Trattoria a’ Cucina ‘e Mammà
Via Foria 101
Tel.081.449022 – 340 0854028
Aperto dal lunedì alla domenica
Chiuso Domenica sera e Lunedì sera
Via Forìa è il nome della strada che parte dall’attuale Museo Archeologico, per giungere a Piazza Carlo III, con il maestoso edificio vanvitelliano dell’Albergo dei Poveri. Insieme con Corso Umberto e Via Marina, Via Forìa è l’unica arteria che attraversa il centro della città. Lungo il percorso incontriamo Porta San Gennaro e il gentilizio palazzo Ruffo di Castelcicala del 1690, oggi lussuoso B&B. Si dice ( vox populi, vox dei) che questa strada non sia particolarmente amata dai napoletani perché conduce al cimitero. Foria deriverebbe da “fuor via”, perché un tempo tale via si trovava in aperta campagna e, perciò, fuori-via. Voluta e creata dai Borboni per avvicinare la capitale agli opifici e alle fabbriche che si erano sviluppate in Terra di Lavoro.
Via Foria era la strada utilizzata per le parate militari e, sfociando nella salita della Doganella, era la via di comunicazione più moderna e funzionale per raggiungere la reggia di Caserta ed i setifici di San Leucio, estremamente larga per quel tempo e circondata tanto, da palazzi nobiliari, quanto, da autentiche catapecchie. Ai lati della grande via, come la descrisse la scrittrice Anna Maria Ortese, ci sono strade e quartieri d’antica memoria e di grandissimo fascino come la salita della Stella, i Vergini, la Sanità, il Borgo S.Antonio Abate
e via Michele Tenore, conosciuta dai napoletani, come Salita di S.Maria degli Angeli dal nome della chiesa costruita da Cosimo Fanzago. Oltre “Salita di S.Maria degli Angeli”, c’è un altro vicolo adiacente Via Forìa che si chiamerebbe Vicolo Minutoli, ma, per i napoletani è da sempre “Vico Saponari”. Sapunaro; “‘E sapunare jevano giranno na vota pe ‘e ccase, arraunanno robba vecchia, pure si era sgarrupata, ca ‘a ggente se vuleva luvà ‘a tuorno. ‘O sapunaro nun deva denaro ‘n cagno, ma lassava prete ‘e sapone”.
Una volta questi erano i vicoli e le vie dove nel “basso” c’èra la bancarella davanti alla quale i bambini facevano pazzie per i bomboloni, dolci di allora e lo “strummolo”, ovvero una trottolina di legno a forma di piccola pigna, con scanalature incise lungo tutta la superficie, disposte parallelamente dal fondo alla punta nella quale è infissa un punta metallica. La voce strummolo ha un’etimologia greca derivando da strómbos, poi traslato nel latino strumbus, con aggiunta del diminutivo olus, da cui strummolo con il significato di trottolina. A Napoli si dice “s’è aunita ‘a funicella corta e ‘o strummolo tiriteppeto”, cioè: la cordicella corta e la trottolina ballonzolante si sono uniti in un fallimentare accordo. La cordicella troppo corta per poter trasmettere con forza la necessaria spinta al movimento rotatorio dello strummolo, a sua volta spuntato in modo che la trottolina s’inclina e si muove ballonzolando, producendo un suono del tipo tirití-tirité da qui per onomatopea il suono napoletano: “tiriteppeto”.
Erano gli anni in cui lungo la discesa di S. Maria degli Angeli, gli scugnizzi si lanciavano a precipizio con il mitico “carruociolo”, fatto di legno e cuscinetti tenuti insieme con la mazza della scopa.
Torniamo in Via Foria, a poche centinaia di metri dall’ex caserma Garibaldi, costruita pochi anni dopo l’unità d’Italia e sede delle forze armate per più di cento anni, oggi ufficio dei messi di conciliazione del Comune,
incontriamo la nostra meta low cost, al numero 101 di Via Forìa, segnalata da un’allegra insegna in ceramica, si trova “‘A Cucina ‘e Mammà”, sul marciapiede di fronte, uno degli ultimi veri acquafrescai di città.
L’interno della trattoria è piccolo e chiassoso, a prima vista potrebbe sembrare creato a posta per i “turisti”, basta uno sguardo e si capisce che invece qui c’è solo gente del quartiere, al massimo, di passaggio. Una dozzina di tavoli, tovaglie a scacchi, le pareti di pietra viva, dove fanno bella mostra pentole in rame, vecchie foto, cartoline e, soprattutto una grossa treccia d’aglio e una di peperoncini, a mò di corni, naturalmente contro “‘o maluocchio”, immancabile la tv a schermo piatto: per le partite del Napoli.
