristiana di Napoli fu S. Aspreno, mentre S.Gennaro fu vescovo di Benevento, morto martire a Pozzuoli( nei Campi Flegrei.) Sant’Aspreno fu il primo patrono di Napoli ma, dal 1673, passò in seconda posizione dietro S. Gennaro. Della sua vita non si sa niente di certo, ma, un’antichissima leggenda narra che s. Pietro, fondata la Chiesa d’Antiochia, dirigendosi poi verso Roma con alcuni discepoli, passò per Napoli, dove incontrò una vecchietta ammalata (identificata poi con S. Candida la Vecchia) che promise di aderire alla nuova fede se fosse stata guarita. Pietro la salvò dalla malattia. Candida, una volta guarita, gli raccomandò un suo amico di nome Aspreno , da tempo ammalato il quale, se guarito, certamente si sarebbe convertito. Pietro guarì anche lui e dopo averlo catechizzato, lo battezzò. Il cristianesimo ebbe subito una diffusione a Napoli e quando Pietro decise di riprendere il viaggio per Roma, consacrò lo stesso Aspreno come vescovo. Egli fece costruire l’oratorio di S. Maria del Principio su cui fu eretta la basilica di S. Restituta e fondò la chiesa di S. Pietro ad Aram, dove ancora oggi è conservato l’altare sul quale l’Apostolo celebrò il Sacrificio.
Sant’Aspreno è perciò particolarmente invocato per la cura dell’emicrania; a lui viene ricondotta anche la cappella che si trova in piazza Bovio (nel Palazzo della Borsa), dove, ancora oggi, si può vedere la pietra bucata nella quale infilava la testa chi voleva guarire dall’emicrania. Fino a qualche decina di anni fa, secondo una testimonianza diretta raccolta in famiglia, era una pratica ancora in uso tra i napoletani. Lasciata Via Sant’Aspreno, attraversiamo via Sedile di Porto, la cui storia è già nota ai lettori di questa rubrica, dopo circa cento metri sulla mano sinistra, ci troviamo davanti alle Rampe di S. Giovanni Maggiore con l’omonima Chiesa Basilicale.
La chiesa di San Giovanni Maggiore è tra le più importanti di Napoli, situata nell’omonimo largo, nei pressi di San Bonaventura nel centro antico della città. La struttura è misteriosamente chiusa da decenni per lavori di restauro e indagini archeologiche. Proprio sulla prima scaletta a destra delle rampe, dal 1990 si trova l’Osteria La Chitarra. Il nome non è per nulla un caso: questo locale è stato aperto e condotto per sei anni dal noto chitarrista e cantante napoletano Egisto Sarnelli.
Penultimo dei nove figli di Vincenzo Sarnelli, un rappresentante di coralli, Egisto Sarnelli, dopo l’abbandono degli studi di ragioneria e una breve parentesi nel mondo del pugilato e in quello dell’artigianato (aveva impiantato una piccola fabbrica di souvenir di Napoli), decide di dedicarsi allo studio e alla diffusione del repertorio musicale napoletano. Il 5 ottobre del 1991, inaugura “La Chitarra”, club gastronomico e artistico- culturale, dove ogni sera il pubblico poteva godere di ricette genuine della tradizione napoletana e recital canoro. Egisto creò così la figura del “cantatoste”. La sua ultima fatica discografica, un cd intitolato “Luna nova – omaggio a Salvatore Di Giacomo” risale al 1995, Sarnelli scomparirà un anno dopo. Attualmente la tradizione artistica viene portata avanti, in maniera completamente diversa, dal figlio, noto al grande pubblico con il nome d’arte di Tony Tammaro, nella vita, Antonio Sarnelli. Dal padre, Tony ha ereditato la grande ironia, tutta partenopea, forgiando il personaggio del “tamarro napoletano”, per criticarne allegramente le caratteristiche. Il “tamarro” rappresenta in modo esemplare il desiderio di distinzione di quei segmenti sociali non assimilati alla borghesia dominante; si tratta, per lo più, di soggetti, tutt’altro che poveri, che fanno uso con pessimo gusto, di automobili, abbigliamento, gioielli e altri status symbol. Talvolta il cantautore si è allontanato dal tamarro, per rivolgere la propria attenzione al cittadino basso-borghese in genere, con le sue manie, fobie e sogni di riscatto. Nelle creazioni di Tony Tammaro i personaggi hanno sempre qualcosa di incongruente, sono “pezzottati”; questo non significa che siano falsi, anzi, sono teatrali e barocchi:si appalesano e si dissimulano, come Pulcinella, mentono spudoratamente su se stessi, ammettendo, al tempo stesso, i propri limiti.
