Vico San Nicola alla Carità 13 – 14
tel. 081 552 02 26 – 348 .4493803
Aperto a pranzo e cena, 12,00 – 15,30 /19,30 – 23,00
Chiuso: solo domenica sera
Ferie: 1 settimana in agosto
Carte credito, bancomat, buoni pasto: si
Vico San Nicola alla Carità, Quartiere Montesanto, ancora una volta un dedalo di vicoli, salite e discese intrecciate tra di loro a formare i vari rioni del cuore di Napoli. Stavolta siamo nella Pignasecca in un vicolo che comunica con la vicina via Toledo.
Napule è tutta rampe, scalinate,
scale, gradune, grare, grariatelle.
sagliute, scese, cupe, calate,
vicule ‘e coppa, ‘e sotto, viculille.
Allero o disperato, tu saglie
Sempre a Napule; fai na rampa,
n’ata, po’ n’ata ancora,
ca te leva ‘o sciato.
Napule a vide crescere
Tra rampa e rampa. (Anonimo)
Il rione era in origine occupato da complessi religiosi e da palazzi nobiliari, la zona faceva parte di un’immensa tenuta di proprietà dei nobili Pignatelli di Monteleone, detta “Biancomangiare” dal nome di una sorta di meringa, molto apprezzata a quei tempi, che si produceva nel luogo. Verosimilmente la tenuta esisteva fin dall’epoca aragonese ed era posta subito fuori l’antica “Porta Puteolana” (sul decumano inferiore, detto “Spaccanapoli“), in corrispondenza dell’odierna piazza del Gesù Nuovo. La zona avrebbe poi assunto un carattere tipicamente commerciale dopo l’abolizione del cosiddetto “Mercatello”, che si teneva nel vicino largo, in seguito divenuto Piazza Dante e che costituiva uno dei principali punti di rifornimento alimentare cittadino. Via Porta Medina, denominata anche via della Pignasecca, per il fatto che conduce a piazzetta della Pignasecca, è uno dei quartieri più ricco di contrasti e affollati di Napoli.
L’origine del suo nome si è persa nei meandri della memoria. Sono pochi, infatti, a sapere che la Pignasecca, ( largo, via e vico) si trovava un tempo fuori le mura, dove vi era un antico albero di pino, e deve il suo nome a delle gazze dispettose, sì, proprio gazze, oggi “inquietanti e dispettosi fantasmi”. Ecco la leggenda, un sant’uomo, un uomo di chiesa, fu scoperto in “casa”con la perpetua per colpa di una maledetta gazza indisponente. In quei tempi Napoli, città magica e lussuriosa, viveva momenti di ricchezza e voluttà. Anche i quartieri più poveri si abbandonavano al sensuale torpore dei periodi migliori. Gli amori clandestini, i pruriti irraccontabili dei figli di Partenope, non risparmiavano nessuno. Men che mai le gerarchie ecclesiastiche. Nel quartiere parallelo a Spaccanapoli, si intrecciavano storie d’amore e tradimenti, senza troppi riguardi per il sacro abito talare. Un unico inconveniente sembrava perseguitare gli amanti distratti. Le gazze del bosco vicino penetravano nelle case abbandonate alle passioni, facendo incetta di tutto.
