di Fabrizio Scarpato
Verde. E’ la prima cosa che noti della Slovenia. Pochi chilometri e, oltrepassati un trabiccolo da vecchia frontiera e il grigiore di casinò inariditi, arriva una campagna fitta di boschi, campi, vigneti. Poche case e qualche campanile appuntito: il tuo è quello di Vipava. Strade larghe, un parco, un supermercato e poca gente in giro, forse tutta ai tavolini di un bar sulla piazza: birra, spritz e vino bianco, al tramonto di un giorno caldo di fine primavera. Mi fermo davanti a un ponte di pietra a dorso di mulo, due arcate su un torrente limpido e fresco, sorvegliate da una torre dai muri screpolati, una finestra sdrucita e vecchie scritte raschiate via, i segni come di quadri rimossi dopo tanti anni. Se guardi bene leggi ancora Jugoslavia.
Verde. Come la stupenda galleria di alberi che porta al castello di Zemono, di fatto una villa del seicento in cima a una collina: porticati leggeri, veli, prati, pergolati e il sole che filtra tra alberi secolari. Immagini uomini e donne vestiti di lini bianchi che danzano piano, magari un po’ ubriachi, accaldati: qualcuno si siede sull’erba, beve un bicchiere, afferra una fetta di prosciutto, mentre una fisarmonica suona una piccola polka di Slavko Avsenik. Pri Lojzetu è sotto, nella pancia della villa, tre sale di sasso e roccia, un paio di colonne romaniche, forse bottino di qualche barbaro di Tracia con mire di conquista oltre la porta della valle dell’Isonzo.
Verde, o giù di lì, è la luce che una specie di piccola astronave venusiana proietta sul mio tavolo. Esile ma sufficiente, tre occhi al centro di una tavola linda, i goti di Murano per l’acqua, un sale prezioso, olio accattivante, bei bicchieri, il pane già spezzato a mano come di costume, un lungo cucchiaio di legno e un barattolo di crema di rafano dal sapore delicato, composto, suadente, piccante ma educato, sincero. Biglietto da visita, porta aperta di casa: e infatti si presenta Tomaz Kavcic, il cuoco, anche lui delicato, suadente, educato. E sincero, perché mette subito le carte in tavola, è il caso di dire, col suo benvenuto: crema, brunoise e polvere di asparagi su un foglio di acetato trasparente, qualche fogliolina di barbabietola essiccata, pane sbocconcellato all’asparago. Lo serve disegnando una specie di onda con un pettine, un prato arato da un contadino alticcio, accompagnato da un succo di barbabietola in una bottiglietta col tappo a leva: ti dice… scompagina, scompiglia, arraffa, col pane, con le dita, con la lingua, se vuoi, e bevi a garganella. Ecco, in quel preciso momento sai già come seguirà la tua cena, perché in quel gioco, peraltro molto buono, c’è tutto: il luogo, il cuoco, la terra, il divertimento, il sapore. Ah be’, credo non ci sia bisogno di sottolineare che il piatto è totalmente e inesorabilmente verde.
Il viaggio fino al cuore del verde inizia dal mare. Non prevede una tabella scritta, e nemmeno indicazioni del pedaggio. Si va a memoria, fidandosi delle dichiarazioni di intenti di Tomaz, della voce narrante di Flavia, delle folgorazioni autoctone proposte da Anze, il sommelier, e della cadenza silenziosamente e puntualmente coreografica del servizio di sala.
E già il mare si diverte a mescolare i colori primari sulle contaminazioni contadine di un piatto di Alici marinate, pane, pecorino, polvere di nero di seppia e emulsione d’olio all’arancia. Una fucilata degna di Pollock, freschezza, morso e sapidità come bocconi di un panino con formaggio e acciughe: una rete verde di germogli di grano riporta tutto a riva, una suggestione quasi lagunare, fino a incontrare il fiume che ti porta verso monte. Così ti invitano a bagnarti le mani in un acquario di pietre e acqua di torrente, una genialata pleonastica e vagamente animista che introduce a piccoli cubi di Trota affumicata, compatti e consistenti, adagiati su un sasso e contrappuntati da una maionese da urlo.
