di Raffaele Mosca
Si può parlare d’arte e di cucina contemporaneamente? Si possono accostare piatti ed opere senza forzare le connessioni o scadere nel banale? Se lo chiedono Mario Uliassi e Giovanni Gaggia, artista pesarese, in un testo che inaugura un nuovo filone della letteratura di settore. “Mario Uliassi incontra Giovanni Gaggia”, edito da Maretti, è a tutti gli effetti un libro d’arte che parla di cucina: ha l’impostazione grafica accattivante, visivamente intensa di un’antologia dedicata a un pittore o ad uno scultore, quasi a voler rappresentare lo chef come un artista contemporaneo.
“ Un artista che non è solo un artista, un cuoco che non è solo un cuoco. Eccoli qui, Gaggia e Uliassi. Cento cose che li avvicinano e che rendono sensatissimo leggerli assieme in un libro – spiega Massimiliano Tonelli, gastronomo e critico d’arte, nella prefazione – Entrambi hanno deciso di andare oltre, hanno puntato ad allargare, a coinvolgersi e farsi connettori.” Eppure Uliassi, che ha concepito questo progetto nell’arco di tre anni, non si è mai immedesimato nella figura dell’artista. “ Ho sempre cucinato per il solo piacere di soddisfare i clienti. Non ho mai avuto velleità d’altro genere”ci spiega. Il primo a farlo riflettere sulle analogie tra i due ruoli è stato Ferran Adrià, il Salvador Dalì della gastronomia, che, con la sua cucina molecolare, ha evidenziato il ruolo dell’alta gastronomia come mezzo per recapitare messaggi che vanno ben aldilà del piacere sensoriale. “ Da lì ho capito che i piatti sono opere d’arte, ma l’arte non è solo nell’estetica o nella ricerca delle avanguardie. E’ qualcosa che scaturisce dall’unione di quattro elementi: convivio, ambienti che crei bellezza, cuoco che produca un piacere straordinario al palato, prodotto che abbia un significato”.
Più tardi, nel corso del pranzo stampa, lo chef racconta di quando un’orchestra musicò un suo menu per una performance a Identità Golose: “ per evocare il freddo utilizzammo il suono metallico dei piatti”. Ecco, penso che quest’analogia renda l’idea della potenza evocativa dell’haute cuisine: della capacità di un grande piatto di trasformarsi in un’opera concettuale che sintetizza una sensazione, un sentimento, una visione, qualcosa di profondo ed intangibile. Su questo principio si basa l’accostamento tra i piatti e le installazioni: per fare un esempio, una rete da pesca abbandonata sulla spiaggia, a simboleggiare la scomparsa dei piccoli pescatori, fa il paio con le cannocchie del venerdì, appoggiate su di una salsa ottenuta dalla spremitura della testa, che evocano la stessa forza ancestrale e fungono da monito contro l’estinzione di una tradizione risucchiata dal vortice della globalizzazione.
Quale genere d’arte poteva abbinarsi meglio al cibo della performance art, di cui Gaggia è un esponente? “Ciò che ci accomuna è l’istantaneità” spiega l’artista. Una performance artistica è, per sua natura, qualcosa di finito, che si distrugge nel momento in cui si compie, sfidando il concetto dell’ immortalità, che, per molti secoli, è stato alla base dell’arte. Della performance rimane un fotogramma, un racconto attraverso il quale l’osservatore può ricostruirla, così come del piatto cucinato – e poi distrutto attraverso la masticazione – rimane solamente l’immagine, la ricetta, e nessuna replica sarà esattamente uguale alla versione immortalata. Il menu degustazione di un grande chef è performance art, ma i performer sono due: chi sta dietro ai fornelli e chi completa l’opera ingerendola.
Di tutto questo si poteva parlare in un museo, ma, nel mondo della gastronomia, le idee vanno sempre di pari passo con l’atto pratico. Per questo motivo Uliassi e Gaggia hanno deciso di chiamare in causa una terza figura: Jacopo Ticchi, chef della trattoria Da Lucio di Rimini. Ticchi è un avanguardista puro, un maestro della frollatura del pesce, tecnica molto diffusa in Giappone ed Australia che noi italiani fatichiamo ancora a comprendere. L’arte sfata spesso i preconcetti, e, in quest’ottica, lo chef riminese sta indossando i panni dell’artista d’avanguardia che cerca, passo dopo passo, di sovvertire il mito della “freschezza del pescato” e di proporre un altro modo di concepire i prodotti ittici. Piatti come il muggine crudo frollato 6-8 giorni con tuorlo affumicato o il riso alla brace con testa di spigola, borragine e salsa con il suo fegato stanno alla cucina di mare tradizionale come un quadro di Van Gogh sta alla pittura accademica: i processi innescati dalla frollatura cambiano la consistenza delle carni e concentrano il sapore, dando vita a sensazioni intense, sconvolgenti, delle pennellate di sapore che rendono un’immagine del mare meno edulcorata, più suggestiva. Ticci, peraltro, rilascerà a breve la sua personale antologia: “Oltre la frollatura”, anche questa edita da Maretti. Abbiamo sfogliato il testo in anteprima e abbiamo individuato un fil rouge che lo connette a quello di Uliassi e Gaggia. Emerge chiara e forte, da entrambe i libri, la volontà di portare il discorso sulla cucina su di un piano più elevato rispetto a quello solito, di trattare la gastronomia come un’ottava arte che sintetizza messaggi astratti, immateriali, attraverso l’esperienza sensoriale derivante dalla trasformazione della materia organica.
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