di Teresa Mincione
Con Napoli come sfondo, lo scorso 21 maggio, nell’ambito della manifestazione Vitignoitalia, nella suggestiva cornice di Castel dell’Ovo, la grande storia del vino in Campania è stata narrata attraverso i colori di sei grandi vini. Un racconto, un viaggio, un’esperienza unica, che ha permesso di vivere, virtualmente, piedi in vigna e calici alla mano, i sogni di sei produttori, il lavoro instancabile di sei vigneron, la straordinarietà di areali diversi, la passione per i vitigni autoctoni. E non solo. L’amore per una terra ricca quanto complicata, ha unito, come un fil rouge, le grandi storie, che hanno, ciascuna a suo tempo e nel proprio disciplinare, contribuito a tracciare per sempre un capitolo della storia vitivinicola campana.
Una regione meravigliosa, la Campania. Tratteggiata dalla letteratura e dalla storia per la poliedricità dei suoi autoctoni, per la tipicità dei propri vini, per la unicità del terroir. Con uno sguardo fugace al passato, la Campania ha sempre rappresentato uno dei primi e più rilevanti centri di insediamento, di coltivazione, di studio e di diffusione della coltura della vite. Non è un caso, né va considerato tale, che quelli che sono passati alla storia come i grandi vini dell’antichità come il Falerno, il Greco, il Faustiano, il Caleno fossero prodotti proprio in Campania. Lo testimoniano i molteplici reperti ritrovati nel tempo, nei siti archeologici regionali. Pompei e Ercolano rappresentano, per alcuni studiosi, la più completa fonte di testimonianze, non solo su usi e costumi dell’epoca, ma soprattutto sulla coltivazione della vite. I riferimenti enoci, infatti, sicuramente fra i più ricorrenti, consentono un salto nel passato, a quando la vite e il vino erano i protagonisti delle case patrizie o degli scambi con spezie preziose. I vitigni campani venivano studiati, descritti classificati e selezionati, proprio come si fa oggi con le grandi materie prime. Incantevoli, infatti, sono le descrizioni di Plinio, Virgilio e Columella. Ebbene, la posizione della regione campania e la rinomata fertilità delle sue terre crearono il mito della Campania Felix. In questo contesto la coltura della vite ebbe la forza di ritagliarsi un posto importante nell’economia territoriale, non certo per la quantità della produzione ma, certamente, per l’estrema tipicità di ciascun vino proveniente dalle diverse zone della regione. La storia è affascinante, si sa, ma il mondo del vino in età moderna lo è ancor di più. Il nostro viaggio inizia tra le pieghe della storia dell’azienda più giovane.
Si è scelto di camminare a ritroso, dall’azienda che potremmo definire “2.0” a quella che ha, per prima, offerto al mondo, le luci della straordinarietà di un territorio unico e irripetibile. Ma andiamo per ordine e, soprattutto, buon viaggio..