Gioielli, monete d’oro, e finanche biancheria intima, scomparivano d’improvviso per riapparire, beffardi, su qualche albero della fitta pineta. Per i napoletani ci volle poco a capire. La vittima dei curiosi furti non poteva che essere un adultero. Ma che succede se su un pino della vergogna si ritrovava una mitra vescovile, o magari il sacro anello della Curia? Le voci correvano veloci. Arrivavano nelle case della “gente onesta”, delle mille donne che frequentavano la chiesa. Poi, addirittura in Curia. Il vescovo e la perpetua. In casa… Per porre rimedio allo scandalo, riunioni e contro riunioni. Consulti e confessioni. Poi si optò per la “Bolla di scomunica”. Eccessivo ma definitivo, il rimedio sembrava convincere anche la Santa Sede. Una bella, seria, sacrosanta “Bolla di scomunica”. Ma indirizzata a chi? A quanti avevano esagerato con le battutacce? Alle malelingue di un quartiere troppo chiacchierone? Alle donne che avevano fatto la spia? O agli scugnizzi che avevano tirato giù dai rami la Mitra dello scandalo? No. Bisognava colpire alla fonte. Bolla di scomunica alle… gazze ladre. E per chi non ci avesse creduto, il documento sarebbe stato affisso al pino più alto del “Biancomangiare”. Detto fatto. Una bella mattina i napoletani ritrovarono, su uno dei fusti della pineta, un cartello. “In nome di Dio, per la grave responsabilità che mi fu affidata in terra, nella qualità di vicario di Cristo, io, Vescovo di Napoli e delle sue province, scomunico, d’ora innanzi, tutte le gazze di questo quartiere, anzi… tutte le gazze di questa città”. Fischi e pernacchi, in perfetto classico, stile napoletano . Un episodio, un evento curioso e inquietante, finisce, però, per scuotere anche l’intramontabile voglia di “pazziare” (scherzare). Tre giorni, solo tre giorni e il pino del bosco “Biancomangiare” comincò a perdere i suoi aghi. Ingiallì e si seccò, e con lui tutti gli alberi della fitta pineta. Non solo, anche le gazze dispettose finirono per scomparire. In un sol colpo, al posto del bosco, la leggenda popolare narra di una vasta distesa, arida e funesta: la Pignasecca. Sembra uno scherzo, ma la vicenda del vescovo libertino ha finito per dare il nome ad una delle strade più antiche di Napoli. Ora di quella storia è rimasto solo un ricordo sbiadito. Non manca la battuta irriverente, non manca il sarcasmo anticlericale che, da sempre, contraddistingue i napoletani. Una sola cosa viene raccontata a bassa voce, col piglio severo, lo sguardo scuro e corrucciato: all’alba, quando ci si lascia alle spalle piazza Carità, quando si supera il mercato del pesce e il grigio Ospedale dei Pellegrini, un suono, un lamento, un grido del passato. Sono le gazze. I fantasmi della Pignasecca.
Al sorgere del giorno comincia la vita in Pignasecca, ovvero il mercato. Il mercato continuo della Pigna Secca ” nella descrizione di Matilde Serao:
“Tutto il quartiere della Pigna Secca, dal largo della Carità, sino ai Ventaglieri, passando per Montesanto, é ostruito da un mercato continuo, vi sono botteghe, ma tutto si vende nella via; i marciapiedi sono scomparsi, chi li ha mai visti? I maccheroni, gli erbaggi, i generi coloniali, la frutta, i salami ed i formaggi, tutto, tutto in strada, al sole, alle nuvole, alla pioggia; le casse, il banco, le bilance, le vetrine, tutto nella via.” Oggi, nonostante le cose siano abbastanza cambiate, in questo caratteristico e celebre mercato dei Quartieri Spagnoli si respira ancora l’antico sapore del mercato di una volta, dove la contrattazione era ed è ancora un elemento imprescindibile. Passeggiare tra le bancarelle e la gran quantità di personaggi che caratterizzano gli affollatissimi vicoli, dove la luce del sole non arriva che per poche ore al giorno, e lasciarsi rapire dai colori, dalle voci dei venditori, mentre la folla di persone indaffarate ti trascina, è un’esperienza appassionante, come ritornare veramente indietro nel tempo, anche per ricordare che nel centro storico di Napoli, a differenza di altre città, vive ancora una consistente fetta di famiglie di ceti meno agiati, ancora oggi, infatti, la Pignasecca
é caratterizzata da innumerevoli bancarelle e negozi di prodotti orto-frutticoli ed eno-gastronomici, nonché, da taverne, trattorie e rosticcerie
strettamente legate alla tradizione napoletana, spesso di straordinario livello nonostante l’economicità dei prezzi.
Via Pignasecca oggi non ha un senso di marcia: o meglio, ce l’ha ma nessuno lo rispetta. I motorini scendono dai quartieri spagnoli, i marciapiedi sono occupati da ambulanti di ogni provenienza, le auto fanno lo slalom tra la gente che si affanna per arrivare sana e salva alla fine di quest’insostenibile tragi – comico caos. Qui hanno la loro stazione di arrivo il treno della Cumana, la funicolare che porta al Vomero e un’importante fermata della Metropolitana. Quando arrivano tutti i mezzi in pochi minuti, un fiume di persone si riversa in questo vicolo stretto e lungo. Benvenuti nella Pignasecca di Napoli, una strada lunga poco meno di un chilometro dove si può trovare di tutto e di più. Il miglior pesce
e i migliori arancini (‘e palle ‘e riso) di Napoli. Coperte, vestiti, pane e frutta a poco prezzo. Scenografici balconi fioriti con appesi pomodori, peperoncini e piantine di menta e salvia, ma anche, inutile nasconderlo, strade sporche, graffiti, muri scrostati, auto parcheggiate sui marciapiedi.
