Morellino di Scansano, Capatosta / Poggio Argentiera

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

di Fabrizio Scarpato

Millesimi 2005 e 2009: una storia

Lo so che non si fa. Certi bravi ragazzi, vagamente romantici, sanno bene che una degustazione che prevede un confronto in verticale o in orizzontale, necessiterebbe di tutta una serie di parametri e standardizzazioni, comportamentali, ambientali, caratteriali… Noi no, noi. No. Ho assaggiato questi due vini a distanza di tempo, un paio di mesi, ovviamente in condizioni psicofisiche diverse, si sa che l’età riserva sempre tagliandi a sorpresa: forse posso affermare, con una qualche precisione, che ho usato lo stesso bicchiere. Insomma una degustazione sfasata. Temo che l’orizzontale sfasata sia la degustazione più complicata, forse più improbabile, per non dire rigettabile, che lo scriba sommelier possa ardire raccontare. Ma poi, degustare due vini di diverso millesimo, che portano lo stesso nome, ma di fatto differenti per filosofia e caratteristiche, è orizzontalismo o verticalismo? Esiste la degustazione di sghimbescio?

Capatosta 2005 in magnum, contro Capatosta 2009 nella classica bordolese trequartidilitro: la combinazione astrale che ha consentito di averli per casa, ha da subito sfrucugliato la tentazione del confronto, non fosse altro per fini didattici. In realtà mi affascinava il pensiero barbarico e la possibilità di assaggiare il cambiamento, di vedere e toccare quello scarto laterale della sensibilità, del gusto, della sfida che poi è alla base dei sogni o delle conquiste. Barbari sono gli sconosciuti, i sovvertitori, coloro che con un netto cambio di traiettoria mutano le prospettive. Furono barbarici i vini grossi degli anni novanta, inventati per il palato dolcificato degli americani e dei figli del benessere: eppure aprirono una breccia profonda e larga nell’anima del vino; sono barbarici, oggi, quei vini schietti e ruvidi, che hanno riportato il senso della bevibilità e dell’identità di un luogo. Ecco, il Capatosta 2005 era figlio della barrique, il 2009 è capostipite di una generazione che si affina in botti da duemila litri: qualcosa vorrà pur dire, anche se i barbari notoriamente sfuggono alle solite comode categorie, e alla fine aggirano ogni muro che cerchi di limitarne le scorribande. Sono nomadi cavallerizzi, in fondo.

Forse si deve partire proprio dalla Maremma, a proposito di cavalli al galoppo: terra di vento, di macchia e di bosco, che indugia sino al mare, terra irsuta di cinghiali, solo all’apparenza scontrosa: non ho mai conosciuto un maremmano che non fosse “buon citto” dalla lacrima facile. Il Capatosta è vino di codesti luoghi, forse uno più collinare, quando l’altro è fresco e sapido di mare. Li differenzia il rosso del mantello, ed è la cosa più evidente, perché il sangue arterioso, spesso e cupo si traforma in legno rosso di ciliegio, unghiato ancora di rosa sul filo della parete, tanto limpido e cristallino da leggerci attraverso, le parole scritte e l’intenzione. Sì perché i due al naso s’assomigliano, mescolano l’intensità alcolica con la frutta rossa, la mettono da parte sotto spirito per le giornate fredde e affastellano radici, legni e stecche di liquirizia accanto a fazzoletti di muschio, sulla terra bagnata, tra sfilacci di tabacco e giacche di velluto. Solo le note dolci ora sfumano nella pienezza avvolgente, ora ricordano passaggi lievi di fiori delicati.

Certo gli è che, fedeli alla loro terra, i due non sono per nulla ruffiani: attaccano la bocca con un ingresso secco e potente, i tannini presenti e stranamente più aggressivi dove meno te lo aspetti, la marasca che fa il suo lavoro e un retrogusto dal taglio amaro che potrebbe essere cuoio o rabarbaro. E’ il finale che segna i diversi destini, le differenti aspettative: da un lato la freschezza non sostiene fino in fondo quel frutto morbido e polposo, e il sorso si slega, un po’ si siede, non senza una sensazione di intima soddisfazione, come di chi s’attarda davanti al tramonto dopo una giornata di lavoro sui campi. Dall’altro il sorso è dritto e teso, scalpitante di sapidità, rimbalzante nelle note balsamiche mentolate, fermo nel respingere ogni tentativo di dolcezza, se non accettando il calore dell’alcol, somigliando anche a qualcosa di liquoroso e secco nei dintorni dello sherry, e regalando le sfumature dolcemente acide di un cioccolato fondente al novanta per cento.

La degustazione sghemba non incasella sensazioni e descrittori, non prevede classifiche e classificazioni, e nemmeno una lavagna con buoni e cattivi: passa attraverso i vini in diagonale, a zig zag tra i ricordi e le suggestioni. I due Capatosta si srotolano senza cesure, come una sola storia, testimoni di passaggi di tempo: restano i tracciati cardiografici potenti ed elettrici, lenti o veloci, riflessivi e rigeneranti, pieni, scontrosi, bradicardici e tachicardici, di un autentico cuore maremmano. E del suo bàttito.

 

Dedicato a Simone Morosi


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