Ristorante con cantina
Via Caracciolo, 13
Località Sant’Eustachio
Tel. 089.894399
www.casadelnonno13.com
info@casadelnonno13.com
Chiuso martedì. Ferie dal 17 agosto alla prima settimana di settembre
Aspettando la seconda stella Michelin
Del tempo ritrovato
L’antro squisito di Polifemo è rimasto uguale, uno squarcio presepiale vivente nel quale l’equilibrio in questi due anni è stato ritrovato soprattutto in cucina dove è tornato Peppe Stanzione. Già, per i non addetti ai lavori dirò che si tratta di un nostos, un ritorno dopo il distacco dai tempi di Terra Santa dove si era segnalato per una vivacità intellettuale e una freschezza d’idee non comuni facendo la fortuna gastronomica del bel locale a Materdomini di Nocera Superiore.
Ora la storia è ripresa, il tempo ritrovato e Peppe si presenta a le coté Sant’Eustachio con un carpaccio di baccalà usato come tapis roulant sul piatto dove godere un baccalà tridimensionale e classico al tempo stesso in cui tu mangi il pesce crudo e la sua versione fritta, in mousse o all’insalata dei giorni di magra per capire se la tecnica valorizza il prodotto o viceversa. Piccolo divertimento, ma efficace intermezzo di un ritorno alle origini, quel bisogno del palato ancestrale di ritrovare le proprie cose dopo tante divagazioni, spesso rotture di coglioni, capire che in fondo i simboli dorici del rapporto tra la materia e la sua nobilitazione nel contesto dell’esagerato bisogno umano di Aldilà restano sempre. Ecco allora, nell’antro, lo spaghetto al pomodoro. Sì, avete capito bene, lo spaghetto al pomodoro che la ristorazione seria ha delegato a rappresentare solo a quella d’accatto turistica per ospiti stranieri.
E che spaghetto e che pomodoro, si parla dello smec 20 San Marzano fatto coltivare direttamente da Raffaele Vitale, è lui Polifemo, ai contadini delle terre nere, e poi proposto in modo semplice ed efficace, senza formaggio per godere della acidità viva e dolce del frutto appena riequilibrato dall’amido rilasciato dalla pasta. E poi i paccheri ripieni di ragù di salciccione, in Irpinia e altrove, pezzentella, ossia della salsiccia fatta con i resti della lavorazione del maiale. E poi finalmente la carne alla pizzaiola, la zuppa di cannellini fatta a mestiere, il capicollo di maialino nero casertano comprato da Tommaso Salumi insieme alla pancetta, il lardo, il prosciutto. La tecnica qui è completamente asservita alla tradizione ed è la chiave del successo popolare di questo locale che proprio per questo è stato immediatamente adottato dalla comunità che lo ha in grembo: ci si va e ci si riconosce. Ma al tempo stesso la qualità della materia prima e l’aggiornamento culturale, maniacale, dei prodotti, penso al magnifico pecorino Carmasciano comprato fresco e affinato nella grotta affianco alla sala principale ne fanno un posto dove qualsiasi gourmet è obbligato a passare per ripetere le nozioni elementari.
Oltre a Stanzione, la carta dei vini sempre più ricca e il menù saldamente ancorato all’Agro vesuviano, l’altra novità rispetto alla precedente visita ufficiale è una sala, quella di sopra vicino al portone, dedicata al low cost. Intendiamoci, il prezzo qui al massimo può raggiungere i 50 euro, quando ci avete infilato tutto, dal benvenuto alla petit patisserie finale con il caffè. Ma di questi tempi, e soprattutto per coinvolgere i più giovani, sempre più appassionati ed esigenti, è necessario diversificare l’offerta ed ecco allora un menu light da 20 euro con cui puoi mangiare un paio di piatti e bere un bicchiere di vino. Attenzione: cucinato non asciutto come si dice a Napoli, non il solito affettato di salumi e formaggi che molti altri posti presentano in alternativa scontata. Provate quindi quello che c’è già nel menu del giorno, in modo semplice e light, appunto. Una soluzione anche per i pranzi di lavoro, sempre più rapidi e ansiosi. In questo gioco proustiano della memoria ci ritroviamo, è tutto molto chiaro, un segnale di come si possa fare cucina di tradizione e conquistare una stella.
