Menu Degustazione / Clandestino Susci Bar di Moreno Cedroni, Portonovo (AN)

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato
Clandestino, finestra

di Fabrizio Scarpato

Al Clandestino Susci Bar sono stato bene…
Al Clandestino Susci Bar sono stato bene…
Al Clandestino Susci Bar sono stato bene…
Non sono pazzo come Jack Torrance (forse), ma confesso di essermi ritrovato più volte a domandarmi come mi fossi trovato al Clandestino, e ogni volta, attraverso percorsi un po’ contorti, ho finito col tranquillizzarmi che in fondo, come il mattino che ha l’oro in bocca, anche a Portonovo sono stato bene.
Sono stato solo uno tra i tanti che questa estate hanno postato più o meno gli stessi instagrammi da quella baia sul Conero, quasi sempre con un’estasi sottintesa e un dito medio proteso a perculare il prossimo (io so’ io e voi…): una finestra aperta sul mare, oppure un bicchiere blu con accanto il piattino con le lunghe posate donchisciottesche (a cosa servono?), magari bagnanti in mutande, lì sotto, a far da sfondo a un verdeggiante bicchere di verdicchio, o ancora la baracchina vista da fuori, spesso dal basso, con l’inconveniente di farla apparire più un laboratorio di ricerche oceanografiche che un ristorante di grido.
Al Clandestino Susci Bar sono stato bene.
Arrivo presto per cena, già fissata ad orari altoatesini, però troppo tardi per un aperitivo, e mi accomodo al tavolo nella sala calda e deserta per quell’aperitivo che manco per sogno consumerò allo stesso tavolo della cena: allora potrei alzarmi per tornarmene fuori e fare un giro (anzi, perché sono entrato?), ma mi porgono il menu dell’aperitivo (divertente una cifra, sarà mica il bar la mission?), che io a quel punto non voglio più, così arriva il menu alla carta (prezzi civili) e mi trovo a cenare all’ora in cui cenano non i tirolesi, ma i nonni dei tirolesi. Un loop insomma, che in effetti Jack Torrance mi avrebbe dato una pacca sulla spalla (ehi amico, benvenuto nel club…), paturnie come piovesse, ma la confortevole certezza di un servizio attento, paziente (molto), sorridente, sollecito, preciso, giovane e di alto livello.
Al Clandestino… siamo seduti su una panca bianca, di fronte a una tovaglia bianca, un bicchiere cobalto e sullo sfondo una serie di finestre azzurre, aperte sul mare blu. Manca qualcosa. Via via ogni finestra si anima di coppie per lo più giovani che a loro volta guardano fuori dandomi le spalle (che spesso se morbide e abbronzate sono anche un bel vedere). Coppie, abiti, nuvole e bisbigli contornati da una finestra: tanti quadri di Hopper o Magritte, complici le bellissime lampade che man mano arrivano ai tavoli. E’ in quel momento che mi rendo conto che manca il tramonto. Insomma, cosa caspita guardiamo tutti da quelle finestre? D’accordo, distanziamento non fa rima con incastri da geometria euclidea, ma laggiù mancano i colori. Non è questione di sdilinquimenti romantici, mancano le sfumature, manca il mutare della luce la sera. Laggiù sembra tutto piatto, monocromatico, bello ma riflesso: speri nel passaggio di un Rex felliniano a movimentare l’orizzonte. Per fortuna ci pensano i piatti, alcuni, non tutti, come l’Orata, salsa tzatziki, acqua di cetriolo fermentato e mela: tanto verde punteggiato di rosso, sapido, fresco e iodato, che sembra davvero un fondale di posidonie delle mie parti, e non per niente forse lo chiamano Poseidone, il piatto intendo.

O ancora il contrasto tra carote e tarassaco degli Spinosini al granchio reale, un po’ dolci nell’insieme, magari non proprio al chiodo e senza troppa fantasia chiamati Soffio di mare e Soffio di terra, per non dire della spirale di maionese di rapa rossa nella Lasagnetta al salmone (per fortuna in carta è scritto proprio così) che in effetti, al di là della fluorescente intenzione pop, racchiude certi lampi rosei dei tramonti tirrenici, con un gioco di profumi agrumati volti a mitigarne la svenevolezza.

