Il piatto di Nino Di Costanzo è una precisione mnemonica, parabola: può qualcosa da divorare richiedere l’impegno artigiano spinto sino alle soglie della composizione artistica?
E questa strada non rischia di mettere in secondo piano il sapore, la creazione papillosa?
E tale cineseria ripetuta oltre ogni limite immaginario non rischia essa stessa di passare per marinismo? Chè dello chef il fin non è la meraviglia. O si?
Dunque il primo punto è la sfida. Dalla cucina linda e profumata dove si lavora senza parlare offrendo la possibilità di mangiarci dietro senza rischi di mal di mare, al piatto composto, non semplicemente presentato pulito.
Nella filosofia di Nino di Costanzo, ma anche in quella di una trattoria, sostanza e impatto visivo devono assolutamente coincidere, il primo messaggio è quello che conta.
Il piatto da osteria promette: ora ti sfamo, ti faccio tornare bimbo, mangerai come a casa.
Nei ristoranti la presentazione deve in genere divertire solo per qualche secondo, prima della scomposizione del cibo con le posate.
Qui impone il percorso, ogni passo ha una sua forma ben precisa, pensata per giorni, settimane, prima di arrivare a tavola.
L’idea in fondo è di grande semplicità, affabulatoria: chi da bimbo non ha sognato case di zucchero e cioccolata da mangiare? E la grande industria forse non propone in continuazione oggetti da mangiare?
Mangiare è l’atto supremo dell’io: il nemico come la persona amata sono fisicità da annullare dentro noi stessi. E’ atto di possesso finale verso quel che si muove o che sta fermo. Anche il sesso è mimica cibica.
Nino costruisce quadri nel piatto, ogni cibo ha la sua materia di accompagnamento, ma anche la sua forma.
Sembrano costruiti per durare sempre, in realtà vivono molto meno di una farfalla.
Ma in effetti, tale è la metafora della vita: quello che vediamo è così come ci appare in quel momento che noi poi rimandiamo nella memoria come sempiterno e durevole.
Ora chiedo: possibile che questa espressione maniacale non abbia eguale corrispondente dentro la bocca?
No. Non è possibile affatto, e non lo è. L’esagerazione geometrico-visiva risponde esattamente alla padronanza degli aromi e del sapore e per questo siamo di fronte ad una svolta nella piccola grande storia della cucina partenopea.
Prima l’abbondanza della fame, poi il divertimento della ri-presentazione. Adesso la rielaborazione delle forme e dei sapori attraverso l’uso della materia prima di territorio vissuta però quasi in modo metepsicotico, di riposizionamento nello scacchiere, non del risotto, ma della cucina internazionale.
Non c’è più manierismo partenopeo o presepiale. Qualcosa di nuovo, mai visto.
Il risultato globale è all’altezza di quello visivo?
Domanda ottocentesca, atteso che nessuno ha mai fissato una gerarchia dei sensi. Ma se c’è equilibrio, più che corrispondenza, allora il gioco è centrato.
Chi va al Mosaico si misura con questo tema nuovo, di cui lampo trovammo anche all’Angiolieri con Michele De Leo.
Tra il pacchero steso e sugoso e quello all’impiedi che strizza l’occhio, c’è la terza strada, oltre il già visto, l’azzeramento del pacchero e la sua sopravvivenza non come pasta bensì come un elemento di una sequenza in cui non esistono più le portate militarizzate, ma lo slide show della memoria e del futuro.
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