Da dove nasce l’idea industriale di congelare la mozzarella artigianale a marchio DOP che circola con insistenza tra alcuni addetti ai lavori? Forse dal troppo successo, un successo che non sazia i suoi protagonisti, anzi, li ingolosisce ancora di più. Il comparto dei latticini campani gode di ottima salute, in particolare la mozzarella di bufala DOP i cui dati sono in costante crescita ormai da quasi vent’anni.
Un comparto ricco, ricchissimo
Basti pensare che siamo passati da 200mila a 400mila capi e che ormai c’è chi, come la Coldiretti, ha chiesto alla Regione di valutare l’ipotesi di comprendere anche le province di Avellino e Benevento per estendere l’area di produzione ed evitare di precipitare nell’orrore di allevamenti troppo intensivi come è successo con le vacche al Nord.Alla fine del 2018 si è toccato il record storico dei 50 milioni di chili prodotti in un anno, che confermano un trend di crescita ormai consolidato. Nel 2018 il comparto è cresciuto del 5%, negli ultimi tre anni (2015-2018) del 20%. Bene, nel 2019 questi dati sono stati superati, sia pure un po’ al di sotto del 2 per cento. Nel 2019 il canale Ho.Re.Ca. (acronimo per Hotellerie, Restaurant e Cafè o Catering) pesa per il 22,89% in un crescendo costante (+2,1% sul 2018). Ciò è dovuto soprattutto al successo della pizza napoletana fuori Napoli e al ruolo che per dieci anni ha avuto il congresso Le Strade della Mozzarella, curato da Barbara Guerra e Albert Sapere sostenuto dallo stesso Consorzio.
Ma il canale privilegiato per la distribuzione della mozzarella di bufala campana DOP resta quello del Big Retail (con il 43,57%) seguito a distanza dal Normal Trade (13,7% nel 2019) e dalla vendita diretta (6,97%).
Per completare il quadro della situazione, Francia, Germania e Spagna sono invece i Paesi di riferimento per l’export e, insieme, valgono oltre il 60% del mercato estero. Seguono i paesi del Benelux (8,44%), la Gran Bretagna (8,14%) e gli Stati Uniti (6,60%). In totale una mozzarella DOP su tre finisce all’estero.
Ed è su questo terreno estero che si deve giocare la partita secondo i grandi produttori del Consorzio. Ma qual è l’ostacolo maggiore che impedisce di conquistare i lontani mercati asiatici e quello americano? Ovviamente la logistica, ma soprattutto il fatto che per mantenere la mozzarella fresca bisogna tenerla nell’acqua di governo che finisce per influenzare i costi di spedizione e che non la rende competitiva lì dove si è iniziata a produrla: negli States, ad esempio si contano circa 130 caseifici sulla Costa Orientale che sfruttano il successo dell’italian sounding: mozzarella e parmigiano sono ormai richiesti più dello stesso cheddar, ritenuto il formaggio identitario.
Ma si sa, gli americani sono un popolo pratico e non vivono di nostalgia e orgoglio a tavola come noi.
Quindi il mercato americano fa gola ai grandi produttori che, in realtà, ci potrebbero arrivare surgelando la mozzarella e trasportandola in cilindri simili ai galbanini per poi rivitalizzarla in loco. Esperimenti sono stati fatti in gran segreto in qualche pizzeria e ristorante, dove i candelotti sono tenuti nascosti come gli alcolici durante il Proibizionismo. Non si sa se tali esperimenti siano stati e siano sostenuti direttamente dal Consorzio.
Ma il punto fondamentale è che questo è già possibile farlo, e già si fa, ma con un punto particolare: non ci può essere il marchio europeo DOP che garantisce il prodotto fresco con latte lavorato non oltre 60 ore dalla mungitura.
La questione del latte congelato
Per la verità nel 2020 è stato usato il latte congelato perché il Consorzio in silenzio ha ottenuto dal Ministero una deroga al disciplinare in considerazione della crisi Covid, unico Consorzio di formaggi in tutta Italia. Deroga prorogata, secondo quanto scrive in una interrogazione il deputato campano di Forza Italia Paolo Russo, ex presidente della Commissione del Senato alla Camera, il 4 dicembre scorso sino al 30 giugno 2021.