Dopo la scomparsa di Egisto, il locale è stato rilevato dai fratelli Maiorano, Giuseppe e Luigi insieme con le rispettive mogli Annamaria e Rosaria. Anche qui assistiamo a un cambiamento di vita travolgente. I Maiorano, inseparabili fratelli,appartengono ad una delle più note famiglie di pellicciai napoletani, dal 1950 in via Monte di Dio quartiere Chiaia San Ferdinando. Luigi e Giuseppe, nati proprio in via Monte di Dio, in quegli anni, stavano già pensando, per molte ragioni, alla chiusura dell’attività. I due fratelli, oltre al mestiere di pellicciaio sapevano solo guidare e cucinare con grande passione. Naturalmente la vita del tassista non garbava a nessuno dei due e, così, per caso, prevalse l’amore per la cucina napoletana, quella di casa. Nel luglio del ’96 la pellicceria chiuse i battenti e, negli stessi giorni, Peppino venne a sapere che nel centro storico, il chitarrista Egisto Sarnelli cedeva un localino niente male. Riunione di famiglia, la decisione fu presa in un momento, come solo i napoletani sanno fare. L’accordo con il Maestro Sarnelli fu veloce, un paio di giorni e fu cosa fatta. A distanza di due mesi, con lo stesso nome per rispetto verso l’ideatore del locale, riapriva l’Osteria La Chitarra dei fratelli Maiorano e famiglia. Dopo pochi mesi Egisto Sarnelli, “il CantaOste”, morì: aveva probabilmente intuito ciò che stava per accadere e sapeva di non sbagliare cedendo alle due giovani e appassionate coppie Maiorano. Il locale, infatti, è rimasto sostanzialmente intatto, con uno, al massimo tre, piccoli tavoli all’esterno sul terrazzino in cima alle scale.
La sala è calda, accogliente, una vera osteria con pochi fronzoli, solo originali ricordi, di Sarnelli prima, come la chitarra al muro e il “triccabballacche” e dei Maiorano poi. L’abitudine di accompagnare la cena con la chitarra e qualche canzone classica napoletana è andata avanti per un po’. Poi Giuseppe e Luigi hanno preferito dare maggior risalto al cibo, ai prodotti e al vino e così oggi la chitarra, sporadicamente e sempre per puro caso, è staccata dalla parete, quando qualche cliente appassionato, o artista a cena, se ne impossessa, improvvisando fantastiche, quanto evocative performance della vera e classica canzone napoletana.
Il pavimento è in cotto, la mise en place semplice e attenta, bicchieri a mezza via tra ristorante e osteria, servizio cordiale e professionale. Bisogna premettere che, trovandoci in zona universitaria, la differenza di pubblico, di tempi di lavoro, tra pranzo e cena è piuttosto evidente. I ritmi frenetici dello “spacco” di pranzo lasciano il tempo per due o, tre primi veloci e altrettanti secondi e verdure di contorno. I bicchieri per praticità sono mono uso , ovviamente anche il costo è differente, in linea con la miriade di localini di ogni genere presenti in zona. Di sera tutto cambia. Tranquilli siamo sempre nella nostra “sogliola” low costJ. A tavola compare il menù, che, esclusi alcuni piatti fissi, cambia quasi ogni giorno secondo la spesa e la stagione.
C’è anche la versione in perfetto inglese, con precisa descrizione e ingredienti di ogni piatto e, cosa lodevole, i prezzi sono gli stessi di quelli del menù in italiano… La scelta non comprende moltissimi piatti, all’incirca cinque, o, sei primi e altrettanti secondi con verdure tutte partenopee, frutta di stagione e dessert di tradizione fatti in casa da Annamaria e Rosaria. Ogni giorno, naturalmente c’è qualche piatto fuori carta, nato dall’estro del momento dei cuochi Giuseppe e Luigi che si alternano a pranzo e a cena. Gran parte del menù è “espresso”, pochissime le pietanze preparate in anticipo, soltanto quelle che richiedono lunga preparazione e operazioni preliminari, come le paste con i legumi che vanno rigorosamente spugnati la sera prima, come i fagioli.