Nanni Copè
Tra le colline del casertano, nelle Terre del Volturno, a Vitulazio, sul versante che guarda il monte Taburno, si produce uno dei grandi vini del Sud: Sabbie di Sopra il Bosco di Nanni Copè. Un vino in grado di raccontare “una vita, tante vite”, come si legge sul fronte dell’etichetta. Una vita, quella di Giovanni Ascione, o Nanni Copè che dir si voglia, trascorsa tra studio, lavoro, degustazioni, viaggi, consulenze. Dopo aver studiato alla Luiss, ha proseguito il suo percorso lavorando in multinazionali dell’auto, per poi passare alle grandi aziende di pubblicità, finanche alla tv. Una carriera scintillante che nel tempo, come un puzzle, si è arricchita di tasselli, tutti diversi tra loro. La firma di Giovanni nel mondo del wine è stata sempre apprezzata e richiesta, soprattutto dalle grandi riviste di vino. Eppure, per scherzo o sul serio, a quanti chiedevano cosa fosse lo scrivere per lui la risposta era sempre “solo un hobby”. Ma si sa, un istrionico non ama stare fermo. L’ apertura di un ristorante gli fece capire che stava per arrivare aria di novità, ma a non lasciarlo mai erano la passione per il vino, la Francia, l’amore per la terra. Fu così che s’insinuò il pensiero di cambiare ancora, ma questa volta con i piedi in vigna. Non da ricercatore o da narratore, bensì da vigneron. Nel 2007 individuato sulle colline caiatine il luogo ideale dove produrre un vino che fosse elegante ma al tempo stesso di personalità, che sapesse dar voce al territorio, e che al tempo stesso riuscisse a raccontare i vitigni autoctoni, acquistò 2,5 ha di vigneto. I ceppi tra i filari, erano (e sono) per di più a piede franco. Trasformò quel che restava di un vigneto abbandonato in un vero e proprio giardino dell’eden, non solo censendo ad uno ad uno tutti i ceppi, ma organizzando il vigneto in settori. Nasceva Sabbie di Sopra il Bosco. Una vigna sdraiata su un poggio a Castel Campagnano, nell’alto casertano a circa 215 mt sl.m..con esposizione a nord ovest. Tra i filari pallagrello nero, casavecchia e aglianico. Il pallagrello nero, tardivo, dalla buccia spessa, austero e dai tannini finissimi, l’aglianico, chiamato in blend, per dare struttura e acidità. Le (poche) piante ultracentenarie a piede franco di casavecchia offrivano la differenza. Una zona incontaminata: vigneti intervallati da macchie di bosco, da suoli di sabbie arenacee estremamente drenati, pendenze importanti e escursioni d’aria costanti. Una zona segnata dai venti del Volturno e del Matese. Le radici delle viti affondano nell’arenaria di Caiazzo che ha dato origine ad un sottile tessitura sabbiosa, da qui nasce il nomeSabbie di sopra il bosco. La prima annata fu prodotta nel 2008.
La vendemmia di Sabbie di sopra il bosco è scaglionata poiché la maturazione delle uve avviene in decadi diverse. La vinificazione è in acciaio poi matura in tonneau nuove e usate per circa un anno.
Sabbie di sopra il Bosco – Terre del Volturno IGT – 2015 ( pallagrello nero, aglianico e casavecchia)
Un calice dal color rubino, dal ventaglio olfattivo elegante, minerale, poliedrico, ma soprattutto dal timbro tutto campano. Spezie scure, radice, ginepro, bacche di pepe nero, tabacco, carruba. Al palato è sontuoso e balsamico, dalla bellissima spalla acida. Un sorso preciso, intarsiato in ogni componente. Intenso, longevo, rigoroso, complesso e elegante.
Certamente un vino-rivelazione, una delle novità italiane di maggiore successo che ha contribuito alla rivalutazione e rivoluzione dei rossi del sud. Un vino dalla spiccata personalità mediterranea, dai profumi al carattere, di grande forza, intensità, struttura, ma allo stesso tempo capace di offrire un sorso lungo, combinato a grazia e finezza. Un vino dalla vocazione bordolese, ma dall’essenza tutta campana. La capacità di Giovanni? Creare un vino in grado di raccontare il territorio, valorizzare gli autoctoni, accarezzare il palato e diventare, nel breve tempo, una vera icona di stile non solo campana.
