di Fabrizio Scarpato
Quello che le donne non dicono traspare nei momenti in cui, senza motivo apparente, fiutano qualcosa nell’aria, qualcosa che ci sfugge: un movimento delle dita, uno scarto dello sguardo, un silenzio improvviso. Sensibilità, presentimenti: di donne, di madri, di amanti.
Quello che le donne non dicono corre sul filo dell’essere indefinito presente, quando se ne stanno appoggiate a un albero in attesa delle streghe notturne, sul limite della sera che si fa notte, della luce che diventa buio, nell’attimo, di verità senza ritorno, della belùa.
Quello che le donne non dicono è la consapevolezza del passaggio tra una fine e un principio, è il senso innato della creazione, della nascita, del ricominciare: solo loro ne hanno la forza, solo loro, in silenzio, riescono ad avere una qualche familiarità col futuro.
Per questo spetta alle donne, la sera della Vigilia, preparare il brodo di ossetti. E’ quel che resta del maiale dopo un anno, quel che avanza in fondo al mastio: la miseria, il fondo del fondo, gli “ossimadidi del sale e del gemizio del grasso”, percolato dal lardo, dalle pancette, da coppe, salami e prosciutti. Poi nient’altro, e dove c’è il niente, ecco le donne. Introibo, il rito propiziatorio tutto femminile della nascita, del mistero di come, dal nulla, solo una donna possa rendere possibile un’esistenza. Santificare il niente, annunciando la vita.
Una gravidanza segna il tempo nel distretto della Garfagnana: nove mesi di silenzi, di libri e carezze d’amore, quattro stagioni che si sovrappongono alle stagioni del secolo e delle persone, in un incrocio epico di sogni e passioni, di tragedie collettive e personali, sprofondi di esistenze, da cui emergono figure femminili indimenticabili. Ecco la ‘Nita che avvertiamo bellissima immersa nei suoi libri, la Duse che suona la fisarmonica, battendo gli scarponi, a cavalcioni del parapetto del ponte, la Santarellina che frigge fish and chips ballando il tango, la Marta che dorme con gli agnellini, la Malvina, la Melina e le altre. Eccole mentre salgono sorridenti e gioiosamente complici verso Orto di Donna, gli zaini sulle spalle, pane di patate e formaggette, i biscotti appena fatti nella scatola di latta dei ricordi da ricordare. Perché un ricordo è vero solo se è un ricordo ricordo, così come un fatto, che è concreto se è un fatto fatto. Anche morire non è semplice, morire morire è un’altra cosa.
Gli uomini stanno di lato, son quelli che allevano il maiale, che lo scannano, lo macellano, lo insaccano, son quelli che lo mangiano o lo vendono, ma che, alla fine, degli ossetti non sanno che farsene, proprio non lo sanno. Gli uomini possono solo prendere le misure, vivere nella speranza di trovare un giorno la misura, un’illusione, forse, come il mare greco dell’Iliade. Tragedie. Gli uomini possono spostare le montagne, deviare i corsi d’acqua, tagliare la pietra angolare del mondo, ma restano confinati alla chimica inorganica, alla materia inanimata. Le donne sanno di biochimica, trattano il carbonio e l’idrogeno, mettono insieme molecole. Questione di vita. Tuttavia sarà miracoloso e bellissimo cogliere il senso della misura, avvertire la giusta corrispondenza sfiorando con la punta delle dita la schiena della tua donna mentre scende il sentiero del bosco, sarà magìa trovare la giusta distanza mentre la guidi in un passo di tango. Misura d’amore: il problema è saper ballare.
Gesti delicati, come di foglie in acquerello, che impreziosiscono una terra di guerrieri, di uomini che ancora oggi vanno in giro col pennato, il falcetto, legato alla cintura; una terra ferina inzuppata di sangue, di battaglie, di stragi, rustica anche nel cibo, nel sangue del biroldo, retaggio di disgustosi appetiti, nella polenta dineccio, nella zuppa di farro delle fébrue, nel brodo di tortelli, consolazione dei parenti dei morti, per la certezza che nel distretto ci sarà sempre qualcuno in grado di prepararlo, e poi nel vino, lo “striscino”, che rasenta la velenosità, e solo da poco tempo, forse, ha trovato esso stesso una nuova misura per farsi amare.