Questa è forse la vera Napoli, non ancora completamente omologata, quella degli acquafrescai, dei pescivendoli urlanti, dei negozi alimentari con ogni ben di dio, con le esposizioni di tutta l’arte della friggitoria napoletana, con i banchetti dove trovi di tutto, con i negozi da “tutto a 50 centesimi”, con gli extracomunitari che sembrano essersi integrati alla perfezione nel tessuto sociale del luogo. E’ vero, bisogna stare attenti allo scippatore, al motorino che passa sui piedi e alla gente che si accalca sui ristrettissimi marciapiedi ma, è qui che trovi la parte sanguigna di questa città, forse l’unica che ha ancora conservato il negozio di cibi cotti che fa da contraltare alla pizzeria che mostra il marchio della pizza d.o.p. E’ qui, proprio da Piazzetta Montesanto che, guardando verso la funicolare, spostando lo sguardo verso l’alto,
si va ad incrociare lo sguardo con il magnifico spettacolo della Certosa di San Martino e di tutto il suo colle che imponenti si concedono come in nessun’altra parte della città. La Pignasecca è anche l’unico quartiere dove in mezzo al caos più totale, si trova l’antico ospedale dei”Pellegrini” con le sue due chiese.
L’arciconfraternita e l’ospedale S.S. Trinità di Pellegrini e Convalescenti” vennero fondati nel 1578 da sei artigiani napoletani, i quali volevano creare una congregazione religiosa che affiancasse, all’esercizio del culto, un’opera di soccorso per i bisognosi e per i poveri. Uno dei sei artigiani, un certo Bernardo Giovino, propose di ospitare e di assistere i pellegrini in transito a Napoli. Infatti, tutti coloro che venivano a Napoli spinti dalla fede non sempre avevano la possibilità di trovare a poco prezzo un alloggio in città, inoltre alcuni fedeli, per lo strapazzo del viaggio, talvolta, si ammalavano e avevano bisogno di cure. Bernardo Giovino propose, così, di creare una casa ospitale (ospedale) dove i pellegrini potessero essere accolti per tre giorni interi. Nel 1852, essa si trasferì alla ” Pignasecca” dove un gentiluomo, don Fabrizio Pignatelli dei Duchi Monteleone aveva fatto costruire una casa e una chiesa ( la S.S. Trinità d’ispirazione vanvitelliana) a cui affiancare un ospedale.
Quando il duca morì, i suoi eredi affidarono la realizzazione dell’ospedale all’arciconfraternita dei pellegrini. L’ospedale fu completato nel 1591. Ancora oggi a Napoli per minacciare bonariamente qualcuno si dice “ te mann’ ‘e Pellerini”. Qui, tra piazzetta Montesanto e piazzetta Olivella, la ferrovia Cumana, la metropolitana, e la funicolare, costituiscono il sistema di collegamento del centro storico di Napoli con tutto il resto della città e dell’immediata periferia.
Nel 1883 a Roma nasce la “Società per le Ferrovie Napoletane” per la costruzione e la gestione di una ferrovia economica da Napoli per Pozzuoli e Cuma (linea Cumana). Questa linea, in esercizio fin dal 1889, collega il centro urbano di Napoli con le località dei Campi Flegrei, da considerarsi ormai un tutt’uno con la città. Accanto alla stazione della Cumana, troviamo quella della funicolare di Monte Santo, la cui storia è degna di qualche cenno: venne inaugurata il 30 maggio 1891, dopo cinque anni di lavori e due anni dopo l’apertura della funicolare di Chiaia. Essa collega la sommità del quartiere Vomero con il quartiere Montecalvario.
La folla invade il quartiere all’arrivo e alla partenza dei treni, alla Pignasecca o all’Olivella, i visi raccontano storie, sono biografie inconsapevoli.
A Montesanto si capisce chiaramente perché Napoli è una città fluida: nei bar si possono incontrare, indistintamente intellettuali, studenti, impiegati, pensionati, casalinghe, quelli che da sempre si inventano un lavoro, i tormentati alla ricerca di una dose. La nuova stazione della ferrovia Cumana, tutta acciaio e cristalli, si eleva come una cattedrale nel deserto, mette soggezione. Alla stazione della ferrovia Cumana di Montesanto, nell’attesa del treno, ho passato il tempo ad osservare le facce delle persone, nel tentativo di capire qualcosa in più di questa mia città dai mille volti. Vedo disagio, delusione per una vita sempre meno degna e umana. Arriva il treno, il vagone stona totalmente con la lucentezza della stazione, è sporco e scrostato. Osservo e ascolto, di spensieratezza e ottimismo neanche a parlarne. Una volta, mi racconta mia madre, “nel primo dopoguerra, la cumana significava gioia, perché dal centro storico si andava al mare a Lucrino, previa fermata golosa dalla mitica friggitoria Fiorenzano per il cartoccio di scagnozzi, crocchè e panzarotti.”