Terre del principe
Tra le dolci colline di Castel Campagnano, in provincia di Caserta, in un territorio anello di congiunzione tra i due massicci del Taburno e del Matese, tra le verdi montagne in cui scorre il Volturno, nasce Terre del Principe. Nel germe del pensiero, la sfida oppure l’amore, scriveva Nietzsche. Nel caso di Manuela Piancastelli e di Peppe Mancini, con quei territori è stato amore a prima vista. Il desiderio di contribuire a dare lustro a tre antichi vitigni autoctoni campani, pallagrello bianco, pallagrello nero e casavecchia, fu la strada maestra che ha condotto Terre del Principe sino ai tempi moderni. Il pallagrello, fortemente voluto da Ferdinando IV di Borbone nella sua vigna del ventaglio, un semicerchio a 10 raggi, dove ogni raggio ospitava un vitigno diverso di cui due campani, esattamente pallagrello bianco, pallagrello nero. Nel dizionario geografico del 1700 si legge: “sono eccellenti così bianchi come Rossi E sono dei migliori del regno”. L’azienda fu fondata nel 2003 da Peppe Mancini, un avvocato con la passione del vino. L’altra anima dell’azienda è Manuela, donna di grande abilità e carattere, giornalista, caporedattrice del mattino di Caserta. Negli anni 2000 si avvalevano della consulenza di Luigi Moio, poi lasciata per strada. Credevano in quelle vigne, in quei vitigni e questo bastò per portare Peppe e Emanuela a lasciare, l’uno, la toga e l’altra la penna in astuccio. Dal 98 al 2002 una vera e propria rivoluzione attraversò l’azienda. Terre del Principe è oggi una delle aziende che ha contribuito in larga parte alla scrittura della storia vitivinicola campana. Come non ricordare le etichette che hanno fatto la storia: le Serole, Castello delle Femmine, Centomoggia, Piancastelli. Un’azienda che ha avuto il coraggio di credere fortemente negli autoctoni in un momento storico e vitivinicolo nei quali, rispetto ad essi, regnava lo scetticismo. Oggi l’azienda si concentra nella produzione esclusivamente di alcune etichette per un totale di 15.000 bottiglie l’anno. Una scelta che nasce dalla volontà di incarnare ancora di più l’essenza del vigneron capace di controllare e gestire sapientemente tutta la filiera, dalla vigna alla cantina. Per Terre del Principe fare agricoltura artigianale ha significato puntare unicamente sulla qualità e sulla tipicità.
Piancastelli 2014 – igt Terre del Volturno (pallagrello nero, casavecchia)
Un calice nato da una vigna di 17 anni adagiata sotto gli occhi del Monte Taburno di proprietà di Manuela Piancastelli. Offrire un vino da meditazione nato da vitigni autoctoni pallagrello nero e casavecchia. Un intento che chiaramente evidenzia lo stretto legame con il territorio nonché l’aspetto sentimentale di questo vino. L’etichetta è firmata ogni anno da un artista diverso che immortala la serigrafia della vendemmia. In vendemmia è il casavecchia che apre la raccolta seguito dal pallagrello. Si lavora in conduzione biologica. Il Piancastelli viene pigiato sofficemente e messo a macerare e fermentare in acciaio per 11 giorni con brevi rimontaggi. Effettua la malolattica in acciaio, segue una elevazione per 36 mesi di cui 12 in barriques (50% nuove, 30% di primo passaggio e 20% di secondo passaggio). Prima della messa al mercato affina per 24 mesi in bottiglia.
Rubino intenso, luminoso. Il bouquet racconta di refoli di prugna secca, pepe nero, coriandolo, mora, piccoli tocchi di note orientali. Al palato la succulenza offre il fianco a una delicata rotondità. Il tannino è gentile e gradevole. Buona freschezza e acidità che abbracciano il sorso in un racconto persistente.
Feudi di San GregorioIl progetto Feudi di San Gregorio nasce nel 1986 su iniziativa della famiglia Capaldo e Ercolino. Oggi come allora, si fonda sulla valorizzazione dei vini autoctoni campani contribuendo in maniera significativa al rinascimento dell’enologia locale. L’azienda si trova a Sorbo Serpico e prende il nome da un’antica contrada dell’omonimo comune, piccolo centro dell’Irpinia, con un parco viticolo tra i più grandi della regione. Il territorio di Sorbo Serpico racchiude un terroir unico: grandi escursioni termiche, normale piovosità, eterogeneità dei vitigni. Ciò, unito alle continue sperimentazioni e agli investimenti, contribuisce a rendere questa azienda un riferimento da leader nel mondo della viticultura.
