di Fabrizio Scarpato
E poi c’è una Liguria verticale, dritta, dove si sta in piedi di sghimbescio, le gambe solidamente piantate sulla roccia o più facilmente su una qualche zolla di terra, magari una vigna. Li chiamano quei posti davanti al mare: non sul mare, tanto meno in riva al mare, ché mica si sta col piedino a indugiare sulla temperatura, tanto meno si passeggia o si corre sulla sabbia. Qui l’acqua la vedi spesso da lontano e il più delle volte ti scombussola i pensieri, per rimetterteli subito a posto, a seconda di come tira il vento. Certi posti davanti al mare della Liguria ti portano a fantasticare, quasi fosse una via di fuga necessaria rispetto al trovarsi sempre con le spalle al muro, con la collina che incombe, il verde che prende il sopravvento sul blu.
Framura è uno di questi posti, più posto di tutti, perché è un comune sparso, risultante dall’aggregazione di diverse località, di qualche chiesa o villaggio dai nomi aspri, sparpagliati lungo il costone che separa il mare dall’entroterra. Va da sé che il mare è laggiù, racchiuso tra l’orizzonte e un angusto porticciolo riparato da uno scoglio, a sua volta protetto da una madonna, proprio sulla punta, a separare il sacro dal profano, il porto dal mare, la casa dall’ignoto. Le spiagge sono anfratti angusti e rocciosi, solo ultimamente riannodati da una passeggiata che proprio non è stato possibile rendere diversa dal saliscendi di un ottovolante: ma deve aver conquistato i cuori, perché in estate hanno steso un tappeto rosso a festa, tutti increduli che, in qualche modo, attraverso qualche soprassalto, da quelle parti si potesse camminare anche in orizzontale, prerogativa riservata, di solito, solo al treno.
E poi c’è l’Agave, che è come se avesse dato un senso al tutto, riassumendo in sé tutta quella liguritudine di cui i più sono inconsapevoli. Il ristorante è una sorta di nave tagliata a metà, aggrappato, come tutte cose e le case, al costone di roccia appena sovrastante il porticciolo, e in qualche modo solidale con la ferrovia, essendo nato dal restauro di una vecchia casa cantoniera proprio all’imbocco dell’antica galleria scavata nella roccia, in cui un tempo sbuffavano le locomotive e oggi frusciano allegri camminatori e ciclisti. All’Agave, o guardi il mare o guardi il mare, non ci sono alternative: esci dal tunnel e ti respira il cervello, guadagni un terrazzino e ti versi un bicchiere: a volte aiuta. Il buio e la luce, l’introspezione e la fantasia, il mugugno e la risata. Liguria, insomma, la mia, quella di levante.
E alla fine c’è Marco Rezzano, l’uomo che sussurra alle bottiglie (e la cosa sensazionale è che quelle gli rispondono). In effetti un pochino le blandisce, toccandole in punta di dita, con gesti precisi e non studiati. Come si conviene da queste parti, Marco è di poche parole, parla con gli occhi e con i suoi vini, che si fiondano, sbalestrandoti di qua e di là, lungo l’arco del boomerang, col vantaggio che poi tornano sempre, al gusto e alla memoria. Partire e tornare, in barca, in treno o col pensiero, anche grazie alle donne liguri, che hanno la forza per tenerci assicurati a una cima, affinché non ci facciamo del male: Luisella e le figlie di Marco si muovono sicure e silenziose, evidentemente necessarie, come la roccia cui tutto si appoggia.
Dalla cucina, fuochista il cuoco Filippo, non possono uscire che piatti così, dritti e potenti, pochi ingredienti che puntano all’essenzialità, a concentrare in un boccone un modo di essere e una regione intera. Terra di contadini talvolta prestati al mare che rimbalza nella costante presenza dei prodotti dell’orto, spesso con nome e cognome, che accompagnano, croccanti, ora i pesci di fondale che Sandokan, il pescatore, porta a casa ogni giorno, ora le carni dei monti là dietro, dalle parti della Val di Vara. Zucchine trombetta, melanzane, asparagi di Albenga, patate, carciofi, barbabietole e cipolle di Zerli colorano i tranci di ombrina, di mupa o le costolette di agnello di Zignago, mentre un dolcissimo aglio di Vessalico fulmina di bianco un pesto immacolato, pronto a condire delicati croxetti, stampati si presume da amorevoli mani di fanciulle. Non meno identitari sono il polpo, sempre cotto al punto, lo stocco con olive taggiasche, la frittura avvicinata a un piccolo gotto di aceto di mele, seppie o totani con cipolle marinate e piselli, o una devastante pasta secca mischiata, una mesca francesca servita in una bisque di scampi e peperoni. Badilate. La nave si popola, su tutti i ponti tintinnano i bicchieri, quasi a svelare quella complessa semplicità che è indole, carattere, ma anche il percorso tutto da scoprire, e tutto in divenire, di questo luogo così trasparente ed elegante, dell’eleganza delle cose fatte per bene, fino a renderle preziose. E poco importa se i millemila scalini ogni tanto scompigliano le temperature di servizio di questo o quel piatto, perché forse sei già oltre l’orizzonte, con le tue fantasie.
Così una sera, mentre laggiù, al centro della piana di Albenga, il sole provava a tramontare dietro il Monviso, l’ombra lunga del boomerang se ne avvantaggiava, proseguendo interminabile, e di profilo, fin dentro il mare. Sandokan aveva portato tutto il meglio e le bottiglie di Marco avevano smascherato certe spelacchiate tigri di Mompracem ridimensionandole in piccoli gattini miagolanti. Un poeta da strapazzo, dopo aver vergato stralunatezze su carta paglia perché invaghito di una Perla di Labuan scalza, capitata lì per caso, allungò il dito verso l’orizzonte: “Laggiù cos’è? Sanremo?”. “No” rispose Marco “Roquebrune, Cap Martin… Francia”. E tutti: Vive la France! Un tipo che se ne stava intrappolato a prua tra muro e ringhiera si girò sorridendo, sollevò un bicchiere di Sambuca e ripeté con noi, ma sottovoce: Vive la France. Ma questa sembra sia un’altra storia, altri amori, altre fantasie.