Antica Osteria Pisano
Piazzetta Crocelle ai Mannesi, 1
tel. 081 5548 325.
Aperto a pranzo e cena, 12,00 – 16,00 /19,30 – 23,00
Chiuso: domenica
Ferie: agosto
Uà! (esclamazione dialettale che sta per ” u ànema dò Priatorio) si ricorda <<‘o cippo a Forcella, >>, a Napoli c’è una strada che da sola identifica un quartiere intero. Il suo nome ha fatto il giro del mondo per una serie di avvenimenti e caratteristiche non sempre entusiasmanti legati alla mia città. Nonostante tutto ciò, questa piccola ma pulsante arteria, colorata, chiassosa e accattivante, fa parte della sua storia, soprattutto, quella del dopoguerra e viene comunque considerata una zona da visitare per chi vuole vedere la vera città, non quella patinata da cartolina con Vesuvio, pizza e mandolino.
L’origine del nome Forcella è ancora dibattuta: alcuni l’ accostano al fatto che la via, ad un certo punto, si dirama e forma un bivio che somiglia proprio ad una forcella, strumento a forma di “Y”. Le scuole di pensiero su questo punto sono diverse, ma, prima di tornare all’origine del nome e, proprio per spiegare del famoso “cippo”, va ricordato che davanti al teatro Trianon -Viviani, si erge un alto cancello circolare che cinge una parte della carreggiata, anch’essa a forma di cerchio. Dando un’occhiata a quanto viene protetto dal cancello, ci si accorge che il contenuto è tutt’altro che di poco conto, si tratta di un gruppo di pietre facenti parte un tempo, della cinta muraria di epoca greca, appartenenti molto probabilmente alle mura che delimitavano una delle porte dell’antica Neapolis. Ecco spiegata la ragione del detto, ad indicare qualcosa di molto vecchio e ormai fuori uso. Un’altra spiegazione si rifà ad un fatto storico realmente accaduto: l’espressione potrebbe risalire al monumento posto, anticamente, sulla piazza della Sellaria, al ridosso del quartiere di Forcella, che era adibito alla decapitazione di uomini durante i moti di Masaniello, nel 1647.
Neapolis era suddivisa in quattro fasce orizzontali: i decumani romani, erano fasce rettilinee, per poter governare la città in modo ordinato. Il decumano principale, il centrale, era quello in cui oggi è situata Via dei Tribunali, al quale si affiancavano il decumano superiore, oggi Via dell’Anticaglia e il decumano inferiore, Spaccanapoli. Quest’ultimo è l’unico che nel corso dei secoli, ha cambiato pochissimo la sua originale struttura. Il decumano di Spaccanapoli, quello più vicino al mare dei tre, divide in due parti la città. Dai punti più alti di Napoli, come Castel Sant’Elmo o il piazzale antistante la Certosa di San Martino, si può vedere chiaramente come il decumano tagli la città, meritandosi a pieno titolo l’appellativo di Spaccanapoli.
La strada collega con una linea retta i Quartieri Spagnoli e il quartiere Forcella racchiudendo al suo interno ben sette strade. Infatti, Spaccanapoli dal punto di vista toponomastico non esiste, si tratta piuttosto, di un nome attribuito dai napoletani allo storico tracciato, costituito appunto da sette strade:
– Via Pasquale Scura (la parte più alta, nei Quartieri Spagnoli, fino all’incrocio con via Toledo)
– via Maddaloni
– Via Benedetto Croce (che attraversa Piazza del Gesù Nuovo fino a Piazzetta Nilo)
– Via San Biagio dei Librai (decumano inferiore, nel cuore del centro storico, fino a via Duomo)
– Via Vicaria Vecchia, Via Forcella, Via Giudecca Vecchia.
A poco meno di cento metri da Via Vicaria Vecchia, attraversando Vicoletto San Giorgio ai Mannesi, ci troviamo in Piazza Crocelle ai Mannesi, nel cuore di Forcella, qui, su Via Duomo, si affaccia la Chiesa di San Giorgio Maggiore,
le cui origini risalgono all’era paleocristiana. Fu costruita tra la fine del IV secolo e l’inizio del V per volere del vescovo Severo, nella zona di Forcella occupata dagli abitanti di Ercolano scampati all’eruzione del 79 d.C. Da questa chiesa, in questi ultimi anni, contribuisce a lanciare fattive azioni contro la camorra, il prete napoletano don Luigi Merola.
