Menu Degustazione / Ristorante Ambasciata, Quistello (MN)

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

di Fabrizio Scarpato

La radio gracchia cercando stazioni nella nebbia. A sinistra l’indicazione “mele campanine”, a destra si vendono ciccioli. Il fiume chissà dov’è.

Ti ho cercata nei mille specchi dell’Ambasciata, nascosta nelle pieghe dei loro riflessi. Tu che sai distinguere tra inferno e paradiso, tra champagne e dolore, tu avresti saputo decifrare quella sospensione di pensiero, avresti saputo cogliere la ruga sulla fronte e le esitazioni di chi officiava, sotto un cielo a righe bianche e rosse, quel rito pagano per vecchi capelli, irti e tristi, per i linotipisti, i giornalisti, gli spumantisti, e per noi che siamo i gatti neri, pessimisti, carichi di cattivi pensieri, se abbiamo troppo da mangiare. E avresti sbuffato per quella dolcezza che affonda i ricordi, sedimentando la memoria come una natura morta, contemplazione asfittica, sacrificandola nello sbrilluccichìo dei paioli di rame: cristalli di zucchero, anche i sacramenti in dialetto della Bassa, persino un riso e salsiccia, il formaggio grattato crudo e grumoso ai bordi, aggiunto come si fa per i cuori febbricitanti, da tranquillizzare con cucchiaiate abbondanti, d’inverno, sotto le coperte. Però ti saresti divertita di questo mondo all’incontrario, tra pomodoro ormai privo di acidità, anatre più dolci delle ciliegie, le colonne di libri a sostegno del tempio, e angeli che volano tra i fumi delle candele, oltre le vibrazioni dell’aria, sopra uno strato di salsa alla zucca, sopra il tempo che passa, che a volte graffia con unghie lunghe, fino a ferire.

Eppure anche alcuni miei eroi andrebbero a sbattere contro la tenerezza di certi presunti fantasmi, né io voglio confondere un albero verde con ceneri roventi d’umanità: mi son chiesto anzi sotto quale delle decine di cloches, sparse tra ceramiche e broccati, i fratelli Tamani trovassero ogni mattina il bandolo della loro esistenza. Quasi che annodarsi il grembiale attorno a una vita che s’è fatta più larga, più bassa e più lassa, fosse un atto di guerra quotidiano, in fondo mai rassegnato, una rivendicazione della gloria che può spettare persino a una comparsa, armata di una corazza di cotone bianca e ascellare, rispetto all’imbelle imboscato, per non dire del comandante, magari imprigionato in una luccicante gabbia mediatica. E allora li vedi danzare leggeri, in punta di piedi, nella loro foresta di teiere e insalatiere, di oliere, zuppiere e zuccheriere, fino a perderli di vista mimetizzati tra addobbi natalizi, nascosti tra le rigogliose fioriere. Eppoi palesarsi all’improvviso, impudenti e forti del passato che è la loro vita, della bellezza che hanno saputo accumulare e dedicare, liberi e disincantati, disordinatamente ordinati, resistenti, nella luce dolce e festosa riflessa sull’argento dei candelabri: pareva che i putti dall’alto spargessero polvere d’oro e Romano arrossiva come il suo brodo di cappone tinto col sangue caldo del lambrusco.

E allora, come vorrei che tu fossi qui con me, le nostre anime disorientate, boccheggianti come pesci che nuotano in una boccia di vetro. Un viaggio con meno trambusto: un po’ di salame, scaglie di parmigiano e grissini tiepidi, una frittata con i cipollotti rossi da scucchiaiare sull’onda e una tazza leggiadra per sorbire gli agnoli in brodo, sotto lo sguardo degli angeli, nel profumo dei fiori freschi, con un albero di Natale alle spalle, grande, tra le luci intermittenti.

 

Basterebbero quello Jacquesson Cuvée 736 e un bicchiere di Nuits-Saint-Georges di Verdet per illuminare i tuoi occhi. Così ti guarderei mentre ti mordi le labbra assecondando le evoluzioni dei nastri di zabaione al marsala, liscio come le tue calze di seta, e complice, nell’imbrattare il mio metro quadro di tovagliolo, che lascerei cadere, per scivolare anch’io fino a toccarti, a inzaccherare le mie mani e i tappeti intrisi di vino, su cui scappare inciampando negli angoli, finalmente imperfetti, per provare a soffocare le nostre antiche paure, a ridisegnare un attimo di deragliamento, nel bel mezzo di un presepe, grazie a quel presepe. Per questo vorrei che tu fossi qui.

La radio gracchia cercando stazioni nella nebbia. A destra l’indicazione “mele campanine”, a sinistra si vendono ciccioli. Il fiume chissà dov’è. Si sentono voci, di uomini e donne e un accenno di melodia. Poi le dita tratteggiano un arpeggio su una dodici corde, un colpo di penna dal basso, poi il contrario…

How I wish, how I wish you were here

We’re just two lost souls

swimming in a fish bowl

Year after year,

running over the same old ground

What have we found?

The same old fears.

Wish you were here

 

Credits: Wish You Where Here, Pink Floyd


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