di Fabrizio Scarpato
A prima vista l’ambiente appare freddo, per certi versi il bianco e nero totale potrebbe far pensare ad un luogo vagamente asettico, per non dire malinconicamente di provincia. L’ordine geometrico dei tavoli, delle sedie thonet e dei divanetti in pelle, tutti rigorosamente neri, riporta tuttavia ad arredi di frontiera, a certe atmosfere perse tra Lisbona e Casablanca, con gli immancabili ventilatori a pale appesi al soffitto; ma anche a nebbiose sensazioni crepuscolari, con echi di fisarmonica, in un bistrot parigino da ultimo tango. Forse il problema sono le luci, diffuse da un grappolo centrale di classici lampadari a palla e da più moderne appliques alle pareti: potrebbe aiutare una maggior concentrazione luminosa, a creare spazi virtuali sui tavoli. Poi arriva un piatto in cristallo con gamberi rossi crudi, carciofi e pompelmo rosa che inonda il quadro di colore, come quei giochini del photoshop che isolano oggetti a colori su uno sfondo in bianco e nero. La sensazione è analoga: il piatto ti prende gli occhi ed è particolarmente centrato nell’equilibrio, per quanto scontato, tra dolce e acido, giovandosi soprattutto dell’agrodolce speziato dei carciofi alla barigoule: una virgola imprevista, un piccolo scarto laterale rispetto all’ovvio, che sa molto di Francia. Ora la fisarmonica si sente distintamente, complice una Milano piovosa, fuori dalle vetrate.
Hide Matsumoto è stato per molti anni il braccio destro di Davide Oldani a Cornaredo: il ninja del D’O, lo definisce lo chef in uno dei suoi libri. Non ce lo vedi a roteare le braccia secondo l’iconografia delle arti marziali (poi magari è anche cintura nera…), ma certamente guardarlo muoversi, concentrato e assiduo, in una cucina a vista tirata a lucido, dà idea di un certo livello di rigore e precisione: un livello alto, a voler quantificare. Poi guardi rapito il vitello tonnato, pere e mirtilli e in qualche modo ti fiondi in Giappone, magari nei giorni dell’hanami, quando i ciliegi in fiore ingentiliscono l’aria di nuvole rosa. Così quel piatto gioca sulla delicatezza dei colori e sulla simmetria del disegno. Ma quel che non t’aspetti è la serie di rimandi a sapori propriamente italiani, che vanno certamente dalla salsa, delicata e setosa, fino alla freschezza tutta trentina delle pere, passando per la dolcezza acidula dei mirtilli, in effetti anch’essi di casa tra i boschi dolomitici, ma che tuttavia, complice la macerazione nella grappa, ricordano distintamente le amarene brusche modenesi. Un bel giro, un viaggio, a sottolineare come fare cucina guardando alla tradizione, non significhi necessariamente uno sguardo ottusamente statico e immobile.
Rigettando certi geometrismi minimalisti, i piatti sono pieni e rotondi, secondo una rassicurante estetica da trattoria, cui si aggiunge una certa grazia compositiva, una attenzione al dettaglio cromatico forse frutto di una sensibilità tutta orientale. In questo senso sono molto belli, e ruffianamente famigliari, i cavatelli con acciughe, cozze e broccoli, mentre la pasta fresca coi moscardini non convince, proprio per mancanza di morso e di sorpresa. Ma è il risotto alla milanese che si prende la scena, molto ondoso e corroborato da una nuvola di gianchetti, quasi a raccontare il ritorno nella metropoli dopo un fine settimana in riviera, portando con sé il verde degli asparagi, lo iodio del mar ligure e la dolcezza del paesaggio. Suggestioni di passaggio che non scalfiscono alcune certezze tecniche e compositive, acquisite alla scuola francese, che si esprimono in fondi magistrali, densi e senza sbavature, come quello alla senape che accompagna il maialino, in un piatto tutto transalpino, per non dire provenzale, coltello Laguiole compreso, al quale è inevitabile rendere omaggio, alla fine, con un’italianissima scarpetta.
Tornano gli echi di fisarmonica, ché qui si suonano canzoni e ballate, e le svisate sulle corde della chitarra non sono nemmeno ipotizzate. Il rock, il jazz, persino il pop, li lasciamo agli altri, e ci accoccoliamo in una cucina leggera e confortevole, raccolta e misurata, al limite con qualche cenno di sottile distacco.
Andamento che si ripresenterebbe nei dolci, se non fosse per quel tortino di polenta e gelato allo zafferano, così sbrignoccolato da metter tenerezza, e soprattutto capace di rimembrare certe fantastiche zuppe di biscotti nel latte appena munto, nel mattino di domeniche molto lontane, in campagna. Chissà se anche Yoshihide Matsumoto, attraverso quel dolce, coltiva una sua madeleine, un qualche sapore, una qualche consistenza lontana nella memoria, forse un chinsuko, forse altro, comunque qualche piccolo moto di nostalgia.
E’ a questo che penso, quando esce dalla cucina in cui era affaccendato, per congedare un tavolo di ospiti giapponesi: lo farà solo per loro, salutandoli con ripetuti piccoli inchini.
Osteria Le Api Milano
Via Carlo Foldi, 1
02 8457 5100
Sempre aperto, chiuso la domenica