Per la spiegazione dell’etimologia della parola napoletana mannesi, ricorro ancora una volta alle dotte citazioni di Raffaele Bracale, con il quale condivido l’amore sconfinato per questa città. “Tutt’altra cosa è il mannése della parlata napoletana dove è un sostantivo, non aggettivo masch. e vale carpentiere, falegname, ma più ancora, carradore, fabbricante di carri e carretti, artigiano che fabbrica o ripara carri e birocci. Affrontiamo il problema semantico e diciamo che tra la fine del 1700 ed i primi del 1800 a Napoli furono moltissimi gli artigiani che si dedicarono al mestiere di carradore, di fabbricante di carri e carretti, di riparatore di carri e birocci ed aprirono bottega in talune strade della città, lasciandovi poi addirittura il nome: come, Carmeniello ai Mannesi, Crocelle ai Mannesi etc. Il fatto importante fu che per quanto ampie o spaziose fossero le botteghe (e non lo erano!) esse erano comunque insufficienti a contenere carri e/o carretti in lavorazione o riparazione con tutti i necessarî corollarî di ruote, pianali, sponde e stanghe ed un po’ tutti i carradori finirono per lavorare in istrada invadendo i marciapiedi antistanti le loro botteghucce ed ovviamente, per risparmiarsi la fatica di recarsi continuamente in bottega a procurarsi gli strumenti di lavoro (‘e fierre d’’a fatica), presero l’abitudine di tenerli tutti a portata di mano; da questo fatto nacque l’espressione tené a mmannése (id est: avere a portata di mano, alla maniera del mannése). Ancora oggi nel parlato partenopeo s’usa dire a mmanése ed inopinatamente l’espressione , così ricca di storia ed onesto lavoro artigianale è stata confinata solo in vocabolarî d’epoca.>>. Il quartiere faceva parte dei seggi più importanti della città, come testimonia l’emblema del Seggio di Forcella, la cui denominazione sembra connessa, al simbolo dello stemma che raffigura una Y.
A trasformare Forcella, pacifica strada della vecchia Napoli, in un’autentica Casbah, furono gli angloamericani nel dopoguerra, contribuendo tuttavia, a salvare la città dalla fame.
Napoli, dopo aver subito cento bombardamenti era in ginocchio, in questo clima di disperazione e fame avvenne l’incontro tra i militari americani e gli scugnizzi, molte ragazze si innamorarono degli americani così eleganti e romantici, tante andarono a vivere negli Stati Uniti, molte altre rimasero a Napoli magari un po’ più ricche e spesso “ca ‘ a panza annanz’” (incinte). Il contrabbando delle sigarette diventò man mano un vero e proprio mestiere: lungo le strade le donne le vendevano sui panchetti. Forcella ci riporta anche al folkloristico e indimenticabile primo episodio di Ieri, oggi, domani di Vittorio de Sica,
nel quale, Adelina (Sophia Loren), per evitare la prigione per spaccio di sigarette di contrabbando continuava ad avere figli dall’esausto marito, interpretato da Marcello Mastroianni.
Forcella oggi non è più solo questo, oltre al teatro Trianon, che sta vergognosamente chiudendo, per colpa di miopi amministrazioni, dopo cent’anni di popolari rappresentazioni dei grandi Totò e Nino Taranto,
c’è l’omonima pizzeria Trianon che si conferma, dalla sua fondazione nel 1923, come uno dei locali più frequentati dai turisti per la fama che lo vuole come, se non il primo, uno dei primi dove si serviva la famosa pizza Margherita. Persino Julia Roberts è venuta a Forcella a mangiare la pizza per girare il film “Love, Eat and Pray”.
Torniamo alla storia dei Pisano, poco più di vent’anni dopo dall’apertura della pizzeria Trianon, esattamente nel 1946, mentre Napoli , ancora in pieno dopo guerra, votava a favore della monarchia, a circa 500 metri di distanza da Via Pietro Colletta, sede della storica pizzeria, Carmine Pisano, prendendo le redini del mestiere paterno, intuì che la strada per fare “businèss” era quella di intercettare il flusso di persone, locali, turisti, professionisti e studenti che da Spaccanapoli tornava in direzione della stazione centrale in Piazza Garibaldi a circa due chilometri, guarda caso, ad ora di pranzo o di cena.
L’offerta era semplice, Vini e Cucina, vino sfuso, Gragnano e vini del Vesuvio, zona d’origine dell’allora fidanzata e poi moglie, Anna Ippolito, conosciuta qui nel quartiere.
Al vino si accompagnava qualche piatto caldo della più popolare tradizione partenopea: pasta e fagioli, baccalà, zuppa di soffritto, minestrone, peperoni, friarielli, giusto per “soppontare” (reggere) il vino, e, nella mattinata, o dopo pranzo, si consumava “ ‘o decimo ‘e marsala o vermùt”, unità di misura in uso dalla fine dell’800, pari ad un bicchierino.
In cucina in quegli anni c’erano Carmine, per gli amici Carminiello, la suocera Concetta e la moglie Anna.