E, volete saperla? Con questa brigata, questi sapori e questo scenario, ove la rappresentazione è essa stessa motivo di essere nel piatto, i presupposti per passare alla seconda ci sono tutti. Davvero. Aspettare per credere.
Intanto ci tuffiamo nella ricotta di Polifemo.
Visita del 3 febbraio 2006. Solo se avete visto Farinella a vicolo Alabardieri a Chiaja e se conoscete i grandi ristoranti della Terra delle Sirene riuscirete ad assorbire in pochi minuti lo spettacolare colpo d’occhio di questo locale che vi appare improvviso sotto i piedi, dopo essere passati avanti alla cucina a vista, pensato da Raffaele Vitale in un piccolo borgo di Mercato San Severino, a dieci minuti di auto dalla più famosa barriera autostradale d’Italia. Mentre però il posto napoletano è hi tech, qui siamo invece quasi in un cortile presepiale dove il banco dei formaggi e della norcineria fa da contraltare a quello delle paste e del pane, sopra la cucina con la brigata guidata da Donato Episcopo, leccese alla scuola di Heinz Beck poi al lavoro a Marennà, sotto i fornelli classici piastrellati delle case antiche di eduardiana memoria.
In sostanza siete immersi in un locale dal doppio volto e dalla doppia anima, sopra c’è la sala elegante e sobria per chi vuole divertirsi con i sapori di territorio presentati in maniera moderna, a volte scomposti come il fantastico tortino di alici con cuore di pomodoro su crema di cavolfiore e pesto di fiori di cappero che è uno dei piatti più straordinari che abbiamo incontrato negli ultimi mesi. Bisogna aver mangiato molto pesce azzurro alla pizzaiola sin da piccoli per capire sino in fondo il valore di questa creazione artistica subliminale in cui i sapori sono distinti mentre si compensano.
Sotto, nella grande caverna di Polifemo, si taglia il pane, si preparano piatti di affettati, si scelgono le bottiglie a vista sulle pareti, si stende la pasta e si provano sapori autentici di territorio presentati in forma classica ma alleggerita, come la minestra maritata in un vasetto di coccio. Siamo in uno dei ventri gastronomici di Napoli, quell’Agro Nocerino dove ai tempi dei romani c’erano insediamenti non meno importanti di Pompei ed Ercolano fotografati dalla lava nel 79 dopo Cristo: qui la Piana Vesuviana degrada costretta dai Lattari e dai monti irpini per sbucare attraverso i valloni a Salerno o nella Valle dell’Irno.
Terra di frutta, ortaggi, verdure, sempre dal sapore unico, come appunto i pomodori qui lavorati dai tre quarti dell’industria conserviera italiana concentrata tra Nocera, Sant’Antonio Abate e Scafati, e terra di baccalà o stocco: ecco allora il trittico di baccalà presentato all’orientale che da solo vale il viaggio. L’attenzione ai prodotti e alla forma narrativa dei piatti di Raffaele Vitale, architetto, arricchita dalla bella esperienza di Terra Santa, è spasmodica, pignola, ineluttabile: se servono gli spaghetti ci sono quelli di Vicidomini della vicina Castel San Giorgio, noti solo a pochi, veri conoscitori di pasta come Antonio Dipino della Caravella di Amalfi, se invece si pensa ai paccheri con una salsa di polipo all’Aglianico allora si usano quelli di Setaro di Torre Annunziata. Già, perché prima ogni produttore aveva la vocazione per una trafila specifica ben risaputa anche dalla giovane massaia fresca di letto, una caratteristica ancora valida nonostante i processi industriali garantiscano adesso risultati più omogenei e molto valdi.