E ancora mi parla di quando sua zia le raccontava di Rosa la Mussolinara, o Rosa d’ ‘a Pignasecca, una donna avvenente, che col suo saper fare e con buone movenze incantava gli avventori, recando con se una cesta contenente mercanzia varia di mussola, quali fazzoletti fini e biancheria intima, ed in breve tempo era capace di venderla tutta. Intanto è arrivata la mia fermata, Montesanto, da qui procedo lentamente verso Vico San Nicola alla Carità, percorrendo tutta via Pignasecca fino ad imboccare l’ultima traversa a sinistra. Mi fermo al numero 13, qui da circa 60 anni, La Vecchia Cantina, prima semplice mescita di vino e poi osteria, è passata in mano a due famiglie: Esposito dal 1961 al 2008 e Morra – Iuliucci fino ad oggi. Il fatto che la gestione di Patrizia Morra, dolce e grintosa casalinga Pignasecca doc e suo genero Mimmo Iuliucci duri da pochi anni non deve affatto trarre in inganno.
Dietro c’è una solida tradizione di ristorazione di quartiere, salumerie e bar. Nel 2008 si presenta l’occasione, il proprietario Francesco Esposito decide di trasferirsi e per Patrizia si avvera un sogno. Mi racconta: “ ho cinquant’anni, cinque figli e quattro nipoti, avevo due desideri nella mia vita incontrare il Papa e aprire una trattoria perché adoro cucinare. Li ho realizzati entrambi, vivo felice e do il meglio di me a questo lavoro e alla mia famiglia, a casa mia cucino da capo, non mi piace mischiare lavoro e vita privata. Mimmo ha sposato la figlia di Patrizia, ha meno di trent’anni e le idee chiare, anche per lui un passato nel settore, studi all’alberghiero, esperienze nelle attività di famiglia. Oggi sono impegnati quasi ventiquattro’ore in trattoria, investono qui energie, idee, fatica, e capitali per continui miglioramenti. Siamo in un locale storico, qui nell’800 aveva sede il famoso Caffè Greco.
Il locale è a fronte strada sulla sinistra, due vetrine, tutto in legno, prodotti d’eccellenza in esposizione, rimango perplessa, vedo marche importanti e mi domando come si possano conciliare con un menù buono e low cost. Poco dopo scopro l’arcano, tutte le materie prime arrivano da fornitori di famiglia a prezzo di costo, ecco perché si usa la pasta del Cavalier Cocco. In cucina c’è Rita, Mimmo dà una mano dividendosi tra sala e fornelli, di sera arrivano i rinforzi, la sorella della cuoca, Maria. Antonio, cognato di Mimmo e giovane laureando dà una mano in sala. La Cantina è davvero accogliente, semplice, tutto in legno, sedie impagliate e tovaglie bianche e rosse a quadretti.
Come luci le vecchie lanterne in ferro delle strade, due salette separate da un arco, circa 45 coperti. All’ingresso un bancone di accoglienza e scaffalature con bottiglie prevalentemente campane. La seconda saletta è divisa dal banco vivande dalla cucina, abbastanza ampia, tutta bianca, ordinata, sei fornelli, ogni cosa al suo posto, Patrizia e Mimmo rigorosamente in grembiule da servizio.
Sono incuriosita dalla presenza di tante bottiglie conosciute, mi risponde Mimmo: “ è una passione, abbiamo comunque deciso di offrire entrambe le possibilità ai nostri clienti, un degnissimo vino della casa del beneventano (confermo)
e per i clienti di fuori la possibilità di assaggiare le nostre eccellenze senza comunque andare in bolletta. Come sempre vado a curiosare tra le materie prime: della pasta abbiamo parlato, la stessa usata anche da Frank Rizzuti dell’antica Osteria Marconi di Potenza e chef del Ristorante Dattilo a Strongoli Marina. L’olio è extravergine pugliese, la carne, i salumi e i latticini arrivano tutti da Agerola, anche in questo caso, grazie ad un rapporto trentennale con un fornitore di eccellenza, il caseificio Buonocore.