La scelta dei piatti dagli anni del dopo guerra all’85, non muta di molto, magari si inverte un po’ il rapporto vino – cibo a favore di quest’ultimo, aumenta l’assortimento, ma tutto, nel rigoroso rispetto della tradizione popolare. Dal matrimonio di Carminiello e Anna nascono tre figli, Concetta (come la nonna materna) per tutti “Titina”, Angela e Gennaro (come il nonno paterno).
Nel 1985 Carmine muore, lasciando la gestione dell’’Antica Osteria Pisano alla moglie e ai figli. Angela collabora saltuariamente, Titina, vocazione da cuoca e “ femmena ‘e mare” decide di partire per un periodo di esperienze in giro per l’Italia fino al suo ritorno a casa nel 1993. Insomma tocca tutto a Gennaro e mamma Anna. Nessuno dei due si è spaventato, entrambi dotati di spiccata creatività e fantasia, si sono rimboccati le maniche, hanno rinnovato il locale, una decina di tavoli, al massimo 30 coperti, semplice, garbato, con cucina a vista, linda e splendente, neanche l’ombra di grasso o polvere. Il sistema di aspirazione è perfetto, niente odori pesanti di cucinato e frittura.
La sala è semplice in legno e ferro battuto, tovaglie di carta, tipici bicchieri da osteria per il vino sfuso che scopro arrivare dal Taburno. Non manca qualche etichetta di note cantine campane.
La spesa è giornaliera, come fosse per casa, in realtà, qui ci si sente a casa, la cucina è a un tiro di schioppo dai tavoli, ci si alza tranquillamente per scegliere tra i piatti esposti o, per fare due chiacchiere con Titina o Anna. Gennaro va al mercato di Porta Nolana per il pesce e le verdure; per tutti gli altri prodotti: latticini, formaggi, verdure particolari, mamma Anna si comporta esattamente come una casalinga, prima di scendere in osteria, la mattina impiega due ore a fare la spesa, bottega per bottega, per scegliere ciò che più le piace per il menù del giorno deciso al momento insieme alla figlia Titina, ironica e autorevole cuoca con una bella passione per i vini buoni, oltre che per il mare.
La carne arriva da un macellaio di fiducia della zona; i pomodori sono solo freschi – tagliamo pomodori dalla mattina alla sera mi dice Anna -; il pane arriva caldo tutte le mattine da un noto forno del Borgo di Sant’Antonio, per tutti i napoletani “‘o buvero”, un rione di Napoli che sorge ai lati di via Sant’Antonio Abate, strada lunga circa un chilometro che unisce Porta Capuana a Piazza Carlo III, famosa per il suo storico mercato giornaliero. Di particolare rilevanza storico-urbanistica, è una delle poche zone della città che dal ‘400 ad oggi ha mantenuto inalterata la propria struttura.
Gennaro oggi si occupa per lo più dell’amministrazione, in realtà la cucina ce l’ha nel sangue, studi alberghieri, poi autodidatta. Fino al ritorno di Titina era al fianco di Mamma Anna ai fornelli, alcuni piatti restano di suo esclusivo appannaggio, oltre alla scelta delle materie prime solo di grande qualità. Il menù è giornaliero e decisamente ricco, esposto solo in minima parte sulla lavagnetta all’ingresso.
Si può partire dall’assaggio di antipasti (mini porzioni di contorni e secondi) con una decina di piatti sempre differenti, seppie e patate, calamari in cassuola, fritto di peperoni e melanzane imbottite, cotolette di provola e ricotta, verdure grigliate, oppure,
il mitico piatto di carciofi indorati e fritti che mi hanno ricordato quelli di una cara prozia cresciuta al Museo, e ancora, alici fritte, spettacolare baccalà alla siciliana con cipolle, pomodorini, olive, passi e pinoli e l’immancabile trippa al pomodoro.
