Napoli, la Taverna del Buongustaio: Don Gaetano e Sasà, eredi di cinque generazioni della cucina napoletana tradizionale

Napoli, La Taverna del Buongustaio
Vico Basilio Puoti, 8
Tel .39+081.5512626

Chiuso: domenica sera
Aperto: dal lunedì al sabato a pranzo e cena.
Domenica solo a pranzo (12,30-15,30/ 19,00–24,00)
No carte di credito
consigliata la prenotazione nel fine settimana (si no nun v’assettate!)

Chiunque si trovi a Napoli, vuoi, perché ci vive, vuoi, perché è  in vacanza, non può che rimanere almeno colpito dalla straordinaria conformazione della città. I napoletani ci si sono abituati e non vi fanno più caso, travolti inevitabilmente dal caos quotidiano.  Vista dal mare la città mostra un “taglio”, quasi uno squarcio, parallelo rispetto al mare, è il Corso Vittorio Emanuele. Il corso divide da sempre due Napoli molto diverse tra loro, collegate dalle funicolari di Montesanto e Mergellina, che congiungono in pochi minuti la Napoli “bassa” con quella “alta”. All’ombra del Vesuvio il turismo ha radici antiche: sulle orme dei coloni greci, aristocratici, raffinati romani costruirono ville sontuose e oasi di pace lungo tutto il perimetro del Golfo.

Nonostante la Napoli di oggi appaia pervasa dal caos, nel senso di disordine delle cose e degli uomini, una sovrapposizione e confusione continua di elementi, non è un caso che la magia propria di questa civiltà millenaria continui a generare, all’alba del terzo millennio, sempre nuovi momenti di meraviglia, come il recupero di memorie monumentali e di tradizioni gastronomiche della cultura popolare e contadina, dei napoletani “mangia foglie e mangia maccheroni. A dispetto dell’omologazione imperante dei vari franchising che propongono enormi e coloratissimi hamburger, hot dogs etc, a prezzi decisamente alti (1 toast, 1 minerale piccola, 1 caffè e 1 dessert mignon = 13 euro) la Napoli di ieri, quella della fine dell’800, si è adeguata ai tempi con il passare delle generazioni, senza mai tradire le proprie origini e la base culturale della cucina napoletana del popolo, quella che, passando da Lucullo, non ha mai abbandonato il piacere della buona tavola, il gusto della convivialità proprio di tutti i “deschi”, quelli dei Signori e quelli della “gentarella”. I veri napoletani, nel bene e nel male, hanno saputo conservare, a tutti i livelli sociali, la saggezza dell’ozio in senso umanistico, ovvero il raggiungimento di un disincantato equilibrio che non ha nulla a che fare con l’indolenza e la poca voglia di lavorare di cui spesso partenopei vengono tacciati. A Napoli, il cibo serve anche come sistema di comunicazione, rituali e comportamenti ripetuti nel tempo, a conferma di una solida immortale tradizione gastronomica e saggezza popolare. Oggi i napoletani veraci lottano contro i luoghi comuni quotidiani, contro l’imbarbarimento del modo di vivere e della violenza imperante dei comportamenti, dove l’estraneo, il più delle volte, è considerato un nemico pericoloso. A tavola, lo stesso estraneo può diventare un compagno di mensa, con il quale scambiare qualche chiacchiera, ridere di una battuta, commentare su come si mangi in quel locale.

Queste esternazioni in città  sono quasi scomparse, resistono solo nelle antiche trattorie ed osterie di città, le vecchie mescite, vini e oli di una volta, tenute in piedi dall’entusiasmo e dalla voglia degli eredi di queste tradizioni di fare in modo che queste ricchezze gastro-culturali non vadano a spegnersi con loro. Napoli, al contrario di quanto si possa pensare, è ancora molto ricca di questi luoghi della memoria del gusto. La maggior parte è concentrata nei quartieri del cuore storico e pulsante della città: la Pignasecca, i Quartieri Spagnoli ed i percorsi dei decumani.

