di Fabrizio Scarpato
Il murale occupa l’intera facciata di un vecchio palazzo: ci sono Picchi e Facchetti, Milito e Zanetti. Ronaldo, col numero dieci, è di spalle, le braccia distese. Meazza sorride. Inter Wall, l’hanno chiamato: il muro dell’Inter, una storia raccontata con poche facce simbolo. Passaggi, di palloni e di tempo. L’hanno imbrattato di fiotti rossi senza memoria. Io che sono juventino non ricordo una intera formazione bianconera di quando ero bambino: recito però a memoria, Sarti Burgnich Facchetti Bedin Guarneri Picchi Jair Mazzola Domenghini Suarez Corso. Sembra stiano lì ad indicarti la strada: che dopo i grattacieli, entrerai in via Borsieri e attraverserai l’Isola, il quartiere a parte, con le sue saracinesche dipinte, il mercato rionale, i negozi, le botteghe. Poi vedi un logo lilla e capisci che il nuovo è arrivato fin qua, che tutto si intreccia e si tiene. Guardi il Bosco Verticale rigoglioso di primavera, guardi gli orti e i boschetti in divenire della Biblioteca degli Alberi, guardi la Casa della Memoria: e ti piace. Poi mangi un mondeghilo, seduto a un tavolo all’aperto del Ratanà.
C’è il sole e si apparecchia fuori. All’ombra del Bosco, di qua la Torre UniCredit, di là il Lombardia: in mezzo, giochi per bambini, orti didattici, alberi, sedie e tavolini lilla, una casa di ringhiera rimasta in piedi non si sa come, un’altra tutta coperta di rampicanti, il logo di Google, i fiori di gelsomino e la palazzina liberty del Ratanà. Più che mai sintesi di frontiera tra l’anima popolare di Milano e una contemporaneità lussureggiante di cristalli, riflessi, maxischermi, altezze, ricchi premi e pavilions. Manca forse la Milano borghese del centro, ma all’improvviso sotto gli ombrelloni compaiono giovani uomini in doppiopetto di lino e pochette, signore rolexate in pigiama palazzo, acconciature come si conviene, e bimbi, con pantaloncini blu all’inglese e calzettoni bianchi. Ci siamo tutti, sembra di capire. Addento un altro mondeghilo, che non mi entusiasma, troppo molle l’interno, ma apprezzo il tentativo, il pane nero, il cestino con la paglia, il mio bicchiere di Friulano, un bel refolo di vento, i bambini comunicati e comunicandi inopinatamente educati e il giardino fiorito, al completo di colori e voci: quelle situazioni per cui val la pena fermare l’attimo. E al Ratanà, evidentemente, lo sanno.
Sono capitato nel bel mezzo di due o tre comunioni, comunque allegramente informali, e a parte qualche lieve sbavatura, tutto funziona per il meglio, con una certa sollecitudine di routine, vagamente impersonale, ma mai sbrigativa. Insomma, per quel che vale, ti rilassi e lasci perdere qualunque snobismo gourmettista, sia perché non è il caso, sia perché te ne dimentichi, lì in quello spazio ovattato a cavallo del tempo. Manca però il menu degustazione e mi affido alla carta, tra piatti classici e proposte di stagione. Zigzagando tra piatti vegetali, uova in camicia, coniglio e le sempre ostiche trote – sono un ligure salato – intraprendo uno stretto viottolo di crinale, al confine tra tradizione e modernità, tanto per restare in atmosfera.
Il Carpaccio di Fassona piemontese, potrebbe sembrare un inizio catenacciaro, sempre pensando a quella Inter degli anni sessanta. In realtà è un manifesto di intenti, con la carne tenera a filo di coltello, il Granone lodigiano vagamente fumé e la salsa all’aceto balsamico una variante di una certa eleganza: un piatto arcinoto, proposto in modo non banale, materie prime di qualità e prodotti locali da scoprire.