Quando si parla di Feudi di San Gregorio si parla della history case, ossia di come questa straordinaria azienda sia riuscita a diventare una delle realtà più importanti del mezzogiorno capaci di investire e soprattutto sperimentare attraverso l’ausilio delle tecnologie all’avanguardia. Una grande testimonianza che ha sempre avuto come obiettivo il territorio e la valorizzazione dei vitigni in essa allocati.
Patrimo 2015 igt Campania (merlot 100%)
Uno straniero d’eccezione, il Patrimo. Un merlot in purezza nato verso la fine degli anni 90 (anche) sotto l’egida di una scelta: proteggere un’etichetta espressione di un patrimonio storico che mai va rinnegato. Una storia particolare quella del merlot in purezza firmato Feudi di San Gregorio. Chi si è incuriosito alle voci della cronaca del tempo, il Patrimo era l’unico vino prodotto dalla famiglia Capaldo con l’utilizzo di uve internazionali. Ma non era tutto. Un “errore di censimento” ne caratterizzò la storia, o forse la fece.
Da vino del momento, a vino che divise. Una metamorfosi che nessuno si aspettava, da vino rosso dell’anno, lanciato nel 1999 a centomila lire da Enzo Ercolino, allora patron dei Feudi di San Gregorio a vino tanto chiacchiaerato. Un vino che segnò l’ingresso in azienda di Riccardo Cotarella e l’abbandono di Luigi Moio che aveva seguito l’azienda sin dai primi anni (unitamente a Mario Ercolino, enologo di famiglia). La vicenda del Patrimo segnò il passaggio da un’epoca all’altra. Tutti volevano capire cosa ci facesse un merlot in Irpinia quando tutta la regione puntava su altri vitigni. Erano gli anni del 1999 e fino ad allora solo il Montevetrano, era riuscito ad entrare nel mercato internazionale. L’aglianico non riusciva a essere leggibile a tutti i palati, risultando eccessivamente complicato pur con l’ausilio della barrique. Per non parlare che la moda del mercato rincorreva le gonnelle dei vini morbidi e fruttati. Ma, non era neanche questo il punto. Il Patrimo non poteva essere un Irpinia Rosso Igt perché il merlot non era uva autorizzata in provincia di Avellino ( lo fu solo negli anni a seguire giacché il merlot fu inserito e riconosciuto). La bizzarria fu che ciò che i Feudi credevano fosse una vigna di aglianico (censendola come tale), in effetti era , invece, merlot. A loro il plauso, nonostante tutto di non aver mai rinnegato, anzi protetto, un’etichetta quale espressione di un percorso storico aziendale. Un’etichetta, capace di precipitare e risorgere, di dividere e di continuare ad esserci, di andare contro corrente ma stupire allo stesso tempo.
Chi conosce l’uva merlot, sa bene che per le sue caratteristiche genetiche offre un’ acidità leggermente bassa e il cambiamento climatico tende a penalizzarlo. Nel caso del Patrimo, questo non accade. Trovandosi la vigna nella fredda Irpinia, a circa 500 metri di altezza, su terreno argilloso, le basse temperature temprano i suoi tratti fino al punto da avvantaggiarlo in freschezza (e non solo) rispetto a tanti altri merlot italiani. E’ la dimostrazione che in terra d’Irpinia anche un vitigno internazionale può dare il meglio di se, pur essendo un locus non del tutto adatto a lui.
Patrimo asce da una vigna di 5 ha coltivata proprio a ridosso dell’azienda con terreni di matrice vulcanica. La scelta stilistica è stata quella di renderlo più snello e sottile puntando sulla freschezza e mineralità. Fermenta e macera in tini di acciaio per circa 20gg . matura 18 mesi in barriques di rovere francese di media tostatura e affina più di 10 mesi in bottiglia.