Il rione della “Pignasecca”rappresenta l’esatto baricentro della Napoli storica, che dal 1500 in poi si é espansa ad occidente e a settentrione del nucleo greco-romano, verso Chiaia, il Vomero e la Sanità. La zona faceva parte di un’immensa tenuta di proprietà dei nobili Pignatelli di Monteleone, detta “Biancomangiare” dal nome di una sorta di meringa (per altri, pasta di mandorle), molto apprezzata a quei tempi, che si produceva nel luogo. Il quartiere, in origine popolato di complessi religiosi e palazzi nobiliari, assunse un carattere tipicamente commerciale dopo l’abolizione del cosiddetto “Mercatello”, che si teneva nel vicino largo, poi divenuto Piazza Dante e che costituiva uno dei principali punti di rifornimento alimentare della città. La tradizione é rimasta, la Pignasecca é un’esplosione di bancarelle, negozi di prodotti orto-frutticoli ed eno-gastronomici (soprattutto quelli più tipicamente locali), nonché da taverne, trattorie e rosticcerie strettamente legate alla tradizione napoletana, spesso di straordinario livello nonostante l’economicità dei prezzi.

La Pignasecca è giusto alle spalle di Via Toledo, che la costeggia nel tratto tra piazza Dante e Piazza Carità. Proprio a pochi metri da via Toledo, svoltato l’angolo, comincia Vico Basilio Puoti, una volta detto “vico dei Sei”, probabilmente dal numero degli artigiani che nel ‘500 fondarono il vicino Ospedale dei Pellegrini, la cui vanvitelliana chiesa della Trinità é una delle tantissime emergenze architettoniche che affliggono la Pignasecca, a partire dalla straordinaria prospettiva di Via Pasquale Scura, estremo tratto occidentale di Spaccanapoli, che parte dalla cima dei Quartieri Spagnoli e termina con la chiesa di S. Maria dei Sette Dolori che sorge in una zona in cui c’è una inconsueta veduta di Spaccanapoli; per questa ragione veniva chiamata del “belvedere”.

Il Complesso della Santissima Trinità delle Monache è uno dei più vasti complessi abbaziali di Napoli: esso comprende anche la monumentale chiesa della Santissima Trinità delle Monache. La struttura fu costruita nel quartiere di Montecalvario e confina con la Certosa di San Martino, il Castel Sant’Elmo e il Complesso di Santa Lucia Vergine al Monte. La fondazione della struttura si deve alla nobildonna Vittoria de Silvia (XVII secolo). Nella parte bassa dell’edificio, si trova la chiesa della Santissima Trinità delle Monache. Ancora oggi, lungo via Trinità delle Monache, c’è il grande edificio che ospitò l’Ospedale militare, risalente al 1536. Venne eretto per volere di Donna Vittoria de Silvia, dopo che riuscì ad avere il permesso di fondazione da papa Clemente VIII; l’edificio, prima di essere usato a scopi militari, fu adibito a convento. La struttura religiosa era circondata da vasti giardini e piacque molto alle famiglie aristocratiche dell’epoca.

Scendendo da Via SS. Trinità delle Monache, per via Pasquale Scura, svoltando leggermente a sinistra ci  si ritrova in Vico San Nicola alla Carità , a pochi passi da Vico Basilio Puoti, quieto e intatto vicolo napoletano dove il tempo sembra essersi fermato. Un paio di negozi, un laboratorio di restauro di mobili, tanti “panni spasi al sole” e al n. 8,  la centenaria Taverna del Buongustaio, difficile da trovare perché nascosta verso la fine di Vico Puoti, segnalata da una semplice insegna bianca.