Di lato un finto Riso di sedano rapa, in una ciotola, spolverato di verde, rosso e giallo, che sono ortaggi, tra cui è certo il pomodoro, perché, per il resto, il cucchiaio fu più veloce della memoria. Suggestioni bucoliche anche nei profumi fruttati della ribolla, e altro, in un bicchiere di Burja Bela, nato lì sotto nella Vipavska Dolina. Ormai siamo in aperta campagna, nel verde di una primavera inoltrata: e nulla può un’impeccabile capasanta, rassegnata alla perdita del suo corallo, che diventa macchia acida e arancione su un nuovo prato arato, questa volta di formaggio stagionato, a coprire un fondo nero di seppia, con contrappunto di fiori di tarassaco.
E’ quasi estate e i profumi si fanno più intensi, i contrasti più vivi, smussati con straordinaria eleganza da un sorso materico e dorato dello Chardonnay Riserva di Bizjak. Poi ti sdrai sul prato e vagheggi una Frittata di uova e asparagi, in realtà una vellutata densa che nasconde al fondo ciccioli di pancetta croccante e un uovo poché, che si spacca inondando il prato di arancione.
Vegetale per vegetale il Sauvignon Cru Opoka di Simcic ha il pregio di una verticalità carsica e rocciosa che impedisce languori e inopportuni abbandoni. Lì accanto tra l’erbetta pascolano gli agnelli: la loro fine è l’ennesima onda arata, questa volta di carote viola. Piatto buono ma interlocutorio, lo spazzi via con l’aiuto di un paio di fette di mela verde e coi tannini fitti, giovani e sgrassanti del Pinot Noir di Tilia.
Così alla fine si entra nel bosco. Hai contato un po’ troppi asparagi lungo la via, forse ti sei stancato di quell’impiattamento a righe pettinate, certo avresti gradito un filo di acidità in più, o magari una pasta, anche ripiena, comunque dai toni ruvidi che interrompesse quella atmosfera idilliaca, dolcemente e vagamente naif, nella quale ti sei adagiato sin da principio. Ma un ruggito, finalmente, scuote le fronde degli alberi: guancia d’orso, lardo, mais e germogli di rapa rossa, su una pietra ardente, tra le foglie. Una zampata animalesca, afrori di bacche e radici, mitigati da una cottura lunga secoli, con esiti quasi dolci, come di cioccolato, nemmen tanto fondente. Cerchi ancora acidità e ti soccorre una Barbera di qua, una scommessa da seicento bottiglie, piena di ribes e piccoli frutti acerbi e di una freschezza devastante. Krapez si chiama, e ne ringrazi.
A conclusione del sacrifizio del re del bosco, arrivano druidi e ancelle, e da rami odorosi di ginepro si sprigiona un fumo denso che inonda il tavolo, lambendo il mio bicchiere Martini con gelato al limone e gel di gin e tonica. E’ il gioco, ormai noto e telefonato, del rito sciamanico del gin tonic, ma in fondo è solo un prodromo: passa una sfera di cioccolato non indimenticabile che vuol ricordare le gubane e le putizze a cavallo del confine del Collio, passa una coloratissima minestra di mille frutti e verdure con gelato alla crema e basilico disidratato (riconosci sedano, cetriolo, passion fruit, fragole… per le altre chiedere) e arriva un gin vero, ideato da Tomaz Kavcic, puro e profumato, cristallino, come acqua di fonte. Si chiama Monologue, ed è fantastico.
Da bere liscio, da guardare in trasparenza, da urtare con la Fever Tree il meno possibile. Lo sguardo perso tra riflessi verdognoli, realizzo che quel gin è come una mappa che racconta il viaggio appena fatto: mette insieme lo iodio e le bacche, i fiori e i boschi, il dolce e l’aspro. Unisco i punti, disegno un’immagine che somiglia al profilo di questo lembo di Slovenia, e sono contento.
Nella notte attraverso un confine divenuto inesistente, un po’ come quello tra gioco e autenticità, tra eleganza e tradizione, tra senso di appartenenza e modernità, che ho più volte attraversato, quasi senza accorgermene, al Pri Lojzetu di Tomaz Kavcic. Il fatto è che, almeno a tavola, un confine ci deve essere, ed è quello identitario, e stasera, dopo un lungo giro, alla fine è stato evidente, persino coinvolgente, seppure molto labile. All’improvviso coltivo il desiderio di tornare, qui o altrove. Una vaga, esile speranza. Verde.
Gostilna Pri Lojzetu
Dvorec Zemono
Vipava