Tratti violacei dall’unghia leggermente più scarica. Il naso è avvolgente intessuto da una frutta rossa croccante, bacche di ginepro e spezie. Ciliegia, marasca, mora, violetta, ibis. Refoli di tabacco si uniscono a sentori di radice. Il sorso è voluttuoso seppur ancor giovane. Sfaccettato quanto intrigante. Buona la sapidità che verte verso una componente di grande freschezza in chiusura.
Tempa di Zoe
Da un progetto a quattro mani, nel 1997 a Torchiara, in provincia di Salerno, nasce Tempa di Zoe. Quattro soci, quattro vigne, con l’intento di portare nuova luce su di un territorio vocato come quello del Cilento. Coinvolti nel progetto l’azienda Feudi di San Gregorio, Francesco Domini, Vincenzo D’Orta e Bruno De Concilis. Quest’ultimo un leader dalle belle intuizioni al quale si deve la rinascita della viticoltura cilentana che seppur di recente conio, vanta apprezzamenti dei suoi vini in epoche lontane. Come curiosità, si racconta che il bottigliere di Papa Paolo III che nel 1500, Sante Lancerio, descriveva i vini del Cilento: “è un delicato bere alli grand caldi e non ha pari bevanda la sera a tutto pasto”. Un nome particolare Tampa di Zoe che fa riferimento alle “Tempe”, ossia alle 12 colline che si affacciano sul mare e che caratterizzano il Cilento da nord a sud. Zoe, invece, è ereditato dal greco antico che significa essenza della vita.
Il primo vino, interamente realizzato nella cantina di Sorbo Serpico, si è avuto nel 2015.
Zero 2015 – Pestum igt (aglianico 100%)
Zero è un aglianico in purezza. Le vigne di proprietà dell’azienda si estendono su 5 ha nel comune di Torchiara, divisi tra aglianico e fiano.
Zero nasce da due ettari di vigna in località Acqua di Costanza a Torchiara, interamente dedicati all’aglianico.
Rubino intenso. Il bouquet si struttura su note di frutta rossa croccante, ciliegia, mora. Si arricchisce con l’ossigeno di tratti scuri. Sentori di rabarbaro, polvere di caffè, bacche di cacao. Il roteare offre un panorama olfattivo ampio, amaretto. Al sorso è di carattere e grintoso. Il tannino racconta la sua gioventù ma ben calibrata. Buona la sapidità e l’allungo.
Villa Matilde Avallone
Poche aziende in Campania possono godere della fama e del prestigio che da sempre caratterizza la produzione di Villa Matilde nell’ager Falernus. La storia della cantina affonda le radici negli anni ’60 quando Francesco Paolo Avallone, avvocato e cultore di vini antichi, incuriosito dai racconti di Plinio e dai versi Virgilio, Orazio e Marziale sul Falerno, decise di dedicarsi alla riscoperta di quel leggendario nettare.
Con il supporto di amici, tra i quali anche docenti della facoltà di Agraria dell’Università di Napoli, dopo anni di studio, riuscì ad individuare le sopravvissute viti di epoca romana che vennero reimpiantate nel tentativo di recuperare la storia di quel territorio. Nacque così Villa Matilde, rendendo omaggio, all’adorata moglie. Oggi, l’azienda, sapientemente diretta e seguita da Maria Ida Avallone e dal fratello Tani, più che mai, attraversa un tempo di rinnovazione. Dal nome dell’azienda, prima Villa Matilde, oggi, Villa Matilde Avallone, in recupero di un vero e proprio tratto identificativo, al comparto organizzativo, che vede l’ingresso delle nuove generazioni nel comparto aziendale. Ancora, è previsto un rinnovo delle aree calpestabili dell’azienda, sino ad arrivare al restailing di gran parte delle etichette. Un segno di grande amore e attenzione a ciò che significa essere azienda leader del territorio e nel territorio. Oggi, Villa Matilde Avallone è diventata il simbolo della rinascita del Falerno da parte di un uomo ostinato e visionario nella sua ricerca. Identità, innovazione, ricerca scientifica, rispetto del territorio, questi i punti cardinali di una grande azienda sempre in corsa verso il futuro.
