La morte di Bonilli è stata sconvolgente come tutte le morti improvvise che travolgono chi resta. Come uno schiaffo dato a freddo. Ma quando scompare una persona come Stefano Bonilli l’effetto travalica l’aspetto personale. Sul Mattino abbiamo pubblicato oggi una intera pagina cercando di ragionare sul suo ruolo e sulle cose che è riuscito a costruire nel tempo.
Ha cenato con la moglie Marinella dopo aver rinviato un appuntamento perché si sentiva stanco. Si è alzato e se ne andato per sempre, a 69 anni, senza quelle formalità che non ha mai amato.
E’ morto così, nella prima domenica di agosto, Stefano Bonilli, uno dei padri fondatori, assieme a Enzo Vizzari e Carlo Petrini, della critica gastronomica moderna in Italia.
Forse la cosa più difficile che ha fatto è anche la meno importante, sdoganare il piacere del cibo nel comune sentire della sinistra sino a quel momento austera e monacale, punitiva e severa verso chi si lasciava andare ai “piaceri borghesi”. Lui, giornalista economico del Manifesto, bolognese trapiantato a Roma, dopo qualche collaborazione in Rai propose al giornale di fare un inserto sulla gastronomia.
Fu un successo immediato e inaspettato. L’Italia usciva dagli anni ’70, dalla guerra civile strisciante, c’era voglia di godersi la vita e la corsa verso l’esibizione di ricchezza e l’ostentazione dell’ignoranza fu l’ultimo colpo alla agonizzante cultura rurale che sopravvisse solo nei ricordi dei meridionali quando tornavano al paese e ripartivano con ogni ben di Dio nelle valige preparate dalle loro mamme.
Bonilli con il Gambero Rosso, e Petrini con Slow Food, colsero la verità di questo mondo in agonia e la loro radice culturale comunista riuscì a dare loro una chiave di lettura omogenea, complessiva come si diceva a quei tempi, sul valore del buon mangiare e del buon bere non solo come piacere del palato ma soprattutto per l’impulso economico e la dignità che restituisce alla campagna. Un fenomeno di ritorno che adesso è sotto gli occhi di tutti ma che negli anni ’80 bisognava essere visionari per coglierlo.
Bonilli, ateo e laico, è stato il Papa della gastronomia italiana. Riuscì così a creare un vero e proprio impero editoriale sul food in un momento in cui l’Italia perdeva la testa sulla net economy: prima la rivista che divenne autonoma, poi le guide dei ristoranti e del vino, e poi ancora il canale tematico del Gambero Rosso.
“Però pensa quanto ancora vale la voce Made in Italy – osservò Bonilli dell’ultima intervista rilasciata a luglio su un sito web – Nonostante tutto non siamo riusciti a cancellare l’importanza di questo marchio. È una “semina” di secoli di tradizioni, di artigianato alimentare, di motivazioni geografiche, culturali, politiche, religiose che hanno fatto sì che tra la vette delle Alpi e Pantelleria ci siano centinaia di qualità di salumi, 420 tipi di diversi formaggi se non 450.
I francesi, che ne hanno molti meno, sono bravissimi ad attirare l’attenzione e fare sistema, noi invece iniziamo adesso a renderci conto di come dobbiamo procedere. Prima abbiamo sprecato. Però “questa roba” incide sul PIL in modo pesantissimo, come la moda, e adesso cominciano ad accorgersene. Ovvio ci vuole anche l’industria, non è che possiamo diventare il “paese dei balocchi”, ma questa parte qui è stata una follia non usarla per conquistare i mercati internazionali”.
Bonilli è stato il protagonista assoluto della grande cavalcata degli anni ’90 dell’enogastronomia italiana: un vero e proprio boom che ha visto ristoratori e produttori affermarsi sino a diventare vere e proprie star, creando una gerarchia di valori che ancora oggi nessuno riesce a ribaltare.
E mentre stava all’apice del potere, quando poteva godersi in santa pace una rendita di posizione che nessuno gli avrebbe mai potuto contestare, l’enorme capacità di rimettersi in gioco nel 2.0 fondando il primo blog gastronomico, Papero Giallo, esattamente dieci anni fa. Bonilli è stato un grande curioso, sempre affascinato dalle nuove tendenze: un innovatore creativo. Il salto in rete a 59 anni quando ancora non era chic per un intellettuale non scrivere sulla carta e i politici non avevano ancora scoperto twitter e facebook per fare i fighi coprendo così il vuoto di proposte e di idee della casta.
Nel 2008 la traumatica rottura con il Gambero dopo la fondazione della Città del Gusto fu il risultato di un’epoca definitivamente chiusa, nella quale l’algoritmo è diventato più importante del contenuto. A questo gioco lui non c’è stato, non perché fosse un passatista, ma perché era convinto che i mezzi restano mezzi, il messaggio e la ricerca esigono invece rigore, passione, applicazione.
In rete si è dunque resettato, mettendosi alla pari con i pre-grillini del cibo impegnati contro la casta gastronomica, i presunti imbrogli delle guide, i rapporti inconfessabili tra critici e oggetti e soggetti della critica, delle denunce a chi va al ristorante per sbafare, l’attacco alla viticoltura convenzionale.
A ben vedere, c’è un parallelismo impressionante tra la demolizione di questo mondo formatosi negli ultimi vent’anni e la caduta di prestigio delle istituzioni nel nostro Paese. Bonilli ha cercato di porre argine con un impegno quotidiano sul suo blog Papero Giallo e sul sito Gazzetta Gastronomica da lui fondato un paio di anni fa. Pensava ad un’ampia riunione che ridefinisse la critica e aveva convocato tutti nella sua Bologna il 20 e il 21 settembre. Come è stato tipico della generazione del ’68, non aveva rinunciato ad una visione del mondo e all’ambizione di incidere nel governo complessivo delle cose.
Una utopia? Forse. Però nella sua vita ha dimostrato di essere un visionario: la prima rivista sul cibo, le prime guide, la prima tv, il primo blog. Sempre avanti a tutti nell’uso dei mezzi tecnici come possibilità per esplorare il nuovo e coinvolgere il meglio, quei giovani a cui lui ha sempre tenuto scoprendo veri e propri talenti come Marco Bolasco, suo successore alla Guida Ristoranti del Gambero e adesso direttore editoriale di Slow Food.
Questa curiosità lo ha portato a viaggiare tanto, con Rosario Scarpato ha voluto conoscere le nuove cucine asiatiche e australiane, con Maurizio Cortese, gastronomo napoletano, ha battuto in lungo e in largo il Sud e si deve alla sua lungimiranza lo sdoganamento della pizza e della pasta nell’alta gastronomia.
Era curioso e non amava i ruoli. Uomo di potere, oltre che di polemiche e divisioni, non aveva il culto della distanza come simbologia dell’autorità, si mischiava, fisicamente oltre che virtualmente, al suo pubblico dei gourmet che lo adorava e lo odiava.
Girava, assaggiava tranci di pizza, commentava. Primo tra gli ultimi, ultimo tra i primi.
Lo ricorderemo così, allo splendido tramonto del Bikini di Vico Equense alla prima manifestazione gourmet della pizza napoletana.
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