Peccato che il Consorzio, abituato a comunicare anche i peti dell’ultima bufala, si è ben guardato dall’informare i consumatori che era possibile che la mozzarella acquistata potesse essere fatta con il latte congelato.
Perché il punto vero è questo: la questione del latte congelato va avanti ormai da anni, e ci sono state richieste precise in tal senso perché le bufale producono di più in inverno e di meno in estate, ossia c’è più latte quando il mercato richiede meno mozzarella.
Nei social è facile trovare accuse sull’uso diffuso e indiscriminato di latte congelato, sta di fatto che si tratta, o meglio si trattava, di una pratica illegale se il prodotto è a marchio DOP. Il marchio è stato ottenuto con una documentazione storica precisa che difende non solo il prodotto ma anche un metodo tradizionale di lavorazione. Questo è il senso dei riconoscimenti europei.
La questione è un’altra: informare i consumatori. Ed è chiaro che i piccoli produttori artigiani di qualità di latte congelato non hanno bisogno, perché le loro produzioni sono consumate in loco e dal canale Horeca.
Molti pensano che questa deroga sia solo il primo passo per arrivare alla svolta definitiva: congelare il prodotto e non solo il latte perché le qualità organolettiche restano comunque inalterate con l’uso della tecnologia del freddo. I primi tifosi sono alcuni grandi produttori ossessionati da una possibile concorrenza della multinazionale francese Lactalis che per esportare mozzarella congelata non ha bisogno del marchio DOP avendo già il controllo di brand affermati.
Anche uno scimpanzè scongelato con le moderne tecniche capirebbe che questa visione industriale del prodotto, benché legittima, cozza contro il principio stesso del marchio europeo DOP (Denominazione di Origine Protetta): è un marchio di tutela giuridica della denominazione che viene attribuito dalla UE agli alimenti le cui peculiari caratteristiche dipendono essenzialmente o esclusivamente dal territorio in cui sono stati prodotti.
La dop a rischio per ingordigia delle multinazionali del freddo
Ora tra queste caratteristiche per cui è stato riconosciuto il marchio non c’è certamente né il congelamento del latte e neanche del prodotto, visto che questa pratica si può fare ovunque nel mondo. Dunque l’operazione, impossibile come la quadratura del cerchio, è confermare la DOP di un prodotto artigianale a un prodotto industriale che può essere replicato ovunque.
L’ambiente geografico comprende sia fattori naturali (clima, caratteristiche ambientali), sia fattori umani che comprendono tecniche agricole sviluppate nel tempo che, combinati insieme, consentono di ottenere un prodotto inimitabile al di fuori di una determinata zona produttiva.
Per fare un paragone con il mondo del vino, la differenza del costo di produzione fra un Tavernello e un Petrus non è neanche paragonabile ai loro prezzi di vendita finali al consumatore.
La strategia sarebbe quella di comunicare la bontà della mozzarella surgelata sui mercati nei quali si vuole sbarcare attraverso i piatti di alcuni chef. Una strategia che non tiene conto che con il prodotto mozzarella gli chef, prima fra tutte la stellata Rosanna Marziale, lavorano dal 2008 anche grazie alle Strade della Mozzarella.
Ma una cosa è arrivare a un prodotto surgelato, altra è partirci. L’alta ristorazione parte, infatti, sempre da una materia prima inarrivabile.
Già che ci siamo, chiederemo, per esempio, anche per le pizze di Italpizza il riconoscimento Unesco e il marchio Stg per essere moderni? Noi temiamo che dietro l’angolo ci sia la revoca della DOP da parte dell’Europa se le cose andranno avanti così.
Quanto all’uso del prodotto surgelato nella cucina, che in qualche folle piano comunicativo dovrebbe giustificare l’operazione, basta distinguere i temi.
Se posso fare un paragone di nuovo con il mondo del vino, nulla impedisce alla ricerca gastronomica di usare Brunello di Montalcino surgelato o liofilizzato, anzi. Ben venga.