Naturalmente, le ricette per i legumi, così un po’ come per tutto il menù, hanno una versione estiva più leggera e poi ,quella autenticamente invernale. La Chitarra si caratterizza, in gran parte, per la cucina di terra, con qualche incursione di mare, come baccalà e coroniello preparati in molte versioni.
Partiamo dall’antipasto, uno dei fiori all’occhiello della casa. Luigi e Peppino hanno la fissa dei buoni prodotti e delle ricette antiche. Per questa ragione, l’antipasto è composto sempre da prodotti particolari, soprattutto da quando Luigi si è trasferito ad abitare a Castelfranci nel cuore dell’areale delle tre docg campane e a poca distanza da comuni dell’Irpinia noti per prodotti d’ eccellenza, come Montella, famosa per la ricotta, la mozzarella e le castagne, base di gustosissime ricette in tutta la Campania. Queste ultime, infatti, sono in inverno, l’ingrediente primo della zuppa di castagne e fagioli. Torniamo a Castelfranci, Luigi abita in campagna e sta realizzando il suo sogno: aprire una norcineria. Già da qualche tempo il rifornimento di molti prodotti arriva da qui e dai paesi circostanti, in particolare vino, latticini e formaggi. Mi piace indugiare sul vino, perché, per la prima volta, in un’osteria “low cost” ho bevuto un vero aglianico, anche se sfuso.
Servito alla temperatura giusta in caraffa di coccio, al gusto è perfettamente riconoscibile, annata 2010, molto frutto, tannini in evoluzione e ben lavorati, sono curiosissima, chiedo a Giuseppe la provenienza precisa… “ è una piccola azienda che lavora molto bene, Colli di Castelfranci”. Ma va? Una vecchia conoscenza scoperta da questo sito al Vinitaly nel 2004.
Tornando alla norcineria, il salame nel piatto dell’antipasto è ottimo, selezionato da Luigi, il prossimo anno avremo la sua produzione.
Nel piatto, oltre al salame, troviamo la ricotta di Montella, un buon pecorino fresco, la napoletanissima frittata di cipolle, fresella al pomodoro, in inverno sostituita dal “tortano” napoletano, ovviamente fatto in casa, le melanzane sott’olio, particolarmente buone, diverse da quelle dei soliti antipasti. Giuseppe le prepara ogni giorno, quando è stagione, giusto un chilo e mezzo, private dell’acqua e dell’amaro, appena un bollo, tagliate a striscioline e poi marinate perfettamente, senza quel senso fastidioso del troppo aceto, dolci e giustamente piccanti. Per ultima, una ricetta povera, quanto antica: le polpette di pane fritte. In pratica, si usa il pane raffermo che a Napoli difficilmente si butta, e se si fa, prima ci si segna con la croce e si bacia il pezzo di pane che rappresenta una cosa sacra, a ricordare l’ostia e in ogni caso la centralità di quest’alimento. Non a caso, ancora oggi, molte pagnotte di pane napoletano hanno una croce disegnata al centro. Solo pochi decenni fa, e oggi, nei piccoli paesi, le donne, facendo il pane, lo segnavano, incidendolo con una croce. L’origine di quest’usanza si fa risalire sia, a una leggenda, il Miracolo di Santa Chiara, narrato nei Fioretti da San Francesco d’Assisi:
“Come santa Chiara, per comandamento del Papa,
benedisse il pane il quale era in tavola;
di che in ogni pane apparve il segno della santa croce”.
Sia, a una ragione puramente fisica, in altre parole, l’incisione al centro, favorirebbe la lievitazione.