Vigna Camarato 2011 – Falerno del Massico doc (aglianico, piedirosso)
Un vino speciale il Vigna Camarato: prodotto solo nelle annate migliori a partire da uve provenienti dall’omonimo vigneto. Una vigna vocata quanto allocata in una zona particolare per il microclima. Di giorno la presenza del sole e l’influenza del mare (a pochi km), di notte grandi escursioni termiche. I ceppi del Vigna Camarato risalgono al 1968 e a guardarli sono delle vere e proprie opere d’arte. Il tempo è trascorso tra quei filari e il vigneto ne racconta il suo passaggio. Vigna Camarato si trova in collina, a 150 mt s.l.m. nel cuore della zona San Castrese a Sessa Aurunca, alle falde del vulcano spento di Roccamonfina. I terreni sono ricchi di ignimbrite campana e hanno matrice vulcanica con una buona dotazione di fosforo e potassio. In vendemmia i grappoli sono attentamente selezionati a mano, poi delicatamente pressati. Il mosto, unitamente alle vinacce, fermenta per 20 25 giorni a 25° C e svolge malolattica in barriques. L’affinamento è in barriques di rovere di allier per un periodo che va dei 12 ai 18 mesi. A seguire riposa 12 mesi in bottiglia.
Rubino dalla trama profonda. Il ventaglio olfattivo si apre con sottili echi ematici accompagnati da tracce di arancia sanguinella. Il roteare racconta sentori di piccole bacche selvatiche, frutti di bosco. Refoli di pepe nero macinato, fava di cacao, polvere di caffè, liquirizia. Al gusto il bilanciamento acido-sapido è molto interessante. Di carattere e dalla buona struttura, si racconta con tannini eleganti e succulenti. La persistenza e l’acidità la fanno da padrona.
Un calice, il Vigna Camarato, che ha una straordinaria capacità: riuscire a raccontare, nel tempo, un territorio vocato quanto antico, che ha fatto delle sue radici la propria forza e la propria bandiera nel mondo. Un Falerno ricco di storia ma dai tratti moderni, capace di ereditare l’ardore di un vino che ha oltrepassato i secoli e vestirsi di nuovo ad ogni vendemmia.
Azienda Agricola Galardi
Alle pendici dell’antico vulcano di Roccamonfina, a pochi passi dal golfo della “fedelissima”Gaeta, nasce l’Azienda Agricola Galardi. Dal 1991, la passione per le attività agricole e per i vini di qualità, ha spinto due cugine, Maria Luisa e Dora, con i rispettivi mariti, a diventare i protagonisti di un’avventura nata per gioco nel 1983. Si pensò di produrre vino per autoconsumo, poi iniziò, con curiosità, la produzione vera e propria. Le annate del 1994 e 1995 trascorsero in prova, nel 1997 arrivò Riccardo Cotarella. Nacque il Terra di Lavoro. Fu proprio in quell’anno che Parker paragonò questo vino ai grandi vini di Bordeaux. Un’azienda con un parco viticolo di ben 10 ha esposti a sud ovest. Le vigne da cui nasce il Terra di Lavoro insistono su terreni di matrice vulcanica, immerse tra uliveti e boschi di castagno. Ad un’altezza di 400 mt sul livello del mare e verso di esso degradanti, in un microclima straordinario accarezzato da venti di terra e di mare.