Le Apuane le vedi dal mare, spesso inciprignite e gravide di nubi, nere di nembi: un diaframma tra la valle e il mare, tra il buio e la luce, per niente accondiscendenti. Per questo forse, quando le cammini avverti un senso di inquietudine, per questo più che il panorama prevale la crudezza degli sventramenti delle cave di marmo, degli sfasciumi delle bombe, dei ghiaioni sui pendii. Appaiono bizzarre all’altezza della Versilia nelle forme del Procinto e del Forato, infide sulle creste delle Panie, inospitali sui dirupi della Roccandagia, maestose nei denti di squalo del Pizzo d’Uccello, del Grondilice e del Pisanino. Eppure, incastonate tra le rocce arcigne, spuntano, come oasi, la conca prativa di Orto di Donna, profumata di timo, i capanni pastorizi di Campocatino, i prati di narcisi dell’Argegna, i boschi dell’Orecchiella: pennellate di colore tra paesi dai nomi puntuti come elettrocardiogrammi, Ugliancaldo, Minucciano, Gorfigliano, Careggine, Gramolazzo, nomi antichi, paesi sommersi che saltuariamente riemergono, fino al buio, freddo e profondo, delle Grotte del Vento di Fornovolasco, cartavetrate solo a pronunciarle, che scendono giù nel ventre della terra. Il ventre, appunto.
Si cammina tanto, ansimando e respirando lungo i sentieri boschivi e tra le case della valle, s’avverte l’afa e si patisce il freddo, ci si bea del profumo del pane caldo e dell’acidità delle mele selvatiche, alla fine perduti in una scrittura fitta, densa, dolcemente ruvida, tra silenzi e sfoghi, in una confessione priva di dialoghi, quasi a metter su carta i pensieri, di getto. Lettura fisica, pagine da toccare, immagini da accarezzare, non di rado attraversate da lampi di poesia.
La gravidanza di una donna, la gravidanza di una terra. Promesse di vita: dopo la devastazione, dopo la compassione, dopo le storie degli altri, “viene il tempo in cui dobbiamo metterci a raccontare noi, e diventare i nostri autori preferiti, almeno per il tempo del nostro racconto” . Tra le case e i muri del distretto,“nel rumore che, vivendo, fa la gente”, sarà possibile ritrovare il filo dell’identità e della bellezza da consegnare a chi verrà dopo di noi, ai figli che sapremo generare, che una donna saprà “semplicemente” partorire: un piccolissimo ingranaggio, in ogni caso essenziale, necessario, nel movimento perfetto dell’universo.
E si rimane appesi a un senso di affascinato stupore di fronte all’immensità, a un sentimento di empatia rinfrancante, a un’inattesa sensazione di ostinata fiducia.
Qui, a codesto punto, si potrebbe anche provare a cantare, sottovoce, sfumando….o magari accennare un passo di danza immaginando la Duse che suona e canta sul ponte. E’ un tango, in fondo: potrebbe bastare per trovare la misura, anche la nostra misura.
Chissà, chissà domani
Su che cosa metteremo le mani
Se si potrà contare ancora le onde del mare
E alzare la testa…
Non esser così seria, rimani…
Nascerà e non avrà paura nostro figlio,
Come sei bella…
E se è una femmina si chiamerà Futura…
Il suo nome detto questa notte mette già paura..
Sarà diversa bella come una stella,
Sarai tu in miniatura
Dove sono le tue mani…
Aspettiamo che ritorni la luce
Di sentire una voce
Aspettiamo senza avere paura, domani.
Maurizio Maggiani – Meccanica Celeste – Feltrinelli (pp. 312)