Ma altra cosa è il processo di produzione che porta alla nascita del Brunello da uve sangiovese che è tutelato dal marchio europeo con la Docg. Tutto parte dalla grattata di foie gras di Adrià e, come avviene sempre in cucina, le tecniche vengono imitate e ampliate dalla creatività.
La creatività e la libertà del cuoco non c’entrano con il disciplinare europeo
Alle Strade della Mozzarella abbiamo avuto decine di esempi di come si può usare la mozzarella in cucina, da Scabin a Bottura passando per Uliassi, Alja. Almeno 140 cuochi lo hanno fatto in 12 edizioni. Si tratta di una pratica che chi è professionista ben conosce. Tutto ciò appartiene alla sfera della ricerca, della libertà del cuoco di sperimentare e al gusto del consumatore di decidere.
Ma l’alta cucina parte sempre da un prodotto di qualità di alto livello ed è questo che il marchio DOP deve tutelare, ossia un processo di produzione tipico di un territorio che ha portato al riconoscimento grazie alla produzione di documentazione storica. E questo marchio tutela i consumatori e i produttori seri. Almeno così dovrebbe essere sempre, anche se numerose inchieste giudiziarie dimostrano abusi e imbrogli oltre ogni immaginazione nel corso degli ultimi anni. Ora dunque è evidente che si tratta di due temi diversi.
Uno è la libertà di sperimentare, l’altra riguarda il fatto se la mozzarella debba diventare come un galbanino congelato per essere trasportato in Giappone.
Ogni parere è legittimo, ogni interesse pure. Veronelli diceva che il successo spesso banalizza i prodotti.
Il nostro punto di vista è molto chiaro: se si accetta la visione industriale del processo, se si abbassa l’asticella del processo di produzione, prima con il latte congelato poi addirittura con il prodotto finale, ciò porterà forse ad un vantaggio immediato ai suoi fautori, ma la storia insegna che dalla banalizzazione e dalla replicabilità dei processi di produzione il Made in Italy perde sempre, è successo con il tessile, con le piastrelle e con tanti prodotti alimentari. Sta succedendo con la moda. Perché una volta fiutato l’affare, ci sarà sempre chi nel mondo produrrà meglio e a costo più basso. Già adesso negli Usa ci sono circa 130 caseifici che producono mozzarella. Per non parlare del Brasile. In ogni caso, è folle pensare che questo possa avvenire con il marchio europeo senza neanche una specifica in etichetta.
Lavorare per il futuro del territorio e dei suoi giovani non per arricchire chi lo sfrutta per poi creare le premsse dell’abbandono dei giovani
La richiesta è tanto più assurda perché fatta per un comparto in crescita, non in crisi, che ha fatto della freschezza e della genuinità la sua immagine vincente.
Dunque il tema è il territorio, quello non può viaggiare. Valorizzare il territorio significa operare come quei caseifici che hanno valorizzato l’accoglienza, diversificato la proposta, lavorato con latte proprio e del territorio senza fare imbrogli.
Sono questi che lavorano per le giovani generazioni e che creano opportunità di lavoro per il futuro. Secondo il nostro parere, il futuro di qualità e di gusto sta nelle percentuali rappresentate dal settore Horeca e nella vendita sul posto. Vedremo come andrà a finire. Sappiamo di molti malumori in tanti piccoli caseifici e territori e cresce la voglia di affrancarsi una volta per tutti da coloro che vogliono imporre una visione industriale al comparto. Vogliono fare gli industriali? Bene, allora lo facciano con i loro marchi, non con un marchio di tutela europeo.
E Buona fortuna.
Dai un'occhiata anche a:
- Vini Azienda Speri
- Ischia l’Isola del Benessere: il turismo termale incontra il food
- Da Castelnuovo Berardenga, Fèlsina sceglie Orbacca
- Podere Pellicciano a San Miniato: l’espressione identitaria del vino toscano
- L’estremo nord est italiano raccontato tramite i suoi vini
- “Fornacelle” Foglio 38, vent’anni di Cabernet Franc
- Vini Tenuta San Francesco – Nuove annate
- Dominga Cotarella: Terranostra strumento decisivo per l’agricoltura