Menu Degustazione /Amor, Corso Como 10, Milano. La Pizza di Alajmo

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato
Amor Corso Como

di Fabrizio Scarpato

Amor, la pizza di Alajmo. Nella alluvione di resoconti redazionali e comunicati stampa abbattutasi sui provider in un sol giorno in occasione della nuova avventura dei fratelli Alajmo a Milano, nel rigonfiare tempestoso delle acque, tra i millemila tagli, ritagli e frattaglie partoriti con zelante dovizia di particolari, guarda caso sempre gli stessi, tre parole affioravano, baldanzose e suggestive, in sulla superficie dei marosi, resa inopinatamente perigliosa da un copia-incolla furioso e indefesso: luce, vapore, maschere.
Luce: ce n’è in abbondanza, pure troppa in questa mattina di sole. Il bianco delle pareti rimbalza un’atmosfera non propriamente calda e raccolta, in una deriva da forno autostradale che non rende giustizia forse alle intenzioni. Nemmeno il bel legno dei grandi tavoli conviviali riesce a mitigare quel senso di frastuono da candore, tanto che i tre o quattro tavolini del piccolo dehors, ricavato all’interno del celeberrimo cortile di Corso Como 10, risultano i più appetibili e ricercati, in un condivisibile desiderio di intimità che nella sala principale, semivuota, viene evidentemente meno. Sulla mega lavagna elettronica (si dice così?) dietro al bancone, ti aspetteresti di trovare Quick-lo-spuntino-dell’automobilista o un più confortevole Camogli. Non aiuta nemmeno quella vetrinetta con parte dei prodotti in mostra, mentre il grande monitor che racconta dei fratelli Alajmo se ne sta defilato, in qualche modo negletto, quasi quanto il display che dovrebbe dettare i tempi del servizio. In realtà si ordina al banco ma c’è il servizio al tavolo, pur non essendo previsto, peraltro svolto con gentilezza e applicazione encomiabili. E poi ci sono le campane dorate, che sarebbero i forni a vapore in cui si cuociono le pizze: sono bellissime, ma forse per motivi tecnico-pratici sono confinate di lato accanto all’ingresso, mentre Philippe Starck, mi permetto di dirlo per quei tre o quattro oggetti suoi che ho in casa da trent’anni, avrebbe potuto costruire il locale proprio intorno a quei forni che scendono dal cielo e al cielo risalgono svaporando magicamente, creando un focus suggestivo attorno al quale disporre i tavoli con luci dedicate e circoscritte.
Il proverbiale gusto estetico di casa Alajmo avrebbe fatto pensare a una sosta di maggior fascino: fast, d’accordo, ma un po’ meno casual. Misteri della comunicazione, che mostra evidentemente qualche pecca se l’ennesimo esemplare di milanese imbruttito dopo aver vagato per il Corso, lancia una breve occhiata e se ne va, persuaso che lì tutto sia precotto e riscaldato… Lo esclama a viva voce: nessuno sembra farci caso. Senza dubbio bisogna fare qualcosa, per il bene nostro e di quel signore, intendo.
Vapore: le pizze sbucano candide attraverso il fumo dopo il sollevamento della campana dorata, una sorta di macchina teatrale, di marchingegno degno del mago Copperfield, anche perché nessuno apparentemente ammacca e spiana panetti. Vengono concepite e servite a singoli spicchi, farciti in poche varianti. Alte poco più di un dito, colpiscono per l’alveolatura fine e regolare, e per una sorta di impermeabilità rispetto al topping, con evidenti vantaggi sia estetici che pratici. Potrà sembrare bizzarro, ma sono gli splendidi piatti dipinti di blu che catturano l’occhio e forse riescono anche a riscaldare e avvicinare al cuore una preparazione che di per sé appare vagamente asettica, distante, per colore e consistenza. Le farciture sono generose, il coltello passa con precisione nella pasta senza sbavature, senza briciole, l’aspetto bionico potrebbe tradire un che di salutistico, per non dire di esotico, pensando al pane arabo o ai buns cinesi, del tipo assaggiato al vecchio Momofuku Ma Peche di New York City. Il morso è neutro, eppur fragrante, fine, tanto da convincerti che il tutto sia stato pensato per un mercato internazionale, magari mediorientale. Alla fine hai come la necessità di trasgredire, vengono meno la forza ancestrale della pizza napoletana, ma anche l’abitudine alla reazione di Maillard, al profumo del lievito, e non è per l’antica diatriba ormai superata tra scuole diverse, è problema proprio di sensazioni palatali: chorizo, acciuga e zafferano non incidono nella Stracciatella, così come l’Amatriciana non si discosta dalla Margherita pur nella soddisfazione del morso.
Va meglio con la freschezza ricca di contrasti tra semi e verdure di stagione della Vegana, cui giova una certa aromaticità dell’impasto a base di riso venere, e con la sinuosità quasi pornografica, opulenta e scoppiettante, della pizza dolce con Crema Eccezionale.
La non pervenuta essenzialità dei Masscalzoni, accettabili, e dei Masscalzini, da rivedere, non fa che confermare l’ineluttabilità e la centralità della parola «vapore» in quest’angolo privilegiato di Milano, quasi per mantenere un basso profilo, un approccio lieve, leggero, gentile, quale sembra essere, da fuori, la personalità di Massimiliano Alajmo.
Impressioni, che non allontanano la sensazione che il «vapore» sia una specie di salvataggio in corner, in una partita così così, come lo Spritz a base di Barbaresco Chinato e Tonica, per un sorso che difficilmente potrebbe contrastare il logorio della vita moderna.
Maschere: sono ovunque, grandi, piccole, enormi, dentro, fuori, retroilluminate, collegate a fili colorati, sui piatti, sui menu, sulle buste delle posate. Ovunque. Maschere veneziane, si è detto: il naso adunco di Pantalone a rappresentare il Veneto, Venezia, l’acqua, la scuola di panificazione veneta, ancora il vapore, gli Alajmo e in qualche modo anche Starck che alla Laguna è da tempo legato. Maschere dorate, non nere: niente Pulcinella, più nobiltà che miseria. Ma quelle maschere hanno gli occhi, e attraverso gli occhi espressioni diverse: sognanti, malandrine, allegre, provocatorie, rassegnate. Anonymous direi proprio di no, ma per qualche contorto percorso mentale potrebbero ricordare quelle somiglianti a Dalì indossate dai rapinatori della Casa di Carta: storie di appartenenza e conflitto, forse uno sberleffo alle contrapposizioni nel mondo della pizza, forse un’irriverente rivendicazione, magari un ghigno indelicato di indipendenza e rivolta rispetto alla pizza come la conosciamo, come la vogliamo, quella che siamo abituati ad amare. Forse nulla di tutto questo, per manifesta inferiorità. Perché la pizza è in sé significato e significante, è un buco nero nel quale ogni disco o spicchio di pasta lievitata viene irrimediabilmente inghiottito, intrappolato, piallato, triturato dalla forza gravitazionale della storia, o sputato fuori, nell’oscurità dello spazio infinito: anche se lo fai bianco, anche se lo fai giallo, anche se lo fai nero. Niente di nuovo. Sarà per questo che a ben guardare, e forse solo ai miei occhi, diverse di quelle maschere sembrano assomigliare a Totò: forse un inconsapevole omaggio, una ciambella di salvataggio, magari la necessità di un sorriso ironico, di un’alzata di spalle complice e disincantata, ma anche il riconoscimento di una certa eleganza, in un mare di bazzecole, quisquilie e pinzillacchere. Ma mi faccia il piacere…

Amor la pizza di Alajmo

Corso Como 10
Milano

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