Risaliamo all’origine del termine taverna: “Le tabernae, probabilmente, hanno fatto la loro prima apparizione in Grecia, in quelle località importanti per fini commerciali intorno alla fine del V e IV secolo a.C. In seguito all’espansione dell’Impero Romano nel Mediterraneo, il numero delle tabernae crebbe in maniera esponenziale, aumentandone l’importanza commerciale nell’economia urbana di numerose città quali Pompei, Ostia, Corinto, Nuova Cartagine. Molte di queste città erano porti dove i beni di lusso e la merce esotica importata, veniva venduta al pubblico: le tabernae erano le infrastrutture che agevolavano gli scambi commerciali”. Esistevano due tipologie principali di tabernae: quelle situate in edifici privati e quelle situate in luoghi pubblici. Al crescere dei centri urbani nelle città romane, crebbe anche lo sviluppo di edifici residenziali e commerciali per ospitare la grande massa di persone che affluiva a questi centri commerciali. Le persone che gestivano le tabernae erano chiamati tabernari ed erano in massima parte liberti che lavoravano sotto un padrone, vero detentore della proprietà del locale. Il secondo tipo di taberna era simile al precedente perché situato in una posizione fissa all’interno di un complesso di edifici, con la sola differenza di trovarsi in luoghi pubblici come mercati e fori, aree destinate a ricevere grossi volumi di affari. Famosi esempi ancora visibili sono ai mercati di Traiano

costruiti da Apollodoro di Damasco e negli scavi archeologici di Pompei ed Ercolano. Le tabernae rivoluzionarono l’economia di Roma perché rappresentavano le prime rivendite al dettaglio all’interno delle città, che significava la prima voce di crescita ed espansione dell’economia. Nelle tabernae veniva venduta una gran varietà di prodotti agricoli o artigianali come frumento, pane, vino, gioielli ed altro. La taberna era anche il luogo dove venivano liberamente distribuiti al pubblico vari tipi di cereali. Veniamo alla Taverna del Buongustaio, la cosa più difficile è tenere il conto delle gestioni che si sono avvicendate nello stesso locale per quasi centocinquant’anni e forse più, peccato non sia facile andare tanto indietro, perchèle testimonianze orali sono andate perdute.

Le prime generazioni gestivano la classica cantina con la mescita, la vendita del vino sfuso, il decimo di vermouth, e poi tutti i prodotti che allora si vendevano sfusi: pasta, olio, sale, conserva di pomodoro, strutto, legumi. Con il tempo la mescita ha cominciato ad aggiungere un primo piatto caldo da offrire agli avventori e, con gli anni si è passati al modello di taverna – trattoria. La destinazione originaria del locale s’intuisce dalla botola in ferro sul pavimento dell’ingresso, sollevandola non ci sono scale ma,  solo una ripida discesa in cemento per far rotolare le botti. La taverna di oggi è gestita da Don Gaetano Aiese , (cuoco di ns conoscenza , amico di Peppino Marangio e maestro di  suo figlio Massimo) e suo genero Salvatore Mazzella. Prima di loro si sono avvicendati: “‘O Schiavuttiello” per 35 anni, “ Il Capitano” per 40 anni, e Franco ‘O scemo, per 34 anni. Don Gaetano e Sasà sono qui da quasi vent’anni…fate un po’ i conti… Il locale è semplice e molto allegro: le pareti sono tappezzate di vignette di Francesco del Vaglio, storico ex vignettista de Il Mattino di Napoli,

articoli di giornale, cartoline e bigliettini dei clienti ed a centro sala una spiritosa riproduzione di Totò che ammonisce i clienti con “ sedute brevi”; come per dire qui si mangia bene, ma il posto è piccolo e devono mangiare in tanti, perciò non perdete tempo e una volta finito, via fuori al bar per il caffè. Una decina di tavoli per massimo 35 persone comode, ma – mi racconta Salvatore – la gente pur di sedersi si è stretta all’inverosimile.

