Ristorante Potafiori Milano
di Fabrizio Scarpato
La bambina se ne sta appallottolata sulla poltrona di velluto verde: gioca col suo videogioco all’ombra di foglie di banano e grandi ciuffi piumosi che sporgono da un mazzo di canne, raccolte in un vaso accanto a lei. Il sole, che filtra dal cortile di una casa di ringhiera, le disegna addosso i ricami dell’inferriata che adorna le grandi finestre. Batte il piede, a tempo.
Presto vieni qui, ma su, non fare così, ma non li vedi quanti altri bambini, che sono tutti come te, che stanno in fila per tre, che sono bravi e che non piangono mai…
La sua mamma deve essere quella signora bionda che chiacchiera con le amiche attorno a un tavolo appartato, illuminato da fari led che fanno a fette le ombre e il suo viso affilato. Chissà se i cactus che coprono l’angolo alla sua destra le rammentano qualche amore lontano, del quale si è ritrovata a parlare, fissando il suo bicchiere di vino con espressione assorta.
E lontano, lontano nel tempo… ad un tratto chissà come e perché, ti troverai a parlarle di me…
Potafiori è così: fiori, cibo e musica, l’ordine sceglietelo voi. Le piante sono dappertutto, qualche fiore reciso, tanti rami, fiori secchi, tante spine, ciotole, grembiali, vasi, in un disordine ordinato intorno a un bar e a un pianoforte, che spesso suona, la sera, o quando va a genio alla titolare, cantante professionista. Il cibo, va senza dire, si destreggia con agio tra le note e il verde, assecondando umori e passioni, tanto che il menu prevede, e mette per iscritto, una play list di canzoni italiane che prestano alcuni versi, e qualche traccia di sè, a piatti preparati con cura, belli: e non poteva essere altrimenti. Ma Potafiori è soprattutto un universo al femminile: arrivano in coppia, per parlare tra amiche, oppure a gruppi per una qualche ricorrenza. Una signora dai capelli grigi pranza da sola: sembra la conoscano, prende un piatto di verdure, una insalata di ortaggi e se ne va. All’uscita le regalano un fiore.
E il mio maestro mi insegnò come è difficile trovare l’alba dentro all’imbrunire…
Sono tutte vestite bene, poco glamour: mantelli di lana, turbanti, pizzi, gonne ampie, scarpe basse, derby di vernice, borse morbide che si afflosciano sulle meravigliose sedie chiavarine di Gio Ponti. Sembrano a casa loro. I pochi uomini presenti le guardano divertiti, finalmente liberi da ogni lamentela, sereni nel vederle così a loro agio, in fondo contenti per la certezza, che via via si manifesta, che quella tavola è pensata per loro, i maschi. Perché le porzioni sono decisamente generose, tanto da far pensare a un filo logico, perfidamente femminile, che collega una cucina rassicurante, apparentemente casalinga, di impronta confortevole e materna, al desiderio di mettere a tacere tutti gli appetiti del proprio uomo, imboccato, satollo, stordito, preso per mano lungo quei verdi sentieri e messo al muro, in un angolo, sereno soprammobile accanto a un ficus benjamin.
A due a due gli innamorati sciolgono le vele come i pirati…
Perché non servono sere miracolose per parlare d’amore davanti alle Pacote (?) Felicetti con gamberi e funghi porcini: la stagionalità aiuta, ma il piatto sprizza erotismo a mani basse, grazie alla consistenza assassina della pasta monograno Senatore Cappelli, a una cottura al punto e al gioco di equilibrio liscio e lascivo dei porcini e del gambero, lasciato volutamente e astutamente a crudo.
Viceversa le Mafalde con ragù di calamari perdono per strada il loro morso e la loro intrigante ragion d’essere per via di una crema di cannellini che rallenta e sovrasta il tutto, compresi gli amorosi sensi. Meglio allora la franchezza dei Casoncelli bergamaschi, tosti di Grana e forse un po’ asciutti, ma certamente questo è un piatto fatto per l’uomo accanto al ficus, insomma uno che lo fai felice con poco, permeabile alla ruffianeria più smaccata. In ogni caso quella certa casalinghitudine si manifesta nell’uso frequente di creme: siano di fagioli, di formaggio o di patate, hanno il pregio di amalgamare il piatto, ma al tempo stesso rischiano di azzopparlo, rallentarlo, togliendogli freschezza e spinta. Anche perché in genere, nei primi piatti, l’acidità viene forse volutamente lasciata in disparte.
Capitano che hai negli occhi il tuo nobile destino, pensi mai al marinaio a cui manca pane e vino…
La ragazza che ho di fronte non mangia e ogni tanto parla da sola. O forse parla con le piante, mentre è impegnata nell’allestimento di una composizione floreale. Raccoglie rami, foglie, nuvole di fiori secchi, taglia e cuce col bel grembiule a fiori, come un arazzo fiammingo del tempo che fu. E’ come se fosse la prima ballerina di un corpo di ballo di camerieri: li confondi perché son vestiti più o meno tutti uguali, magliette nere e grembiule a fiori, ma percepisci partecipazione e immedesimazione, con passaggi fluidi e movimenti gentili, una danza nei continui controluce di passaggio davanti alle grandi vetrate lasciate ignude. Leggerezza e passione: la prima che attraversa anche il merluzzo appena scottato, sapido, pimpante, appoggiato allo yogurt e al limone, la seconda che sanguina dal petto d’anatra di Barberia, perfettamente al rosa, felicemente resistente al morso, compatto e docile al tempo stesso, cui giova alla fine l’agrodolce della cipolla rossa. Forse la ragazza, tra un fiore e l’altro, canta sottovoce, forse danza attorno a rami di orchidee: forse è innamorata, e non solo del suo lavoro.
Nel mezzo c’è tutto il resto e tutto il resto è giorno dopo giorno, e giorno dopo giorno è silenziosamente costruire…
Il dolce non apporta nulla di nuovo per me che sono con le spalle al muro, sotto minacciose piante grasse spinose, più un vaso di crisantemi gialli, in mano un bicchiere di Passerina che mi fa compagnia. Tuttavia resto ammirato, e come tutti i maschi presenti forse ammansito, indotto a riflettere su scelte così affascinanti da risultare equilibrate e vincenti, a dispetto della mancanza di trasgressione e scarti barbarici, ma proprio per questo, forse, così comprensibili, così accoglienti, alla fine così originali.
Metti in circolo il tuo amore come quando dici ”perchè no?”. Metti in circolo il tuo amore come quando ammetti ”non lo so”…
Parte un arpeggio di chitarra inconfondibile. Osservo la bambina che ora ha posato il videogioco e guarda verso la grande finestra che la illumina di sole. Chissà se si chiama Nina, se ha mai imparato a volare tra le corde di un’altalena, se mai saprà distinguere tra dolcezza e amarezza, tra amore e odio, tra bello e superfluo, tra incanto e disillusione, tra un aleggiante senso di serenità e un concreto sussulto di irritazione per un coperto prezzato a cinque euro. Credo che venire a pranzare a Potafiori non possa farle che bene, finché è in tempo.
Mastica e sputa da una parte il miele, mastica e sputa dall’altra la cera. Mastica e sputa prima che faccia neve…
Nota: tutte le canzoni citate fanno parte della play list di ottobre del ristorante Potafiori
Via Salasco, 17
Ristorante Potafiori Milano