Ma quando si usano paste di grano duro artigianale bisogna stare molto attenti ed essere davvero fini intenditori: sono sfumature che si apprendono sin dalla culla, non si possono studiare senza scadere nell’erudizione. Il locale dunque è un divertimento, ci si alterna mentalmente con sapori tradizionali riconoscibili come il raviolo con la salsa forte ottenuta dal soffritto di maiale e un mantecato di mussillo con raviolo croccante e salsa verde. Per la carne, oltre alla chianina e alla romagnola, agnello panato alle erbe con salsa fredda di friarielli e patate di Montoro, fagottino di maiale su specchio di rape rosse, stinco di maiale stracotto con annurca e cipolla ramata di Montoro. Il pescato del giorno viene proposto semplicemente all’acquapazza.
Gran finale con i formaggi e dolci tra cui un eccellente babà con mela annurca. Naturalmente è possibile entrare e deliziarsi con un semplice affettato di salumi italiani e formaggi anziché affrontare la cena intera o, a pranzo, fermarsi ad un piatto efinirla qui. Il ristorante rientra nella impostazione data dagli illuministi francesi al sapere umano, ossia nasce dalla intima necessità di catalogare e rappresentare il meglio di quel che si conosce: quasi un approccio didattico con i diversi sapori territoriali come la passata di ceci cilentani con panzarotti di baccalà o la scapece di paranza con panatura allo zafferano su cipollotto di Nocera. Sono solo esempi perchè il menù gira con le settimane e le stagioni, ma servono per sottolineare la vocazione eclettica del ristorante perché c’è il taglio papilloso da antica cantina, quello da osteria, quello che predilige l’impronta dello chef, il divertimento, il tocco carnivoro (che a noi non piace mai in Campania) ma anche l’occhio a mandorla: te ne accorgi dai materiali usati per portare le pietanze al tavolo, coccio, porcellana bianca, vetro dalle forme diverse, quasi che il loro uso si debba esaurire davanti a te che stai seduto su ampi tavoli quadrati, quelli classici del convivio prediletti da Raffaele. L’aspetto didattico è ben vivo in questo presepe gastronomico vivente, quasi tutti fossero in attesa di una scolaresca vociante pronta a fare tutto il percorso studiato in maniera maniacale, come abbiamo visto solo nella nuova cantina di Luigi Moio a Mirabella Eclano. La necessità di spiegare nasce dalla voglia di ricondurre tutto il mondo sotto una sola spiegazione, dalla compiutezza visiva del piatto al coltello studiato per lo stinco: tutto il Reale è razionale ci insegna Hegel. Ma la perfezione del Reale, si badi bene, si manifesta nella semplicità come la grandezza di potere o ingegno si rivela nella modestia del presentarsi, per tale motivo qui dentro ci si sente a proprio agio e basta.
Questo ristorante è però soprattutto un sonoro squillo di tromba, la crisi c’è, ma possiamo affrontarla e superarla con la cultura e la sapienza della manualità oltre che dei prodotti. Distillati da sorseggiare in un salottino dove si potrà leggere e assorbire la fiducia che fa andare avanti l’uomo e che è il vero arredo di questo locale, solida come le pietre delle sue pareti, la spinta misteriosa che spinge ad andare sempre avanti, come fare un figlio durante la guerra. Sui 40 euro per mangiare in uno dei posti più belli del Mezzogiorno.
Come arrivare
Sulla Caserta-Salerno uscire a Mercato San Severino. Girare in direzione dell’ospedale e andare dritto per qualche chilometro. Troverete un bivio con le indicazioni: seguite Sant’Eustachio, fate 200 metri e siete arrivati. A destra c’è un parcheggio, a sinistra il ristorante.
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