Bel biglietto da visita, confermato dalla ricerca di famigliarità sin dalla definizione dei piatti, salvo poi intraprendere strade più personali nell’esecuzione e negli accostamenti. Così gli Gnocchi di Patate potrebbero non stuzzicare più di tanto, se non fosse che già all’occhio si percepisce un impasto e una qualità oltre la norma. Ma è il gioco dolce-acido tra i pomodori gialli in salsa e i pomodori rossi confit che porta via, insieme alla nota affumicata della mozzarella di bufala.
Ne mangeresti a palate, così netti nel taglio, così precisi in bocca: un piatto goloso, gustoso, cremoso, curioso, giocoso, affettuoso, …oso, insomma, e vorrebbe essere un complimento. E cosa dire del Risotto Anni 80? Panna, prosciutto e piselli non li avevamo dimenticati, e l’esercizio di riproposizione a dire il vero non appare nemmeno originale. Ma anche in questo caso entra a gamba tesa la materia prima: il prosciutto cotto in casa è altra cosa, la panna è lieve, ma soprattutto sono i piselli ad assurgere a ruolo di protagonista, poveri piccoli ortaggi bistrattati, con una qualità pazzesca se è vero come è vero che la parte croccante la recitano i piselli crudi, di bontà assoluta, e non il riso, che sembra un filo lento, ma in ogni caso a livelli tali che spazzoli il piatto con voluttà pari al senso di freschezza e leggerezza che il tutto riesce a comunicare.
Talvolta poi accade che il gurmé influenzabile si intestardisca alla ricerca di piatti inconsueti, magari perché ne ha visti passare sul web, oppure perché ama farsi del male, o ancora perché si sente gratificato, ahilui, dalle scelte difficili: un po’ come cercare di imitare un passaggio filtrante di Mariolino Corso per il taglio di Mazzola. Cose complicate. Così mi lancio sul Midollo in Osso: fornito di cazzuola e scalpelli, dapprima mi lascio tranquillizzare dall’aspetto non così truce del piatto e poi dal perfetto equilibrio tra il midollo e il crumble di finocchietto. Il crescione e soprattutto l’arancia portano freschezza e sgrassano il boccone come nemmeno i tannini di un bicchiere di vino rosso della sterminata cantina avrebbero saputo fare. Bella prova, del cuoco e anche mia: guardo l’osso ben raschiato, bullandomi un po’.
Abbiamo attraversato una Milano borghese, ma anche popolare, per non dire proletaria (d’altra parte la “schiscèta” viene quotidianamente proposta al Ratanà nei giorni feriali a pranzo): manca la Milano contemporanea, quella dei grattacieli. A questo pensano i dolci, moderni, poco zuccherini con significative iniezioni vegetali. Di Rabarbaro, Mandorle e Basilico, i miei commensali, che hanno una carapina di gelato al posto del cuore, me ne hanno lasciato quel minimo sufficiente per assaporare un mix giocato sui toni tostati, bruciati, fino a un passo prima dell’amaro, mentre con Pistacchio, un nome che già di suo desta moti di affetto, ho potuto salire sulle montagne russe del gusto. Superlativo: nel senso che dolcissimo fa rima con freddissimo, ma a pensarci bene anche pistacchio con finocchio, cocco con scrocchio, gelée con sablé, in un vortice di sensazioni essenzialmente tattili, sempre precise, associate, a pulire, ad addolcire, a rinfrescare, a mordere, fino alla convinzione di essere di fronte a uno dei dessert più buoni di sempre.
Ratanà è un posto, forse per alcuni il posto delle fragole, per altri semplicemente un posto dove rifugiarsi coltivando curiosità e satollanza, per altri ancora un avamposto, anche se non è facile capire rispetto a che cosa. Così, a nemmeno cento metri, il muro dell’Inter, l’Inter wall, ricorda per assonanza il senso dell’intervallo: una distanza tra due estremi, uno spazio tra due tempi, una pausa tra passato e futuro. Ratanà è una cerniera di frontiera che riduce quello spazio, che riempie quella pausa, descrivendo con eleganza e concretezza la Milano di oggi.
E Peppin Meazza sorride.
Ratanà
via G. de Castillia
Milano