Beh, già dopo questi assaggi si potrebbe dire basta, ma, curiosità e golosità prevalgono, la scelta dei primi è altrettanto assortita e intrigante: scialatielli fatti in casa con aggiunta di basilico e rucola nell’impasto, ai frutti di mare appena rosati con qualche “pummarolella” fresca,
linguine al coccio, calamarata con olive, capperi e calamari, risotto alla pescatora, paccheri alla Marechiaro con spernocchie (pannocchie), gamberetti e cozze, poi, tutte le minestre con i legumi, pasta e patate con la provola, pasta e zucca, verze e riso, la zuppa di soffritto, pasta e cavoli, gnocchi alla sorrentina, matriciana, scarpariello, ragù e genovese. Se siete ancora lucidi, possiamo passare a secondi e contorni: spezzatino al forno con patate, salsicce alla griglia e friarielli, polpette fritte o al ragù, scaloppine, braciole, costolette di maiale, pesce spada e gamberoni alla griglia, il magnifico baccalà di cui sopra, seppie e patate in umido,
coronello in bianco con le olive, polipetti, o, calamari in cassuola,
frittura di paranza, rigorosamente da distinguere dalla “mazzamma”, termine dialettale, spesso usato in senso di disprezzo, sta ad indicare ogni genere di rimanenza, spesso inteso come scarto. In gergo marinaro dei pescatori, indica comunque il piccolo misto rimasto nella rete, l’insieme di tutti quei piccoli pescetti (‘o sparaglione, ’o marmuriello, ‘o sauriello) di poco pregio, un tempo destinati al consumo delle famiglie dei pescatori. Una volta cotti, i pescetti venivano serviti a parte (perché dovevano essere mangiati con le mani, facendo molta attenzione ad eliminare le spine di cui sono molto dotati i pesci da zuppa), mentre il brodetto veniva servito in una ciotola di creta con dentro una “fresella” ( pane biscottato). I pescatori chiamarono la ricetta ” all’acqua pazza” per il fatto che il pesce veniva cotto nell’acqua mischiata ad un po’ di vino bianco e a qualche pomodorino.
I contorni, spesso serviti come antipasti sono un inno alla cucina del popolo napoletano dei “mangiafoglie” del periodo dal 1400 al 1600: parmigiana di melanzane,
friarielli, scarole affogate, carciofi in umido,
insalata mista, broccoli al limone, peperoni imbottiti, deliziose e semplici melanzane a barchetta, tagliate a metà, fritte e conciate con pomodorini, olive, capperi e origano.
Anche i dolci sono fatti in casa da mamma Anna: tiramisù, babà, delizia al limone, pastiera e torta caprese. Qui si respira autentica aria di famiglia, tutto è naturale, il rapporto tra mamma e figli è spontaneo, senza forzature o finzione, si percepisce subito che in fondo c’è unione, complicità, vero affetto e voglia di lavorare insieme, la famiglia è matriarcale, Anna, Angela e Titina sono una forza, ma, Gennaro, testardo come suo padre non si << fa mettere i piedi in testa>>. Tutti e quattro sono animati dalla voglia di migliorare, il collante è uno solo: la determinazione di non mollare, non lasciare che questo volto di Napoli scompaia, assorbito dall’omologazione.
Dopo tutto questo ben di Dio vi starete domandando: << ma qui, altro che venti euro>>, eh no, anche questa volta, sia pur con qualche variante (le porzioni sono pantagrueliche) ce la siamo cavata. Ordinando primo, secondo e contorno, ad esempio, pasta e fagioli, salsicce, friarielli e vino della casa, oppure pasta e patate, frittura di paranza, contorno e vino della casa, spenderete tra i 15 e i 17 euro. Per un primo piatto, come gli scialatielli di casa ai frutti di mare, contorni e vino incluso, oppure un secondo di mare, contorni e vino spenderete tra i 18 e i 20 euro. Ancora, se chiedete a Gennaro “fai tu”, vi arriverà al tavolo una carrellata di almeno 12 antipasti, 2 primi piatti, dolce e vino della casa, il tutto per 25 euro, più o meno quanto una pizza, e sfizi in centro città.
Il caffè è molto buono in tutti bar della zona, il più rinomato è Tico che lo serve a via Duomo e in altri vicoli del quartiere, rigorosamente in vetro e già zuccherato.
Se poi, vi doveste trovare, come è capitato a me, da queste parti nel periodo natalizio, potrete dire di aver assistito e partecipato ad uno spettacolo di popolo unico al mondo: la tombola di quartiere a piazzetta Olivella nei pressi della stazione della metropolitana di Montesanto.
Da lontano penserete di certo ad un incidente o un malore, urla, agitazione, folla: avvicinatevi, troverete la “capopopolo” del rione con il tradizionale bussolotto di paglia con i numeri, cartelle di cartone fatte a mano, pennarelli rossi per segnare i numeri estratti, vassoio di graffette dolci per intrattenimento, persone sedute, molte in piedi, signore al balcone con cartella e pennarello che chiedono “24 è asciuto”?
La maestosa caporione, avvolta in un cappotto per ripararsi dal freddo, agita con gesti teatrali il bussolotto e annuncia gli ultimi tre estratti:<< vinte, ’a festa! Quarantacinc’, ’o vino ‘bbuono! Sittantaroie, a maraviglia>>!
Festa, vino buono e meraviglia, le cose che vi auguro per il 2011, soprattutto la meraviglia, la capacità di stupirci di fronte alle piccole cose belle che ci capitano ogni giorno e non abbiamo il tempo di notare.
Questo è il 2011 che auguro a tutti noi.
Di Giulia Cannada Bartoli
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