Tornando alla ricetta, si ammorbidisce il pane in acqua, si strizza e si condisce con uova, prezzemolo, parmigiano e pecorino grattugiati, si formano le polpette e si friggono fino alla doratura. La versione povera, per dirla con Federico Valicenti, in realtà non esiste. La cd. cucina povera è un falso ideologico, perché i poveri non hanno niente, eccetto la fame. Ritorniamo agli altri ingredienti utilizzati in cucina: la pasta è delle migliori, quella che più si avvicina a una qualità artigianale, i pelati sono di un noto stabilimento dell’agro nocerino – sarnese, o altrimenti, si usa il pomodoro fresco. L’olio arriva da un noto produttore del vesuviano, il pane è fatto da un vecchio panificio con forno a legna, nella zona alta di Monte di Dio.
La ricotta e il fiordilatte arrivano da Montella, la mozzarella di bufala da un ottimo caseificio di Mondragone, la provola è naturalmente di Agerola, sui Monti Lattari. La frutta e la verdura sono fornite da uno storico fruttivendolo di via Monte di Dio, anche se, da quando Luigi si è trasferito a Castelfranci, ha messo su anche l’orto e produce verdure freschissime. Carne e pesce si acquistano da storici fornitori di fiducia di Annamaria che mi dice, “compro solo quello che darei da mangiare anche ai miei figli”, il che la dice lunga sulla mentalità e sulla filosofia dei Maiorano in cucina: hanno imparato a gestire l’osteria al miglior rapporto qualità – prezzo, con un occhio di riguardo verso la prima. I primi piatti estivi non sono molti, con il caldo è difficile realizzare ricette digeribili e rinfrescanti. Ecco quindi gli spaghetti alla “puttanesca”, il risotto alla “sorrentina”, più leggero dei classici gnocchi di patate fatti in casa d’inverno.
Ancora, le deliziose “linguine alla cetarese”, preparate con aglio, olio, peperoncino, pomodori quasi verdi a pezzetti, colatura di alici di Cetara e prezzemolo. Un piatto, solo per modo di dire, “espresso”, poiché richiedendo particolare attenzione alle diverse cotture degli ingredienti, al momento e alla quantità dell’aggiunta della colatura, si prepara per minimo due persone.
Con i primi piatti, da fine settembre si ritorna alla pura tradizione partenopea: ragù di eduardiana memoria, con tanto di braciola di cotena di maiale, gallinella, polpette con passi e pinoli e salsiccia; fantastica ,a detta dei clienti abituali, la genovese. Naturalmente cipolle dorate e ziti lunghi spezzati. Fiore all’occhiello della casa sono i mezzanelli o, paccheri “allardiati”. Non mancano la pasta al forno, il gattò di patate, la lasagna, fusilli di pasta fresca con peperoni e melanzane e tutte le minestre della tradizione: pasta e patate con la provola, pasta e zucca, pasta e fagioli, ceci, lenticchie e la versione invernale della zuppa di fagioli con cotica di maiale e peperoncino. Inimitabile e fatto in casa il soffritto di Peppino, da gustare a solo o, con i bucatini. Il nostro cuoco, mi confessa, adora cucinare tutte le interiora e le parti meno nobili: fegato con le cipolle, o i fegatini con l’alloro, il rognone, i mugliatielli di tradizione irpina e la trippa. Famosa la sua “menesta maritata” con la vera “ nnoja e la pupatella”, ossia, un fazzoletto di lino nel quale si mettono le spezie e gli odori tipici della ricetta, che, però, non si devono ritrovare nei piatti; perciò, si lega il fazzoletto a mò di sacchetto e s’immerge per tutto il tempo della cottura e del riposo. A Napoli, la pupatella, è, per antonomasia, lo stesso sacchetto di lino, contenente zucchero, che tanti anni fa si dava ai neonati e ai bambini da succhiare per farli calmare e addormentare, cullati dalla mamma o da un parente stretto.
Tra i secondi, le carni di ragù e genovese, la costatella di maiale ammollicata al forno, con aglio, pan grattato, capperi e vino bianco e lo spezzatino con piselli e patate. Ancora la famosa salsiccia “velata” della Chitarra che ha suscitato le “ire” del Priore della vicina Basilica di San Giovanni Maggiore, perché Peppino nell’idearla si è ispirato al Cristo velato della Cappella di San Severo.
