di Fabrizio Scarpato
Certe volte il mare aiuta. Non tutto il mare è come quello ligure, spesso lontano e malmostoso, profondo, buio, coi monti che te lo sbattono in faccia, tanto forte che scappi e ti rifugi aggrappato alla roccia impaurito, manco potesse arrivare il feroce saladino. In Versilia per esempio le Apuane sono lontane, protettive, bellissime, ma non ci devi fare i conti se arrivi sulla spiaggia. Ecco, la spiaggia: vasta, chilometrica, ordinata fino a un mare basso e tranquillo; ti permette di guardare l’orizzonte con meno ansia, consente un respiro più lungo, ti lascia pensare, ma senza spaparanzamenti romagnoli, senza eccessivi languori, ché in fondo le asprezze garfagnine sono lì, dietro il Procinto. Certe volte il mare asseconda i desideri, consente di esprimersi con maggior libertà. Per esempio, questi Calamari alla carbonara che sto addentando con soddisfazione, resistenti il giusto al morso, amarognoli di ustioni e inondati di salsa dolce, sapida e croccante, Angelo Torcigliani, il cuoco, avrebbe potuto farli nella campagna di Camaiore, lontano dal mare? Forse, ma non sarebbe stata la stessa cosa, la medesima provocazione prospettica: nel senso che portare la sua cucina generosa e cremosa sulla spiaggia, da un lato sbaraglia il cacchinismo crudista bollicinista imperversante su questi lidi, dall’altro cambia il punto di vista, il sentimento dell’approccio, trasformando quei pochi metri di riviera in un luogo a parte, tra la Maremma e gli Hamptons, tra Costa Azzurra e Luberon.
Così mi accomodo in una veranda all’aperto, una specie di capanno, doghe di legno, lini e colori crudi, accanto alla sala coperta, grandi lampade da terra, tendaggi e bellissime sedie thonet in faggio curvato, dal disegno morbido e vagamente primitivo, un country elegante che è tutto un programma.
E’ primavera, ma il sole picchia e sulla spiaggia antistante, che comincia lì a due metri, sebbene non sia ancora attrezzata, inziano prove costume sotto le tende, fiocchi e bikini, morbidezze e sinuosità che si muovono sullo sfondo, lontane, silenziose, suggestive. Ecco, a proposito, dopo la setosità della carbonara, la Tartare di ricciola con tagliatelle di seppia e il Tonno scottato sembrano due concessioni al clima e alla retorica dei piedi nell’acqua: ma la ricchezza e il sottofondo ruvido delle mille erbe di campo che accompagnano la prima, e soprattutto i meravigliosi fagioli schiaccioni e la bottarga fatta in casa che irrobustiscono il secondo, continuano il gioco di screziatura, di spiazzamento gustativo, di ricerca del dettaglio che impreziosisce di delicatezza piatti pur sempre d’impatto, mai in levare, anzi di morso e lontani da ogni tendenza minimalista.
Succede poi che a un certo punto Torcigliani mette la freccia, paradossalmente per rallentare, non fosse altro per far capire meglio. Prima uno Spaghettone Verrigni con vongole selvatiche totalmente fuori scala rispetto all’iconografia della pur sempre apprezzata spadellata marinara, perché cremoso di una mantecatura esasperata, voluminosa, sapida, sotto la spinta delle vongole veraci, rimaste ultimo baluardo di consistenza, giacché lo spaghetto meriterebbe un’ulteriore chiodatura in cottura, tre secondi, proprio per contrastare con più forza quella magistrale salsa d’amido e acqua di mare.
Poi i Ravioli di ricotta, piselli e pecorino del pastore: qui si entra in una dimensione terricola, un primo approccio alla campagna, con echi di primavera e anni ottanta, di una potenza devastante, nel contrasto tra una sfoglia molto sottile, eterea e il pecorino ignorante e contadino. Non è che il prodromo all’Anatra di Challans alla cacciatora con spinaci e olive: fantastico il petto, che mette insieme croccantezza, morso e morbidezza, rimarchevole il fondo, non tiratissimo, ma degno alleato di un pane fatto in casa molto buono, come solo un pane fatto bene può essere. Potremmo essere a Cucuron o a Bonnieux, il mare c’è ma non si vede più, ne avverti solo il profumo di libertà. E rivivi certi grandi pranzi della domenica, fatti di cucina cucinata e gustosa, complessa e mai complicata, lontana da prestazionismi funambolici, anzi diretta, contaminata di verde e retroterra, elegante: lo testimoniano persino i piatti delle ultime due portate, non a caso un bellissimo servizio in porcellana, forse di Limoges, piccoli fiori e frutti sui bordi, in una istantanea di classicità.
Accade così che non sia necessario arrivare, come in quelle domeniche, col pacchetto delle paste dondolante appeso a un nastro dorato, perché appare una Millefoglie con crema chantilly di grande scuola: temi sia una montagna da scalare, invece il gioco di tostatura e dolcezza tra sfoglia, crema e caramello, si regge su livelli pressoché eterei, impalpabili, che non fai in tempo a preoccuparti che è già finita.
Un capolavoro. Tanto che a questo punto ti fidi ciecamente, finendo col compatire quei signori già in costume un po’ bianchicci, poveri e inappetenti, che nemmeno prenderebbero in considerazione il bellissimo Babà al rum, con crema e frutta di stagione: non ho metri di paragone assoluti, ma credo sinceramente si avvicini al podio per consistenza, arrendevolezza, equilibrio.
Si sta bene al Merlo, perché assapori e rivivi sensazioni famigliari, rituali, poco rielaborate, ma esaltate e aggiornate con maestria: in questo senso forse gioverebbe un servizio meno formale, un filo più partecipe, un grammo più entusiasta. Ma resta la sensazione di benessere, restano i prezzi civili e una carta dei vini molto ampia e ragionevole. Resta la cordialità toscana di Angelo Torcigliani. Resta una percettibile vena di romanticismo. Resta da dire una parola che mi ero riproposto di non scrivere, ma ormai il pezzo è finito, e la scrivo, perché s’era già capito, e tanto vale non girarci intorno: Francia, la parolina è Francia. Ecco, l’ho detto.
Il Merlo
Viale Sergio Bernardini
Lido di Camaiore