di Alfonso Sarno
Bene, come chiamarla? Milza imbottita o farcita, da perfetti manzoniani che hanno “sciacquato i panni in Arno” o “’a mèvesa ‘mbuttunata” da nostalgici borbonici che, sotto sotto, rimpiangono Ferdinando I, il re lazzarone che frequentava scugnizzi e taverne ed invece del francese (lingua abituale dei Savoia) parlava un inappuntabile napoletano?
Per i salernitani, nel giorno di San Matteo Apostolo, nessun dubbio: “…la seconda che hai detto” (Corrado Guzzanti-Quelo coopyright). Per loro non esiste altro termine per indicare una pietanza che li accomuna annullando ogni barriera sociale, culturale ed economica. Così, durante i festeggiamenti patronali nelle strade, non soltanto del centro antico, aleggiano gli intensi aromi dell’aceto e del vino, necessari protagonisti della ricetta perché, assorbiti dai tessuti spugnosi della ‘mevèsa la rendono più succosa.
Per Achille Talarico, medico-storico della tradizione culinaria locale un piatto targato Salerno: i vicini napoletani non consumavano la milza “di bue, di vitella o di manzo ma la lasciavano ai cani ed ai gatti”. Affermazione non del tutto esatta visto che la ritroviamo anche in altre zone come, per esempio, Cava de’ Tirreni, tipicità della secolare festa del Santissimo Sacramento a Montecastello dove, ogni anno tra maggio e giugno i cavesi ricordano lo scampato pericolo dalla pestilenza, grazie all’aiuto divino e, soprattutto, in Sicilia. Altra regione che, come la Campania, è riuscita a trasformare, nobilitandolo, il cibo da strada in golosa arte.
Già, il pani c’a miévusa composto dalla vastella, morbido panino spolverato di sesamo e ripieno di pezzetti di milza, polmone od anche trachea cotti in profondi pentoloni è un classico del ristoro “mordi e fuggi” venduto dai meusari, ambulanti che resistono indomiti dividendosi gli spazi di antichi, popolari quartieri di Palermo quali la Vuccirria o Ballarò con locali di tradizione come l’Antica Focacceria San Francesco, datata 1834, o quella di Porta Carbone, veri cult per gli appassionati non solo della milza che può essere servita “schetta”, cioè “scapola” con il semplice limone spremuto sopra o “maritata, conzata con ricotta e cacio ma anche delle arancine al ragù di carne, panelle, sfincioni, cicireddi – minutaglia di pesce fritta – e polpi appena pescati e cotti per pochi minuti in bollente acqua salata e conditi con limone e prezzemolo.
Un cibo poverissimo, insomma, fatto con il “quinto quarto” del bovino, quelle interiora disprezzate dai ricchi ma utili per placare i morsi della fame a chi aveva poco o niente, ottenute a prezzi scontatissimi dai macellai o da questi regalate nel caso fossero stati tanto fortunati d’aver allevato allevare una bestia da far macellare. Scarti da unire a pochi altri ingredienti, sempre presenti anche nella più misera dispensa come aceto, olio ed odori e creare un piatto di tutto rispetto. La mèvesa ‘mbuttunata” piace, eccome, assicura Matteo Accurso, verace salernitano già dal nome, presidente della Federcarni provinciale e titolare dell’omonima antica macelleria: “Durante le festività patronali vendiamo, in media, circa quattro quintali della milza che prepariamo secondo la nostra ricetta con la milza intera del vitello, prezzemolo, aglio, aceto rosso, vino Aglianico, mosto cotto, peperoncino piccante, olio extravergine d’oliva.
Il tutto cotto per circa una ora e mezza a fuoco piuttosto lento ed innaffiato, di tanto in tanto, con vino ed aceto”. “Piace tanto”, continua, “da fare quasi annullare la richiesta di milza fresca”.
Da mangiare fredda, tagliata a fette nel suo sugo oppure spalmata su dei crostini.
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