Pane, verdure, uova e frutta dal mercato di zona, per il pesce Mimmo sceglie la distribuzione del fresco specializzato e le splendide pescherie della Pignasecca. La mozzarella arriva dal caseificio Morgese nell’Aversano. Il menù è stampato e varia ogni giorno, in base alla spesa fatta da Patrizia e Mimmo. Partiamo dagli antipasti: misti di verdure alla griglia, alici marinate,
il “tagliere di Agerola” un ceppo spesso circa 20 cm., composto da salumi, latticini e formaggi dei monti Lattari,
ancora zeppoline di mare lavorate a mano, carpaccio di baccalà affumicato e bruschette. La scelta dei primi è varia e si alterna tra la pura tradizione e leggerissime rivisitazioni: tutte le paste con i legumi,
pasta e patate con o senza provola, pasta e zucca anche con la provola (questa la devo provare), pasta e cavoli, riso e verza, spaghetti alla puttanesca, ziti lardiati, ragù, genovese, carbonara, matriciana, poi gli spaghetti “miseria e nobiltà” saltati in padella con olive bianche, nere, capperi, papaccelle e qualche pomodorino.
Ancora, la “pignatta” fatta con mezzani, salsicce broccoli, guanciale, caciotta fresca e qualche pomodorino, le casarecce alla “ciociara”con pomodorini del piennolo, pancetta e ciccioli. Sul lato mare, spaghetti ai frutti di mare, alla “luciana” con i polipetti, paccheri al coccio, linguine agli scampi. I secondi si concentrano in particolare su carni e latticini: fiorentina alla brace, filetto, costolette di maiale con papaccelle, salsicce di Agerola alla griglia, polpette fritte, o, al sugo, spezzatino di vitello al latte, fegatini in padella con l’alloro, carne del ragù e della genovese, e poi la mitica zuppa di soffritto
fatta in casa da Patrizia e il piatto unico bucatini e coniglio all’ischitana. C’è da divertirsi con tutti i modi nei quali Patrizia prepara i latticini di Agerola: i “ciccilli” (piccole scamorze appena stagionate farcite di olive e peperoncino” alla brace,
una favolosa, morbida scamorza con pomodorini del piennolo e melanzane, la scamorza alla “vecchia cantina”, farcita di salame e saltata in padella con pomodorini, olive e melanzane.
E poi le frittate, di cipolla, di patate o ricotta e spinaci. Le preparazioni di pesce sono altrettanto tradizionali, baccalà alla carrettiera, o fritto,
stocco in bianco con le olive, o, al forno con patate, gamberi e calamari alla brace. Su richiesta la zuppa di pesce. I contorni, che a Napoli possono anche diventare un piatto unico, variano a seconda della stagione, friarielli, parmigiana di melanzane o zucchine, peperoni in padella, patate al forno, melanzane a diavoletto, ossia le ultime melanzane, quelle piccine di fine stagione, tagliate in quattro, conciate con aglio, origano e peperoncino e messe a riposare sott’olio. Anche i dolci sono tradizionali e fatti da Patrizia e da sua figlia Rita:
pastiera, babà con panna e caramello, charlotte di mele, tiramisù, caprese e la “crosmata di mele” mutuata dalla fiaba di Disney.
Come spesso accade in questi locali della Napoli storica è disponibile anche il cucinato da asporto. Intravedo una scala in ferro che scende, chiedo a Mimmo, mi guarda orgoglioso e mi dice “venite, venite”: scendiamo per una ripida scala a chiocciola e mi ritrovo in una vera e propria cantina, bottiglie di pregio lasciate dal primo proprietario, tre botti che risalgono al 1960, il locale è ampio, Domenico mi dice che ha in progetto di farne un angolo degustazione di vini e prodotti campani. Tradizione e piedi per terra.
