di Fabrizio Scarpato
Stewart Brand. Fino al giorno di Pasqua non sapevo chi fosse quest’uomo. Non che fosse preoccupante: dormivo sonni tranquilli, diciamo. Ma quel giorno sono andato a pranzo al Filippo MUD e poi mi sono imbattuto in un articolo di Baricco, che aveva a che fare con la rivoluzione digitale, nel senso di comprenderne i segnali, di intercettarne le concatenazioni, di disegnare una mappa di paletti con cui orientarsi.
Mi rendo conto che a prima vista il collegamento possa apparire quantomeno fantasioso (e mai aggettivo, a pensarci bene, fu più appropriato), anche perché Stewart Brand credo non abbia mai passeggiato per Pietrasanta, tantomeno sia stato visto passare di là dalle grandi vetrate a quadri del MUD, vestito di jeans a zampa d’elefante e giacca di daino con le frange, come John Voigt in Un uomo da marciapiede, nonostante, sostando tra i «fangosi» velluti verde muschio e viola melanzana del bar, l’orizzonte della strada lì fuori ricordi nettamente una qualunque Prince St. o Mercer St., dalle parti di SoHo. Perché il mood del MUD è certamente metropolitano: un qualcosa di postindustriale, mattoni al nero, acciaio, tendaggi spessi, il bar all’ingresso, la cucina teatrale contornata dai fari del passe, una luce naturale di taglio che stacca silouhette nere sui vetri, e luci artificiali a filo, intime. Solo un piccolo spazio esterno, uno stretto giardino delimitato da un muro di mattoni rossi contro i quali spicca una statua di Mitoraj, ci riporta qui, nella Versilia più interna e a una sensibilità sobria ed elegante per tutto ciò che è bello. Insomma Stewart Brand non abita più qui.
No, è stata una frase a farmi pensare: una frase del buon vecchio Stewart, che in realtà è una specie di profeta mezzo hyppie della Silicon Valley. Dice più o meno così: “Puoi cercare di cambiare la testa alla gente, ma perderai solo il tuo tempo. Quello che puoi fare è cambiare gli strumenti che usa. Fallo e cambierai la civiltà”. Due cose: è vero che nel nostro caso, cambiare la civiltà è spararla un po’ grossa, insomma fate pure la tara; la seconda che si dice spesso di non andare per ristoranti nelle feste comandate, tanto meno per fare recensioni: è difficile toglierlo dalla testa della gente, ma mica certi ristoratori sono come Tafazzi, per dire. E poi, per quel che vale, io non scrivo recensioni. Mettetela come vi pare, ma a Filippo Di Bartola quella frase potrebbe calzare a pennello: se in un certo periodo di cucina creativa spinta, uno riesce a trasformare delle semplici quanto fantastiche polpettine al sugo in un oggetto del desiderio, be’ significa che sa intuire nuovi punti di vista, nuovi comportamenti, nuovi gesti. E oggi inventa il MUD, dove il bar si fonde con la cucina, dove scegli gli ingredienti, dove giochi, dove stuzzichi la memoria, ritagliandoti un ruolo da protagonista, nei modi, nei tempi: o almeno ne hai l’illusione. Strumenti che cambiano, insomma. Lo fanno anche altri, lo so: ma siamo in quella situazione per cui su dieci, cinque copiano, tre lo fanno bene, due inventano. E Filippo è uno di quei due.
Il nostro amico Stewart, ancora lui, sosteneva che in un gioco elettronico, Spacewar, si poteva leggere il futuro (cose dei primi anni sessanta, roba che Pong, quello delle racchette che andavano su e giù, era avanguardia). Un gioco: allora cosa pensare quando Filippo ti apparecchia con tovaglia a quadretti e un cestino da pic-nic da cui escono cialde di panzanella, un tortino fave e pecorino, cannoli di ricotta piccante, pane e panelle, polpo e patate come bulbi in vaso di terra, un centrifugato di sedano e mela, burro, posate e bicchieri di carta?
Niente, non pensi niente: continui a giocare, e per bypassare quel pizzico di didascalico, ci metti sopra un Negroni tagliato col Mezcal, il preferito da Stefania Sandrelli, che se devo fare un pic-nic mi piacerebbe farlo con lei, magari viaggiando nel tempo, se ne avessi la chiave, e perché tanto si scherza. Eppure il filo del gioco continua a dipanarsi anche nei piatti, equilibrati millimetricamente nei contrasti, nel caldo e freddo, nel dolce e acido. Provare la Terrina d’uovo, pane al ramerino e cipolla di Tropea, in gelato e in agrodolce, ma anche la perfetta Triglia croccante con chutney di ciliegie, per non dire di un Risotto che sembra disegnato da un bambino, occhi, naso, bocca e tutti i colori al posto giusto, più un’infinità di sensazioni che si rincorrono, l’una ad esaltare l’altra: il liscio degli scampi, il croccante del riso, l’agro del pompelmo e ancora il balsamico di una riduzione al ginepro, nascosta tra un chicco e l’altro.
Diego Poli, il cuoco, è nato come pasticciere e il concetto di precisione, di misura, fa parte del suo mestiere, così come la confidenza con la dolcezza, il che spiegherebbe l’evidente necessità di coltivare certe stilettate acide. Anche lui sottolinea l’aspetto ludico, ma, diciamo, senza effetti speciali, rigettando il gioco fine a se stesso, pur correndo il rischio di lasciar per strada qualche stilla di incisività (e ti credo, era o non era Pasqua?). Insomma non si vuole stupire, piuttosto rasserenare, coinvolgere, anche con impiattamenti ordinatamente disordinati, spontanei, eppure raffinati, in altre parole contemporanei, che per fortuna ci esentano quasi completamente, nonostante sia primavera, dall’onnipresenza calligrafica e ruffiana di foglioline e fiorellini multicolori.
E poi ci sono i ricordi, come quegli Gnocchi bitorzoluti e malfatti, quasi quanto quelli che ci lasciavano fare da bambini, eppure buonissimi, nappati di una salsa concentrata alla mandorla. Viene in soccorso la sapidità dei calamaretti spillo, che forse sono pochi, o non abbastanza: li cerchi, invano. Ma nel contempo prendi un fragrante pezzo di pane di patate e inzuppi, assorbi quel fondo dolce e ne fai boccone strepitoso, amalgamato con l’amaro della crosta abbrustolita. Ti scopri a leccarti le dita, e forse sai perché. Ti ricomponi con un Nodino d’agnello di grande tecnica, contrappuntato dallo iodio dei ricci di mare, secondo un accostamento sempre più convincente negli ultimi tempi, e con il dessert, una Crema di latte, farro e mirtilli, leggero, vagamente orientale, ricco di contrasti, in linea con il filo conduttore del pranzo e in tono anche cromatico con l’ambiente. Elegante.
Come Filippo, d’altronde, che gira tra i tavoli, intrattiene importanti ospiti inattesi, si concede qualche confidenza, sempre un passo indietro rispetto al limite che definisce lo stile, il suo stile: ascolta e guarda, attento ai dettagli, gli occhi vivi che forse individuano nuovi strumenti, abbozzano nuove idee, sognano nuove vie. “Stay hungry, stay foolish…”, la famosa frase che accompagna il mito di Steve Jobs: anche Filippo veste spesso di nero. Ma contrariamente a quanto si crede non era farina del sacco di mr. Apple: per sua stessa ammissione, non era sua. La disse Stewart Brand, proprio lui.
Crediti : Alessandro Baricco, Ecco I Barbari 2, si intitola The Game, La Repubblica
Filippo MUD
via Padre E. Barsanti
Pietrasanta