Terra di Lavoro 2016 – igt Roccamonfina (aglianico, piedirosso)
Il nome è dovuto all’antico nome del territorio da cui nasce. Un grande vino pensato, voluto e realizzato attraverso due grandi autoctoni: aglianico e piedirosso. Un blend, con proporzione otto a due, dove lo spessore dell’aglianico e l’immediatezza del piedirosso si sono suggellati in una sublime combinazione per dar vita ad un vino che ha saputo sfidare le mode, superarle e restare in vetta oltre i tempi e i mercati.
La fermentazione avviene con macerazione sulle bucce per 20 gg in acciaio con follature più volte al giorno. Matura 12 mesi in barrique nuove di allier e never, per poi completare l’affinamento in bottiglia.
Rubino luminoso. Al naso sfilano dapprima toni profondi e speziati. Il vino si apre lentamente ai sentori di frutta a polpa rossa, a un lieve sottofondo di erbe aromatiche con una splendida avvolgente pentolata. Macchia mediterranea, humus, carruba. In bocca è vigoroso ma voluttuoso. I secondi offrono una sensazione di piacevolezza e straordinaria classe. Grande equilibrio con un finale lumghissimo e armonioso.
Un vino cult, un pezzo di storia campana che ha ha saputo guadagnarsi la stima dei critici da ogni parte del mondo.
Un vino di grande struttura tutto campano, che non ha mai smesso di salire sul podio dei migliori vini d’italia. Un’istituzione enologica, un’intuizione enologica che ad oggi risiede nel cassetto delle certezze come vera icona di stile, di territorio e di qualità.
Montevetrano
A San Cipriano Picentino, in una delle più belle zone viticole della provincia di Salerno, sorge Montevetrano.
A 20 km dal centro della città, con a un lato Paestum e la cultura greca, dall’altro Pompei e la cultura romana, a pochi chilometri dal mare, eppure in collina, a un’altezza di 130 mt slm.
Un complesso immobiliare che nel passato era appartenuto alla real casa dei borbonica e che negli anni 40 fu acquistato dai nonni di Silvia Imparato. Un bene tramandato di padre in figlio, fino ad arrivare alle sorelle Imparato che nel momento della divisione dei beni decisero che a Silvia spettasse la parte vitivinicola, mentre alla sorella quella agrituristica. Ben 26 ettari componevano la proprietà ma solo cinque furono destinati a diventare vigneto.
Nei lontani anni ’40, il vino era il frutto di un lavoro artigianale, fatto in piccole quantità dai coloni del posto. A quei tempi nelle vigne si coltivava barbera, uva di troia, piedirosso e aglianico. Ma il destino di quelle terre era ben più prezioso. Agli inizi degli anni 80, Silvia, fotografa professionista, iniziò a frequentare un cenacolo di giovani appassionati di vino che si riunivano presso l’enoteca Rossi Isabelli, nel cuore storico di Roma. Del gruppo facevano parte tanti personaggi della Roma borghese; tra i tanti, anche Renzo Cotarella.
A lui confidò di avere una proprietà di famiglia tra i colli salernitani dove avrebbe voluto sperimentare una piccola produzione di vino, seppur quella zona non fosse nota per la storia vitivinicola. Era il 1983, e incuriosito dal progetto, Renzo coinvolse il fratello Riccardo . Insieme decisero di fare un sopralluogo. Attraverso lo studio delle vigne suggerirono a Silvia il modus operandi in quella terra ancora vergine. Si espiantarono piedirosso, barbera e uva di Troia e si impiantarono specie varietali internazionali: cabernet sauvignon e merlot. Dallo studio geologico si capì che il terreno era argilloso-calcareo con connotazioni di origine vulcanica; lo studio orografico, evidenziò, invece, come i vigneti, ottimamente esposti e situati ad un’altezza di 120 m sul livello del mare fossero allocati in una conca riparata e protetta dai monti picentini. Dunque una zona esposta sia a venti di mare che a quelli freddi e secchi spiranti dai picentini e dal massiccio del Terminio.