Tavoli e sedie in legno semplice, tovaglie di cerata, posate casalinghe, tovaglioli di carta ed immancabile bicchiere da osteria. Il quartino, o, il mezzo litro di vino Solopaca rosso o bianco, viene servito in deliziose caraffe personalizzate fatte appositamente per la taverna da un artigiano locale.

L’atmosfera è cordialissima, al limite del teatro comico, Gaetano e Sasa’, suocero e genero (Sasà ha sposato Giusy la figlia di Gaetano), il primo, con 40 anni di esperienza e amore sviscerato per la cucina, sta ai fornelli e parla poco, dà ordini a gesti, l’altro é uno show man, fa il pagliaccio recitando il menù a memoria con una mimica di troisiana memoria. Sono una coppia perfetta che traspira passione e amore per la propria città da tutti i pori.

La cucina a sei fuochi, completa di cuoci pasta è comunque molto stretta, per questo motivo, niente donne in cucina…lo spirito è forte, ma, la carne è debole… No a congelatori e micro onde, la spesa è giornaliera, i fornitori i migliori e più cari della zona, come Carmine il pescivendolo. Il pane è Rescigno doc (link). A noi napoletani, capita spesso di avere improbabili conoscenze in comune, quando questo si verifica, diciamo “Napoli è un paese”. Eh sì, è un paese anche in questo caso, perché, combinazione, Gaetano è stato per anni il cuoco dell’Osteria della Mattonella in via Nicotera (link). Come ogni osteria home style che si rispetti, il menù è giornaliero: Lunedì: pasta e fagioli, in estate anche con le cozze; Martedì: pasta e patate con provola; Mercoledì: pasta e ceci; Giovedì: pasta e lenticchie; Venerdì: pasta e piselli; Sabato: pasta e cavolo; Domenica: ragù, genovese, o gnocchi.

Sasà il menù lo conosce virgola per virgola,  si esibisce girando per i tavoli, in caso arrivi qualche turista, allora tira fuori il menù tradotto anche in inglese. Capita spesso che gli stranieri siano diffidenti la prima volta, ma, poi, rotto il ghiaccio, tornano per tutta la durata del soggiorno: mangiano bene, si divertono e spendono poco. Oltre al piatto del giorno, ruotano circa sette, otto primi piatti e altrettanti secondi ogni giorno: penne lisce con una fantastica genovese di colore bruno-ambrato fatta con le cipolle di Tropea e cotta per ore,

sugo al pomodoro fresco, o, buonissima puttanesca, dove l’intensità dei sapori va in progressione, prima le olive nere di Gaeta, poi i pomodorini e infine i capperi risciacquati, il risultato è un boccone davvero prelibato.

Mi giro e vedo su un tavolo un utensile di cucina di nonnesca memoria, il passa verdure, chiedo per cosa venga usato, Sasà mi risponde quasi piccato: qua il ragù si fa solo con i pelati passati a mano”.

Facciamo un passo indietro, l’antipasto è un ricco piatto con mozzarellina panata e fritta, involtino di melanzane, bruschetta, mini crocchè ed arancini fatti in casa e piccola frittatina di maccheroni: praticamente un pasto. La sfilza dei primi si arricchisce con pasta alla siciliana spadellata (niente forno),

spaghetti con i calamari o con i frutti di mare, spaghetti aglio, olio e peperoncino, mezzanella lardiati, lasagna solo a carnevale, minestra maritata con tutti i crismi a Natale , e gnocchi di patate fatti in casa.

I secondi rispettano la tradizione con qualche divertente innovazione: alici fritte, frittura di calamari e gamberi o di “paranza”, lacerto ( sgombro) al sugo,

pesce spada alla griglia, pesce bandiera senza spine (ecco la novità) indorato e fritto, polpo all’insalata,

o,  all’ischitana, con aglio, olio e vino bianco, baccalà fritto o, in cassuola, coronello in bianco con le olive. Per la carne si spazia da spettacolari bistecche che Don Gaetano fa vedere prima di cuocerle ( prezzo 8 euro),

la carne della genovese, l’annecchia la carne di vitello o maiale di un anno), la carne del ragù, con salsicce, polpette e spuntature, salsicce e friarielli, polpettone fritto o al sugo, provola di Agerola fresca o alla piastra, fegatini alla veneziana, zuppa di soffritto, carne alla pizzaiola, con il sugo per condire la pasta.

