Obikà: rivisitazione di una diffusa espressione napoletana che significa “ecco qua” e che si pronuncia spesso raddoppiando o triplicando la ‘b’. Niente a che spartire col giapponese, cosa di cui sembra esser convinta, invece, la giornalista Camilla Baresani (è nata a Brescia). Proprio lei, sulle pagine de Il Sole 24 Ore di qualche giorno fa, ha bocciato il “progetto di ristorazione” con al centro la mozzarella di bufala campana DOP e “prodotti artigianali tipici della tradizione italiana, caratterizzati da un’altissima qualità”.
I franchising Obikà sono diversi, in Italia e nel mondo (Londra, New York City, Tokio e persino Kuwait City). A Milano ce ne sono due: uno si trova in via Mercato, l’altro è nella food hall al settimo piano de La Rinascente di piazza Duomo (in realtà, ma questo l’ho scoperto solo un paio di settimane, ce n’è un terzo a Malpensa.
A differenza degli altri due, però, il mozzarella bar de La Rinascente regala (nel senso che non c’è sovrapprezzo) la possibilità di consumare all’aperto, sulla terrazza vista-Duomo, appena qualche metro più in giù della madunina. Ed è (soltanto) questo il motivo per cui ci sono ritornato due sere fa. Ci si accede proprio dai magazzini ma il mio consiglio è di evitare il percorso interno se, come nel mio caso, siete in dolce compagnia (il rischio è quello di perdere ore tra il piano “abbigliamento donna” e “casa”). Meglio utilizzare l’ascensore che sale diretto al 7° piano: lo si prende sul lato destro dell’edificio, in via Santa Radegonda, e in venti secondi (sì, in effetti è un po’ lento) siete su.
Partiamo dalle cose positive.
Location. Nulla da dire, cenare con gli occhi puntati alle guglie del Duomo ha il suo fascino. Riesci anche a sopportare le zanzare (ma quelli di Obikà non hanno colpe su questo) e, in periodo di mondiali sudafricani, le odiose vuvuzelas che fanno da sottofondo (siamo proprio sicuri?!?) alle partite in tv. D’inverno, invece, ci si accomoda all’interno, nei tavolini assiepati ai due lati del bancone mozzarellaro.
Menù. Non si avvistano mozzarelle dalle preoccupanti colorazioni, blu e similari (di questi tempi non è affatto scontato). Ben curate le presentazioni dei piatti, dopotutto anche l’occhio vuole la sua parte.
Passiamo alle cose negative.
Menù. È incentrato sulla mozzarella di bufala campana DOP. Il menù degustazione con tutte e tre le versioni (paestum, pontina e affumicata) costa 22 euri; quello con in più la stracciatella di burrata e la ricotta di bufala sale a 33. Per mangiarne una soltanto occorre sborsare tra i 10 e i 20 euro (in questo caso il contorno è compreso). Poi ancora, i rotoli e i kilo. La mia scelta: una paestum con prosciutto di Norcia IGP “arricchita” da tre olive nere, costo 12.50 euro. Una pontina con pomodorini (abbondanti) e pesto genovese è stata, invece, la preferenza di Alessia, costo 10 euro. Nel mio piatto ce n’erano due, solo una in quello di Alessia: le dimensioni erano più o meno quelle di un bocconcino. Entrambe le versioni erano bianche, per carità, ma di lacrime manco a parlarne; tendenza dolce, quella sì, presente; grassezza e succulenza non pervenute.