Superate certe timide tavolozze, ti arrovella l’indovinello di Murakami, che qui è uno Sgombro marinato nel miso con purè al lime: selvatico e arrostito alquanto, scuro come un legno della tundra nordica, e zac… un norwegian wood ci calza a pennello (ho vinto qualcheccosa?).

Non chiedetemi di Fillide e Acamante, che poi è un impeccabile Tonno fritto, poco cotto, in panure di pistacchi e salsa di mandorle, non fosse altro perché sconfina fuori tema, zompando direttamente dalle parti di Stromboli, rammentando qualcosa di vulcanico, in senso geologico, più che mentale.

Al Clandestino Susci Bar sono stato bene.
Insomma Moreno Cedroni i colori li sa tratteggiare, anche se ha dato il meglio coi  propri grembiali, quegli stessi puntualmente indossati dai tre cuochi che alle mie spalle danzano in uno spazio esiguo come un sommergibile per ricerche oceaniche, appunto. Sono l’unico motivo, i tre cuochi o i loro grembiali, per cui una signorina di bianco vestita si volta spesso verso di me, anche se solo per un attimo, perché poi tutti hanno necessità di continuare a guardare quel che resta del mare. Sembriamo il tenente Drogo del Deserto dei Tartari: guardiamo nel vuoto aspettando che arrivino i barbari. Sì è vero, c’è stato quel cetriolo fermentato e anche quelle foglie di senape, ricordo una salsa di buccia d’arance e una polvere di yuzu, o piuttosto il profumo pungente dello zenzero: hanno mosso refoli di adrenalina, che non è arrivata al cuore, movimenti di truppe fantomatici, nuvole di polvere che avrebbero potuto annunciare sconquassi, svanite nello spazio di un respiro. Barbari, scarti laterali inattesi, cavalcate folli: non ho veduto nulla di tutto questo. Li ho aspettati, li ho cercati scrutando l’orizzonte piatto: come quella ragazza un po’ annoiata cui spesso scendeva la spallina del vestito. Poggiava il mento sul palmo della mano, e sembrava sospirare, soffermandosi su quell’ultima linea di mare blu senza luna: forse come me, e certo per altre vie, sperava di provare una traccia di pelle d’oca, un brivido. Finché alla fine ho incontrato Gea, la madre Terra, e la sua acqua di foglie di fico in cui immergere un candido Gelato al miele con caramello di sesamo: l’invasore era inopinatamente a ridosso degli scogli, sotto quella maledetta finestra azzurra avvertivo il clangore delle àncore barbariche tra scintillar di scimitarre.

Nessun inganno (la foglia di fico visti i precedenti poteva insinuare qualche ragionevole dubbio), ma nulla più di un’illusione, in realtà poco più di una scorribanda. Tuttavia ho tirato forte il fiato, pervaso da un sentimento bucolico, inondato da effluvi di clorofilla e confortato dalla constatazione definitiva che la dolcezza non esiste, semplicemente perché lo diceva una Dea (a proposito, la Dea Atalanta stava vincendo, salvo poi apprendere che anche quella era stata un’illusione).
Poteva bastare. In piena crisi epistemofobica, potevo abbandonare i contrafforti di quella Fortezza Bastiani dipinta d’azzurro, coi cassetti della memoria praticamente vuoti e certo dei miei dubbi, che alla fine non fa mai male. Perché se davvero quel che conta è il viaggio, e non la meta, allora era valsa la pena sentirsi abbagliati dalle tenebre, arricchiti di pesce povero, imbiancati di colori e pitturati di verdicchio (di Matelica), percorrendo il confine sdrucciolevole che separa (o magari unisce) la realtà dalla fantasia, l’oggettività dalle aspettative, il mito dall’arida cronaca, la trattoria dal ristorante, il nuovo dal già visto, il verticale dall’orizzontale, la subacquea dal surf, il vorrei dal vogliono, la sottrazione dall’addizione, il freno dall’acceleratore, la passione dalla routine, un racconto dalle sue parentesi, il magari fossero tutti così dalla fuffa. Ma non chiedermi se sono felice.
al Clandestino Susci Bar sono stato bene…
al Clandestino Susci Bar sono stato bene…
al Clandestino Susci Bar sono stato bene


Exit mobile version