Tavoli e sedie in legno sono sistemati per ottimizzare il numero delle sedute. A pranzo c’è il menù settimanale, la sera si ordina alla carta. In ogni caso anche a mezzogiorno si possono scegliere piatti diversi, secondo disponibilità. Arriva il pane: più ci si addentra nel cuore di Napoli, più alte sono le probabilità che il pane sia ottimo.
La clientela è eterogenea, prevalgono i clienti fissi che ovviamente si conoscono tutti: ecco partire baci e abbracci, chiacchiere, domande, esclamazioni da un tavolo all’altro, come in una sorta di palcoscenico non stop, dove l’oste Peppe, o, Pinuccio Stagliano, suo figlio Giuseppe e le voci dalla cucina di Teresa e Myriam, rispettivamente, moglie e figlia di Peppe, tessono una trama quotidiana, mai uguale a sé stessa. Poco prima delle 13,00 il locale è già abbastanza affollato, a differenza di altre zone della città dove l’ora di pranzo è spostata in avanti di circa un’ora. Il clima è molto familiare, senza differenze: per tutti, avvocati, impiegati, operai, extra comunitari, vale la stessa domanda affettuosa: “Assettateve, aita mangià”? Contemporaneamente con il lavoro di sala, la cucina riesce a gestire una quantità di piatti da asporto stupefacente, anche qui, le mamme che non fanno in tempo a cucinare, si rivolgono a “mammà” Teresa, che pensa per tutti. Il menù settimanale è ispirato alla pura tradizione napoletana: Lunedì: pasta e fagioli;Martedì: maccheroni al ragù; Mercoledì: primo piatto di mare; Giovedì: ziti alla genovese, Venerdì: pasta e ceci; Sabato: minestra maritata in inverno, insalate di pasta e frittate di maccheroni d’estate.
Da provare assolutamente ‘a maccarunata (pasta con pomodoro a crudo)il famoso “’O roje” . E’ davvero una rarità scovare una trattoria che abbia nel menù questo piatto delle origini della cucina napoletana, piatto povero, semplice ma, tra i più difficili da cucinare, perché è una pasta col sugo, senza olio aggiunto o altri condimenti, se non un ciuffo di basilico.
I secondi variano tra mare e terra con prevalenza del primo che, a giudicare dalle comande, è quello che va per la maggiore: alici fritte, quelle da mangiare intere con le mani, calamari, gamberoni e pesce spada alla griglia, stocco e baccalà in bianco, fritto, o, alla carrettiera. Il pesce, tipo orata o spigola, si cucina di sera e va a peso, tra i 30 e i 35 euro al chilo.
La carne è di maiale come le costolette e le salsicce, poi polpette, bistecca, spiedini, pollo al forno, i tagli del ragù e della genovese, in primavera lo spezzatino di agnello con uova e piselli.
Buona la mozzarella di bufala. I contorni sono i classici del repertorio partenopeo: patate al forno, o, fritte, parmigiana di melanzane, carote in insalata, broccoli, friarielli, funghi, insalate miste, caprese pomodori e mozzarella, peperoni in padella e zucchine alla scapece.
La scelta dei dolci è notevole per una trattoria: tiramisù, panna cotta e torta di carote fatte in casa, delizia al limone, o, al caffè e torta ricotta e pera acquistate in pasticceria. Il vino della casa arriva dai Campi Flegrei. Veniamo al quid: avrete capito che siamo in una zona popolare della città, il prezzo del pranzo completo a mezzogiorno, 7 euro, è fatto sui grandi numeri. La sera si spende qualcosa in più: antipasti tra 4 ed 8 euro, primi piatti tra i 5 e i 12 euro, secondi di carne, mediamente 4 euro, si sale se si sceglie il pesce a peso, o, la carne tipo entrecote o chianina. Frutta e dolce, entrambi 2 euro. Il vino della casa 2 euro al litro. Insomma, potrete oscillare dai 7 euro di ora di pranzo ai 25 – 30 euro a cena con menù completo dall’antipasto al dolce, scegliendo pesce o carne speciali, inclusi un ottimo caffè e la saggezza popolare dispensata da Peppe l’oste e dai molteplici personaggi che si avvicendano da mattina a sera in questi 50 mq di Napoli verace, quella sincera e ironica che ti aiuta a campare meglio, almeno per un paio d’ore.
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