La clientela è mista, molti professionisti dalla vicina via Toledo, turisti, gente della zona, prima delle 14,00 non si vede quasi nessuno: non c’è niente da fare, Napoli è rimasta agli orari dei pasti della dominazione spagnola. Tutto è molto curato, spesso questi locali sono accusati di essere sporchi, disattenti, qui persino la toilette, sembra quella delle bambole, piccola, profumatissima in legno e ceramica. Siamo ai saluti a Patrizia che è nata qui in Pignasecca, chiedo di raccontarmi qualche episodio di quand’era ragazzina, la baby – nonna parte come un fiume in piena: “La domenica mattina, passava Fortunato con la cesta dei taralli caldi “’nzongna e pepe” e gridava –’nzogna, ’nzogna, Fortunato tene ‘a ‘rrobba bbona; lungo la salita dallo Spirito Santo alla Funicolare per il Vomero c’èra l’acquafrescaio che vendeva il bicchiere d’acqua ferrata con le bollicine, la coca cola di allora; ancora la signora con la cesta delle rane che gridava “fanno bbene ‘e criature”; il venditore di lunghe canne da attaccare tra balconi dirimpettai per stendere il bucato; il pescatore che passava di sera con i gamberi : “chist’ pazziavano mmiez’ ‘e scoglie” (a significare che erano freschissimi); ancora il venditore di ricotta sfusa sulle foglie di fico; la vecchietta che vendeva “’o turtaniello” (graffetta fritta) a 10 lire; ‘o ciurillo che vendeva il sapone ambra a peso e poi il mitico ambulante “do bror’ ‘e purp” che camminava con un grosso tino in legno al cui interno teneva un pentolone di rame con il coperchio dove c’èra la gustosa bevanda. Ancora oggi, all’angolo della caserma Garibaldi c’è un acquafrescaio che lo prepara: i polipi più grossi messi a bollire con qualche cucchiaio di olio d’oliva, peperoncino e sale. Il brodo si gusta sorseggiandolo da un bicchierino in cui è contenuta anche una “ranfetella” ( un pezzetto di tentacolo) del polpo, oppure versandolo su un tozzo di pane raffermo. Si beve per riscaldarsi nelle rare giornate di freddo napoletane e nelle prime luci dell’alba nelle zone del mercato ittico e portuale, ‘a tazzulella viene stretta tra le mani come fosse una borsa d’acqua calda. Salutando Domenico che segue l’amministrazione vengo al vil denaro, dunque: per un pasto completo dall’antipasto al dolce con vino della casa, senza scegliere piatti di mare, spenderete dai 18 ai 22 euro; per un buon antipasto, un primo, vino della casa e dolce, circa 10 euro, idem per secondo, contorno, vino e dolce. Inclusi nel prezzo: gentilezza, semplicità, unicità e calda umanità del posto.
Ritornando verso piazzetta Olivella, decido per una deviazione, sulla destra c’è Via Tarsia, sede del “Teatro Bracco”, già “Tarsia” che, inaugurato nel 1962, dette inizio ad una splendida stagione di prosa napoletana. Roberto Bracco, cui è intestato il teatro sorto sui resti del corpo di Palazzo Tarsia, nacque a Napoli il 10 novembre 1861.
Amico di Sarah Bernhardt fu secondo in fortuna solo a Luigi Pirandello. Elegantissimo, famose le sue cravatte, e rabbioso, fu coinvolto in due famose cause, una delle quali contro Francesco Saverio Nitti cui aveva addentato la testa, perché aveva osato criticargli un lavoro: “Vuje site ‘nu fetente!” pare gli urlasse dopo un’inutile riappacificazione. Salita Tarsia molti l’hanno vista, nel celebre “L’Oro di Napoli” di Vittorio De Sica: Totò scendeva da quella strada vestito da pazzariello per l’inaugurazione di un negozio di alimentari. A casa lo aspettava un camorrista che aveva preso Totò e la sua famiglia per albergo, facendo il bello e il cattivo tempo. Tuttavia, nessuno più ricorda che salita Tarsia, come via Tarsia e i vicoli vicini, sono parte del più bello, più grande e sfarzoso palazzo che Napoli abbia mai avuto, Palazzo Spinelli di Tarsia. Di questo palazzo oggi bisogna più immaginare che vedere, poiché una facciata interna e un corpo di fabbrica non piccolo, ancora esistono, con tanto di stemma nobiliare e di ridipintura fresca, ma l’insieme, per chi non abbia mai visto il disegno di Domenico Antonio Vaccaro, non è nemmeno sospettabile.
Dopo circa 15 tappe nei luoghi della memoria della mia città, mi viene da riflettere: noi napoletani non apprezziamo, nè prendiamo in considerazione i nostri tesori culturali, storici e umani che sono unici al mondo. Ci si potrebbe impegnare di più, pensare anche ai palazzi nobiliari ormai cadenti, alle strade sconnesse ma di gran fascino. E’ come se Napoli fosse una signora molto bella, truccatissima, ma non curata nell’intimo. In pratica hanno trasformato qualche piazza in falsi salotti chic e si sono dimenticati del cuore di Napoli, ne hanno fatto “ nu quadro ‘e lontananza”.
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