Si arrivò a creare così il Montevetrano. Il vino dei vini, il vino della storia. L’archè della storia vitivinicola campana. Oggi, azienda leader del settore, faro di punta della straordinaria Campania. Un’azienda,racconta Silvia imparato: “ in grado di decollare sognando di vincere la sfida con il mondo e con il mercato attraverso la caparbietà e l’amore per quella terra, sino ad allora mai valorizzata”. Montevetrano è la passione di una produttrice che ha saputo scommettere in un progetto e condividerlo con il mondo, narrando, vendemmia dopo vendemmia, un terroir sconosciuto. E’ una realtà vitivinicola che ha avuto la capacità di diventare pietra miliare non soltanto di un territorio ma soprattutto di una delle regioni più antiche per storia e per vitigni. Un vino, il Montevetrano, in grado di uscire sul mercato e restare in auge oltre i tempi e le mode. Una grande esperienza umana, territoriale, enologica.
Montevetrano 2015 colli Salerno igt (cabernet sauvignon, merlot, aglianico)
La prima vendemmia si ebbe nel 1991.
Il 1993 si ricorda perché era il primo anno in cui si decise di commercializzarlo e proprio in quell’anno, Robert Parker, provando un campione, lo definì il Sassicaia del sud. È un vino a taglio bordolese che racconta l’aglianico. Un blend in grado di riunire varietà vitate internazionali come il cabernet sauvignon e merlot (quali vitigni alloctoni), con quella autoctona dell’ aglianico.
Il Montevetrano fermenta per 20 giorni in acciaio con numerose follature, a seguire matura 14 mesi in barriques nuove di rovere francese (allier e never) per poi trascorrere altri sei mesi in bottiglia prima della messa in commercio.
Rubino. Un’apertura intensa e complessa sin dai primi echi nei toni di cassis, prugna, menta, timo. Ogni minuto è foriero di nuovi racconti. Piccole tracce ematiche, bacche di ribes, pepe in polvere, macchia mediterranea. Ampio e complesso dalla grande verticalità olfattiva. Al palato è sontuoso. Il tannino si esprime elegantemente e si intarsia in un sorso elegante, sapido, di grande carattere e dalla straordinaria classe.
La storia della Campania in sei straordinari bicchieri che hanno fatto del blend una chiave interpretativa del territorio (tranne il Patrimo, unico in purezza). Il cordone che ha legato indissolubilmente le sei storie è certamente il coraggio.
Quello di Giovanni Ascione nel creare Sabbie di Sopra il Bosco che parlasse unicamente la lingua degli autoctoni pallagrello, aglianico e casavecchia con la voce delle sabbie arenacce sopra il bosco. Quello di Manuela Piancastelli e Peppe Mancini, ancor prima, di puntare su ciò che rendeva autentico quel territorio: il pallagrello, nonostante tutto e tutti, nonostante le mode e il mercato. Quello dei Feudi di San Gregorio di non rinnegare, quando i tempi e le voci erano avversi, una vigna di merlot e un vino, il Patrimo, frutto di una storia aziendale e figlio diverso della bella irpinia, che da brutto anatroccolo lo ha trasformato in un vino senza tempo. Quello di Tempo di Zoe nel mettersi in discussione e investire in nuovi progetti. Quello di Francesco Paolo Avallone di scommettere su un vino intrappolato nei ricordi della storia e riportarlo in auge attraverso l’amore e la instancabile ricerca sul territorio. Quello di Azienda Galardi che ha saputo identificare il potenziale di un areale e farne la rotta finale, dando vita ad un vino straordinario e senza tempo, dalla tempra tutta campana.
Quello, infine, di Silvia Imparato, che, ha creduto in un’idea, in un desiderio e lottare affinché quel sogno, diverso dall’essenza dei suoi scatti, fosse traghettato sino a noi come vettore di qualità e straordinarietà di un territorio unico.
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