di Fabrizio Scarpato
Non è un caso se poi ripensi al caffè. Non per via del caffè, ma per la tazza. Grande, spessa, bianca. Senza manico. Che sei costretto a prenderla con tutte le dita, in un gesto inusuale, eppure così diretto e spontaneo, confortevolmente nordico. Quel caffè riassume un’atmosfera, sottolinea una sensazione che si affaccia appena ti siedi a quel tavolo in camouflage: al centro un vaso di erbe aromatiche, una posata bellissima e un tovagliolo arrotolato. Nient’altro. Pensi al tavolo di un artigiano, magari al bancone di una fonderia pietrasantina: roba vera, gentilmente ruvida. E l’ossimoro ti accompagna, a fasi alterne, nel servizio e nei piatti, nelle cotture e nei sapori, lo immagini persino sui volti dei fornitori, tra la Toscana e il resto del mondo: nomi e cognomi vicini e lontani, che qui le distanze non contano e il km zero è più probabile si manifesti in una sincera stretta di mano. Cultura del passo dopo passo, che non disdegna la curiosità. Nell’altalena si succedono un buon olio maremmano e un pane non indimenticabile; la battuta di chianina, dolceamara e ben contrappuntata da fave, ricotta e capperi; lo spaghetto alla chitarra, di morso ma prudente, a smussare inopinatamente la spinta acida del riccio di mare e del lime; il pacchero, equilibrato nei sapori decisi della triglia e del carciofo, con una puntuale eco piccante. Una giostra italiana. Anche se quel baccalà islandese, cotto una manciata di minuti, prima in padella poi al forno, immacolato, dal candido cuore vellutato, su quel tavolo rugoso, su quel sorso citrino di Haus Klosterberg, aveva un che di definitivo. Così alla fine ti coccoli quella tazza di caffè tra le mani. E pensi che sei stato bene.