I vegetariani possono scegliere la saporita provola alla pizzaiola oppure, un piatto ben assortito di formaggi che Peppino e la moglie Annamaria, detta affettuosamente Nanà, si procurano nelle loro scorribande domenicali, giorno di chiusura dell’osteria. Dal canto loro, Luigi e Mariarosaria forniscono il meglio dall’Irpinia, se non è passione questa …
In alternativa una bella insalata “caprese” con bocconcini e ricotta di Montella.
I dolci, tiramisù e un perfettamente lievitato babà, sono merito di Annamaria e Rosaria, fatta eccezione per la pastiera, esclusivo appannaggio di Peppino. Segretissima la ricetta, si sa che è fatta con il grano sfuso spugnato da lui e che, se a qualcuno non piace, è meglio che non ritorni alla Chitarra :-)
L’atmosfera che si respira alla Chitarra è di pura e cordiale convivialità, appena dieci tavoli, vicinissimi tra loro, impossibile non ascoltare le conversazioni altrui, si finisce così, come spesso accade a Napoli, per scambiarsi opinioni, aprire discussioni, o addirittura diventare amici, com’è accaduto a due clienti abituali, prima perfetti sconosciuti e oggi amici per la pelle, perché commensali ogni sera alla tavola dei fratelli Maiorano. Continuiamo a chiacchierare con Peppino e la moglie, lui si allontana e ritorna con un libro, molto rovinato, presumibilmente di fine ‘800. “il Re dei Cuochi, di Oreste Vanacore, Adriano Salani editore, Firenze”.
Tutto torna, Oreste Vanacore, bisnonno di Luigi e Peppino, è stato uno degli ultimi “Monzù” di Napoli, i cuochi fatti venire dalla Francia e chiamati “monsieur”, dal popolino napoletano, coloritamente tradotto: Monzù. Qui ci si sente a casa, il tempo sembra fermarsi, tutto scorre lentamente, Peppino e Luigi amano definirsi artigiani della cucina, le cose le fanno con cura, con attenzione a tutti i particolari, rispettando la sacralità delle ricette originali, il cui primo ingrediente è la famosa “santa pacienza”, per fare le cose ci vuole il tempo giusto , se no, come diceva il grande Totò in Miseria e Nobiltà: desisti!
Facciamo due conti:
Avrete compreso che qui sulla materia prima e sulla qualità non si risparmia, la gestione è familiare e parte degli ingredienti sono acquistati direttamente dai produttori. La differenza tra pranzo e cena di cui sopra sta solo nel servizio, veloce e più semplice a pranzo, con bicchieri mono uso e menù più ridotto; per un primo e un secondo fatti bene come a casa propria, si spendono tra i dieci e i dodici euro, incluse bevande. Di sera il menù è indicativo, le porzioni sono molto abbondanti, per questa ragione, i clienti possono costruirsi il prezzo a proprio piacimento e scegliere per esempio tra l’aglianico di Castelfranci proposto a 4 euro per quasi un litro o, bottiglie della miglior produzione campana, esposte nella piccola cantina al piano di sotto con un ricarico più che onesto. L’antipasto della casa costa dieci euro e basta per due persone, i primi variano dai sei, sette euro, al massimo di dieci per la doppia porzione di linguine alla cetarese. I secondi partono dai sei euro per la provola alla pizzaiola a circa 8 – 10 per i secondi di carne, un po’ più caro il coroniello, ma ne vale la pena. Quattro euro per una grossa fetta di babà o altri dessert. In pratica, in due persone potreste ordinare antipasto, linguine alla cetarese per due, una provola alla pizzaiola, vino di Castelfranci, acqua, dessert e caffè spendendo circa 38,00 – 40,00 euro, considerando che, già dopo l’antipasto e il primo vi sentirete sazi, soddisfatti del cibo, della qualità e della piacevolezza del tempo trascorso con Peppino, Annamaria e la mascotte dell’osteria, un vivacissimo gattino senza nome che adora giocare con le tovaglie, ma, se non lo gradite, sarà cacciato via, dalla voce scherzosamente severa di Annamaria: “fuori tu”!
E come si dice a Napoli, tornerete a casa felici: “ Pappa, zizza e nonna” :-)
Qui la precedente visita.
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