Questo è il report della degustazione di Spano di Michele Calò& Figli tenuta a Turi per Radici del Sud. Il report viene pubblicato su Luciano Pignataro Wine Blog, Vino al Vino e sul sito ufficiale di Radici del Sud.
Il viaggio nel tempo al Sud non è mai solo analisi tecnica delle annate e dei metodi di vinificazione, è soprattutto illuminazione progressiva di territori senza nome, produttori senza volto, uve senza identità. Buio, nero, pesti. Masse in viaggio su autocisterne, quasi semilavorati destinati al grande commercio dove ogni cosa poi assume l’identità richiesta dal mercato.
Forse per questo le verticali, ossia l’assaggio di più annate dello stesso vino, da quella più giovane a quella più vecchia, sono anche scrittura di una storia, messa a fuoco di emozioni, mappatura e illuminazioni di territori che solo da vent’anni iniziano ad essere indicati con maggiore precisione.
Negro Amaro, Nero Leccese, Nigra amaru, Niuru maru, dietro Gallipoli. A Teglie. Quando Michele Calò iniziò ad imbottigliare il vino prodotto dalla sua famiglia dal Dopoguerra non pensava di scrivere i primi capitoli di un libro. Un libro che è stato letto insieme a noi dal figlio Giovanni, al timone dell’azienda con il fratello Ferdinando, al ristorante Menelao di Turi: un esaltante viaggio che dal 2007 ci ha portato sino al 2003 condotto da me e da Franco Ziliani nell’ambito delle manifestazioni organizzate da Nicola Campanile “Aspettando Radici del Sud”, la più importante rassegna di vitigni autoctoni delle regioni meridionali passate al setaccio da specialisti stranieri e italiani.
Spano è il nome del vino ottenuto da uve coltivate ad alberello a sette chilometri dal mar Ionio, l’impostazione più adatta ai climi caldi e ventilati, come il Salento che lo ha ereditato dai coloni greci e lo ha mantenuto ovunque prima dell’arrivo della spalliera omologante e spesso imbarazzante in alcune occasioni. Circa 8000 bottiglie nei millesimi più favorevoli, una resa per ettaro che non supera mai i 30 quintali.
Oltre 140mila bottiglie, 26 ettari in affitto, la Michele Calò& Figli ha uno stile molto chiaro ed essenziale: non fa vini piacioni giocando sui residui zuccherini, aspetta sino alla fine la fermentazione ottenendo spettacolari bevute da abbinare al cibo e al tempo. Anche il legno è sempre ben dosato e non è mai invasivo, proprio come in questo caso. L’uva è attesa appena un paio di settimane in più rispetto ai normali tempi di raccolta, ma questa leggera surmaturazione, come vedremo, non è mai andata a discapito dell’acidità, il vero scheletro che regge ogni vino degno di questo nome.
Sapevamo che il Negroamaro ha vita infinita come altri grandi rossi del Sud, Primitivo, Gaglioppo e Aglianico fra tutti. Ma ancora una volta è arrivata la conferma di come una longevità ben portata dal vino esige, come per l’uomo, uno stile di vita salutare: servono soprattutto acidità e fermentazione compiuta sino alla fine. Ossia due elementi ben lontani dallo stile degli anni ’90 che hanno spinto in tanti a produrre vini pronti, un vero e proprio ossimoro in molti casi perché chi lotta contro il tempo in realtà non ha più tempo.
Il 2007 è l’ouverture che detta i temi di tutta la serata. C’è tanta bella polpa di frutta rossa al naso, note balsamiche rinfrescanti e piacevoli. Ma è in bocca che ritroviamo subito le caratteristiche dello stile di questa azienda: tannini ben risolti, totale assenza di dolcezza, tanta freschezza che tiene in piedi l’impianto della beva e spinge a rinnovarla, ancora e ancora una volta. Un rosso destinato ad attraversare gli anni con autorevolezza, ma che sin da subito può essere usato per l’abbinamento a piatti strutturati e di carattere.
Il 2003 è un passo indietro di cinque anni, ma ancora una volta le previsioni sull’annata cocente sono smentite da quei produttori che hanno rispetto per l’energia vitale del frutto. Sicuramente il naso è caldo, di frutta evoluta ma non cadente, ma c’è anche menta, note terrose, liquirizia, carruba. Ma è in bocca che il vino diventa spiazzante per la sconvolgente freschezza che detta tutta la beva. Una perfomance eccezionale, di nuovo senza mediazioni dolci. Il palato è ben occupato sia in verticale che ai lati e il finale è piacevolmente amarognolo e lungo, lunghissimo.
Il 1997 segna un distacco perché, come i tre successivi, prevede ancora un dieci per cento di malvasia nera. Anche in questo caso siamo in presenza di una annata calda, ma i descrittori usati per la 2003 possono essere ripetuti: acidità, freschezza, integrità totale, finale lungo. Un vino in grande equilibrio, pimpante, di beva piacevole e confortante.
Il 1996 è il fratello minore del 1997. Il naso non si impone, ma deve essere cercato mentre in bocca, pur mantenendo le stesse caratteristiche, appare un po’ corto. La beva è trascinata in maniera integrale dalla freschezza ancora una volta ricca di energia.
Il 1993 è un mondo a parte. Monumentale per complessità olfattiva ed energia espressa in bocca. Il naso evolve sicuramente verso sentori terziari o di conserva, sarà suggestione territoriale ma ad un certo punto ho sentito cotognata, ma al tempo stesso non ha segni di stanchezza e né tantomeno di ossidazione. E’ un vino ampio, lungo, piacevole, in buon equilibrio, cangiante. Si tratta sempre di aspettarle, queste bottiglie rimaste chiuse per vent’anni, perché hanno tanto da raccontare agli appassionati.
Una bellissima esperienza, che conferma le potenzialità di invecchiamento di questo nobile vitigno pugliese, le cui potenzialità sono state espresse sinora solo in parte minima.
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