Morti di fame: Posti in piedi in Paradiso di Carlo Verdone

Pubblicato in: Cinema e cibo

di Roberto Curti

C’è una cosa che balza subito agli occhi, una caratteristica che differenzia il nuovo film di Carlo Verdone dalle altre commedie italiane contemporanee, se non addirittura dalla stragrande maggioranza del cinema italiano d’oggi.

È la fame. Perché i tre protagonisti di Posti in piedi in paradiso questo sono: morti di fame. Ulisse (Verdone) tira avanti con un negozietto di vinili da collezione dove non entra mai nessuno e aggrappandosi alle aste tra collezionisti su eBay per racimolare un poco d’euro-ossigeno, Fulvio (Pierfrancesco Favino) è un critico cinematografico in disgrazia ridotto a scrivere pezzulli di gossip, Domenico (Marco Giallini) per arrotondare s’è addirittura reinventato – ultracinquantenne tinto, lampadato, azzimato ma con i calzini bucati – gigolo per signore sopra gli anta, con un generoso aiutino di Viagra. E a differenza dei borghesi più o meno agiati, più o meno alla moda, più o meno idioti che affollano gli schermi, Ulisse Fulvio e Domenico si confrontano con l’assillo più antico del cinema italiano – lo stesso che muoveva, per dire, i protagonisti di Il minestrone di Sergio Citti, per non parlare della ghenga di improvvisati ladri di I soliti ignoti. E proprio al capolavoro di Monicelli viene da pensare quando Domenico coinvolge gli altri due in un improbabile furto di gioielli: se anziché nella camera da letto di pensionati ultraottantenni Fulvio e Ulisse finissero in cucina ad abboffarsi di pasta e fagioli, nessuno si stupirebbe.

Ciò che stupisce, piuttosto, è che non si tratta di proletari o sottoproletari, abituati a fare i conti con i morsi della fame da un’intera esistenza. No, Ulisse e compari sono nuovi poveri, precipitati dall’agiatezza piccolo o medio borghese (che permea i flashback iniziali, in cui ne vediamo brevemente riassunte le vicende) a uno stato di necessità del tutto inaspettato.

Che li costringe a dividere un appartamento fatiscente a duecentocinquanta euro al mese a testa, e a fare i salti mortali per tirare avanti tra bollette, alimenti da pagare e un frigorifero tristemente vuoto, senza neppure una bottiglia d’acqua minerale da offrire agli ospiti. E se in Borotalco il giovanotto senz’arte né parte che sperava di «ingranare» col lavoro aveva pur sempre alle spalle il suocero bottegaio («Senti ‘sto prosciuto, è zucchero… senti ‘ste olive, so’ greche… come so’?» «Greche…») che gli metteva a disposizione il negozio, qui Ulisse è un eterno bamboccione che, arrivato a sessant’anni, è ancora attaccato ai suoi miti adolescenziali (la cintura di Jim Morrison conservata come cimelio, lui che la cinghia la deve stringere per arrivare a fine mese), che nel negozio è costretto a viverci. Si ride amaramente alla gag di Verdone costretto a farsi la doccia nel lavandino nel retrobottega, e che si lancia in uno spericolato spogliarello quando apprende che l’appartamento che sta visitando ha l’acqua calda. Ma più avanti, quando lo stesso Ulisse riflette assieme agli amici che in tre, al venti del mese, sono rimasti senza neppure un euro per fare benzina, la risata si spegne in gola. Non si parla di spread, di default, di recessione: ma viene automatico farsi i conti in tasca.

Ed è la fame il leitmotiv di alcune delle sequenze più divertenti e caustiche del film. Anche solo accennate, a malapena sviluppate, con la ruvidezza di stile e scrittura che è un tratto caratteristico dell’ultimo Verdone: Fulvio si rimpinza di tramezzini a un buffet per la stampa e se ne riempie la borsa a mo’ di provvista, e al ristorantino chic dove ha portato l’amichetta –rimorchiata promettendo un provino con Muccino, tra parentesi: omaggio o stoccatina? – scopre di non avere abbastanza soldi per pagare il conto. E quando Ulisse viene invitato dalla bella cardiologa Micaela Ramazzotti a una cenetta in piedi a casa di lei non pensa, come sarebbe logico (anzi doveroso, specie in un film italiano), alle possibili implicazioni romantico-sessuali, ma riesce a fare invitare anche i coinquilini e alla fine esulta perché quella sera, finalmente, si mangia. E la sequenza che segue, con Favino chino sul piatto a sgranocchiare carote crude, Giallini che si ingozza di patatine e l’assalto selvaggio alla teglia di lasagne, in porzioni doppie e triple famelicamente rovesciate sui piattini di plastica per poi ritirarsi ciascuno nel proprio angolino a divorarle, occhi bassi, come una muta di cani, non sarebbe stata fuori posto in un Monicelli o Risi d’annata.

È per momenti così che l’ultimo film di Verdone ci piace, a dispetto della messinscena tirata via, di una scrittura altalenante, e di una storia incapace di trovare il giusto sbocco, che dopo aver graffiato con una vena degna dei migliori lavori del regista-attore romano, alla fine ripara nel più conciliante lieto fine, tra botte di fortuna al Gratta e Vinci, padri e figli che tornano a parlarsi, ragazzine che scelgono di tenere il bambino che aspettano nella speranza di un futuro migliore e cene riconciliatrici all’ombra della Tour Eiffel. Un finale che assomiglia molto al nostro modo di rapportarci alla crisi: pronti a lasciarci tutto alle spalle, buoni propositi compresi, al primo sentore di ripresa, e a rimetterci a tavola con più appetito di prima per lo scampato pericolo. E in questo, come direbbe Stanis La Rochelle, Posti in piedi in paradiso è molto italiano. Pure troppo.

 


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