di Fabrizio Scarpato
Poi dici che le luci non contano… Forse è proprio dalle luci che una pizzeria deve cominciare a pensare cosa farà da grande. Sempre ammesso, e non concesso, che esista un abito definito e imprescindibile per una pizzeria: spesso cucito con manifesta semplicità, colorato, o magari di un bel finto rustico, al massimo uno shabby chic con tavoli ravvicinati e possibilmente un po’ di sano rumore di fondo. Altrimenti che pizzeria sarebbe… Ma soprattutto una pizzeria che si rispetti deve essere illuminata a giorno, luci implacabilmente diffuse sui soffitti, a rischiarare ogni angolo: perché la pizza è rito popolare, e in qualche modo ricalca la vita di un quartiere, di un condominio, di una riunione di famiglia, un microcosmo animato e vociante, in cui non ci sono segreti, e almeno all’apparenza tutto è visibile, condivisibile. La pizza in piazza.
Poi capita che sali una scala di pochi gradini e entri in un grande spazio con luci soffuse, soffitti altissimi color melanzana e un grande tavolo spatolato in oro, illuminato da lampade attorcigliate a mezza altezza. Coni d’ombra negli angoli di pareti che sembrano appena intonacate, macchie di malta sparate a secco a imbrattare l’oro, e poi muri di bottiglie attraversate dalla luce a separare sale e tavoli ora in legno dorato, ora in metallo nudo, con disegni a occhio di pernice, grigi, stile borbonese, ruvidi eppure caldi al tatto. E luci dritte sulle sedute, esito di un gioco tra le sorgenti luminose di strane lampade sospese a un filo rosso, astronavi postindustriali vagamente retrò, come fossero uscite dalla scenografia di Metropolis di Fritz Lang o dall’officina di Doc in Ritorno al Futuro. Ti siedi, poggiato su sedie in stile country americano, asciutte e nere: il cono di luce inquadra un vasetto di olive e delle fette di pane aromatizzato fragranti e sottili, bucate come ricami, secche. Dry, appunto.
C’è gente, e non la senti. C’è musica, e non la soffri. Parli, e non devi urlare. Persino consultare un menu ampio ma scritto con chiarezza sia di caratteri che di contenuti, risulta finalmente avere un senso, senza le deprecabili pletore di nomi sempre uguali, sempre falsamente originali, sempre troppi, ché tanto alla fine prendi la solita margherita. Infatti chiedo una margherita, per iniziare, ma con convinzione, sebbene un po’ distratto e in ambasce per decidere cosa bere: in fondo anche questo è un mondo al contrario, perché ci sono birre di qualità ovviamente, ma in secondo piano rispetto ai vini, suddivisi essenzialmente in riesling, pinot nero e bollicine, a loro volta in netta difficoltà se confrontati all’appeal che sanno esercitare cocktails e miscelati. Decidiamo che non c’è gara, siamo da Dry, e invece del riesling ci facciamo un Gin Gin Mule, mentre al posto del pinot noir, optiamo per un Vintage Negroni: in entrambi i casi si usa Tanqueray di default, e se nel primo menta, ginger e lime conferivano al sorso una bella freschezza, nel secondo appariva intrigante il contributo inatteso di qualche stilla di Barolo Chinato, a dare ulteriore corpo e rotondità.
Ovvio che il Gin Mule è andato a nozze con la Margherita, una di quelle, poche, che in qualche recondito modo richiamano le hegeliane lezioni sulle prove dell’esistenza di Dio: disegno del topping perfettamente equilibrato, pomidoro buono anche da solo, amalgama centrale da pacchetto di mischia All Blacks e un cornicione senza muscoli, anzi etereo, frizzante, eppur dotato di quell’impercettibile, insostenibile leggerezza del crunch che ne rende il consumo decisamente più veloce del pensiero. Capolavoro. Per un attimo mi soffermo sulla musica che gira intorno: sembra qualcosa tipo Sade Adu, sonorità simili allo smooth jazz britannico degli anni ottanta. Eleganza, raffinatezza, contaminazione: molto milanese, molto metropolitano, molto Andrea Berton che ispira il progetto Dry qui e in Brera, accanto a Pisacco. Le pizze dello chef vanno a tempo con la musica: Broccoli gratinati al Grana Padano, scorze di limone caramellate e fiordilatte, svisa setosa su tutto lo spettro gustativo, mettendo insieme sapido e amaro, dolce e acido, con grande equilibrio e guizzi jazzistici.
Ma il momento più smoothy coincide con l’arrivo in tavola delle focacce, che già di per sé richiamano un angolo caldo in cui accoccolarsi, ma che in questo caso sottolineano anche una precisa e coerente scelta semantica: nulla a che fare con la pizza, focaccia è e focaccia sia. Straordinaria, peraltro: una nuvola di fragranza che si pone, per estetica, lievitazione e riferimento qualitativo tra i lievitati di Simone Padoan e l’aria di pane di Renato Bosco (chiederò invano, ma scoprirò poi che Simone Lombardi, l’artefice di pizze e focacce, è passato dai Tigli di San Bonifacio). Normale che tale bontà sia perfetto supporto per salumi e formaggi di qualità, secondo estro e controllata fantasia: quella con Yogurt salato e vinappeso, l’insaccato cugino del culatello lasciato affinare nell’amarone, è abbastanza, ma solo abbastanza, commovente – ebbene sì, m’è scappato – anche e soprattutto per le note speziate del vermouth nel mio Negroni, che all’unisono hanno preso a zompettare di gioia.
Ci pensano i dolci, lodevolmente poco zuccherini e decisamente acidi, a resettare le papille, stordite da tutte queste montagne russe a luci basse: tanto per non tradire il gioco, sono presentati in tumbler old fashioned, che alla fine forse li penalizzano.
Il bello di certi posti è saper dare risposte, qualunque sia il tuo stato d’animo, le aspettative, i giocattoli con cui ti va di divertirti: un formato verticale, un’idea che è base ben salda e ben identificabile, sulla quale aggiungere, migliorare, integrare, costruire, modellare. Sognare, forse. E incamminarsi lentamente verso una stella, quella che non c’è, e che forse è proprio lì dietro, la seconda a destra.
Sarà stato per questi pensieri che appena fuori ho respirato nebbia e modernità, pioggia e cosmopolitismo: una pizza a Milano. Le foglie d’autunno in Piazza della Repubblica sembravano Bryant Park, il Principe di Savoia il Plaza, lo skyline delle torri Unicredit, Solaria, Diamante, Lombardia e del Bosco Verticale ricordava vagamente New York. Mancava Tiffany, mi sono accontentato dello show room di Chiara Ferragni.