Carta dei vini. Le etichette sono una cinquantina in tutto: bei nomi, per carità. Manca, a mio avviso, un po’ di coraggio e di coerenza con la proposta gastronomica (anche se – è bene dirlo – il menù cambia con le stagioni e, quindi, alcuni vini oggi fuori contesto potrebbero non esserlo con il menù invernale), e comunque, in generale, poco adatti al tipo di cucina. Il concept stesso del locale richiederebbe (forse) qualche campano in più, tipo il fiano e (di sicuro) una maggiore rotazione per i vini al calice, magari affidandosi alla cara vecchia lavagna per le proposte alla mescita, così da poterle meglio calibrare in base alla stagionalità del menù. I ricarichi – e questa è la nota dolente – sono importanti. Prendiamo i campani: una bottiglia di falanghina costa 23 euro cioè quasi 5 volte il prezzo di acquisto per un ristoratore, un calice della stessa falanghina più o meno quanto una bottiglia (secondo lo stesso ragionamento di prima). Il greco di tufo e il fiano di avellino costano rispettivamente 25 e 26 euro ma non è specificato se si tratti delle versioni “base” o – leggendo sul sito – dei crus “Cutizzi” e “Pietracalda” (in quest’ultimo caso ci potrebbe pure stare). A proposito di sito: i prezzi dei vini non corrispondono. Premesso che non c’è e-commerce, la stessa falanghina costa “dal vivo” 23 euro, 17 sul sito.
Servizio. In terrazzo ci sono una trentina di tavoli per tre camerieri (due sono del gentilsesso): si salvano solo il cameriere (che è gentile e pure veloce) e le divise, molto carine. Per il resto è poco carino non poter scegliere il posto dove sedere, non credete!?
Conto. Relativamente caro. I costi dei piatti che abbiamo scelto già li sapete. Aggiungete 3 euro per un’acqua naturale da mezzo litro, 8 euro per il calice di ribolla gialla e 6 euro per il mio rosato d’aglianico, 8 euro per una fetta di torta caprese in due, 2 euro e mezzo per l’espresso con tanto di bocconcino dai-dai e 4 euro per il servizio, compreso il cestino con panini di grano duro, tre cubetti di focaccia fritta – secca – e quattro grissini al sesamo). Totale 54 euro.
Rapporto felicità/esborso. Assolutamente non soddisfacente. Fortunatamente (o sfortunatamente) non tutti la pensano così: vedi coppia milanese di fianco a noi che alla rituale domanda tutto bene? rispondeva in coro e all’unisono tutto ottimo. Ora che ci penso, però, a noi – forse traditi dall’accento?!? – questa domanda non l’hanno fatta…
Forse perchè immaginavano una possibile risposta: a Milano, per una mozzarella di bufala campana dop di quelle buone ho speso la metà (24 euro), non più di un mese fa. Non solo. Punto primo: era grande quanto le tre che abbiamo mangiato ad Obikà ed era servita con pomodorini e prosciutto San Daniele DOP. Punto secondo: abbiamo bevuto una mezza d’acqua naturale e un calice a testa di Fiano di Avellino 2008 di Pietracupa e la bottiglia l’ha aperta davanti a noi. Il fatto curioso è che il posticino dove l’ho mangiata (L’Antico Casale, piazza del Tricolore 4, tel. 02/45497230 – consegna anche a domicilio) è una salumeria con qualche tavolino, un ambiente semplice e accogliente, sicuramente meno cool di Obikà. Ma lì, almeno, il palato ha goduto!
Quando ho visto domenica la recensione di Camilla Barisani sul Sole 24Ore mi sono incuriosito e ho chiesto a Alessandro che ne pensava. Già ci era stato, ma prima di scrivere ha voluto tornarci.
Visto da Sud, l’idea è semplice e strepitosa e mi chiedo: ma perché Napoli non è tappezzata di mozzarella bar? Per esempio uno nella nuova stazione che finalmente sta prendendo forma?
Semplice, perchè è una città molto lenta a recepire idee nuove, anche quelle che nascono dal proprio grembo, o comunque molto più lenta di Milano dove tutto gira in modo più lineare e rapido.
Mi ricordo lo stesso limoncello si affermò prima al Nord e poi di rimbalzo a Napoli.
In effetti qualcosa di simile al Sud lo ha iniziato Tonino Palmieri anti anni fa, seguito da altri. Ma qui è diverso, siamo in zona di produzione all’ombra dei templi di Paestum, il consumo è lento e felpato. Quello che manca è l’organizzazione del consumo compulsivo e frenetico in città.
Ecco come e perché il cibo è la più comprensbile parabola del reale nel bene come nel male (l.p)
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