I contorni sono napoletani classici: friarielli, parmigiana di melanzane, zucchine alla scapece, peperoni in padella.  verdure miste lesse, funghi trifolati, carciofi in umido, patate al forno. Quando c’è tempo, frittate di verdure, di patate e di cipolle. Il vino è della casa, un onesto Solopaca bianco o rosso, in alternativa, qualche buona etichetta campana.

C’è un’atmosfera caotica che segue però, un suo ordine: intanto, i clienti fissi hanno il proprio tavolo, sempre lo stesso, se c’è fila, non ci sono eccezioni, attore, professionista o “puveriello”, aspetti come gli altri. Il servizio è assolutamente informale, cliente a Sasà: “ ce vuò purtà nu poco ‘e pane?”Risposta: “ eh nun v’aizate eh?” ( e non vi alzate eh?).

Molto di questo racconto potrebbe suonare come banale folklore, non è così, questa è gente che lavora quasi 24 ore al giorno, non si arricchisce, è innamorata della propria città, sa riconoscere i prodotti di qualità,  e, in più,  si diverte.

La clientela è quasi tutta quotidiana, composta soprattutto da professionisti: avvocati, medici, ingegneri, gli studenti di architettura. Per mezz’ora, o, un’ora, le persone qui davvero staccano la spina, ridono, si rilassano, mangiano bene, farebbero volentieri due ore di pausa pranzo, il saluto è rassicurante: “ ci vediamo domani”.  Alle 14, 30, c’è ancora fila di gente che aspetta, fuori, o, anche dentro ai piedi se fa freddo, o, piove. Qualcuno vorrebbe ordinare e portar via, ma, Gaetano e Sasà sono categorici: niente asporto, se lo facessimo, trascureremmo la sala. Eh già, la sala, o meglio, il teatro: è tutto un vociare rumoroso da un tavolo all’altro, i napoletani si riconoscono dal tono di voce, gli stranieri hanno due tipi di reazioni, o, si uniscono al chiasso, o, restano fermi, in silenzio domandandosi dove mai siano capitati, mentre qualche cliente entra in cucina per chiedere “ che ce sta oggi Don Gaetà?”. Gli avventori praticamente si conoscono tutti, s’incontrano tutti i giorni, si seguono dunque le vicende personali, quasi come fosse un “Posto al Sole”. Il pubblico serale è diverso: attori, gente di spettacolo, ma per Don Gaetano e Sasà sono tutti uguali, il loro compito è trasmettere e preservare la memoria del gusto della vera cucina napoletana. Le note dolci prima di quelle dolenti ( si fa per dire): i dessert sono tutti fatti in casa, una meravigliosa caprese, alta e umida al punto giusto,

pastiera, bBabà, crostate di frutta e millefoglie crema e amarena. Espresso? No, qui niente caffè, i clienti non ci fanno caso, il bar in Piazza Carità è a due passi e loro escono contenti: “ ci siamo divertiti oggi eh?”. Del conto non si preoccupa nessuno. Dall’antipasto al dolce circa 20 euro, (poco più, poco meno, dipende dalle scelte), porzioni gigantesche, quasi nessuno riesce a mangiare un pasto completo e allora: antipasto 4 euro, primi piatti da 5 a 7 euro, secondi di carne o pesce da 5 a 8 euro, contorni 2 euro, dolce 2 euro, a Napoli si direbbe … “‘a faccia do bicarbonato di sodio”!


di Giulia Cannada Bartoli


Dai un'occhiata anche a:

Exit mobile version