Piero Mastroberardino, 41 anni, Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese nell’Università degli Studi di Foggia. E’ lui l’erede della più antica casa vinicola della Campania, una delle più famose d’Italia, la cui storia è lunga dodici generazioni. Come abbiamo più volte sottolineato, la scelta del papà Antonio, ancora attivo negli uffici di Atripalda, è stata determinante per il vino campano perché ha indirizzato il commercio delle uve, e dunque dei vini, sui tre più importanti vitigni autoctoni regionali, l’aglianico, il fiano e il greco. Una scelta lungimirante, non sappiamo se istintiva o ragionata, ma i fatti sono questi. Negli anni ’90 molti hanno recitato, sia pure sottovoce, il de profundiis della Mastroberardino, io però non ho mai avuto impressione di abbandono: anno dopo anno, ho sempre trovato una cantina ordinata, in crescendo, personale professionale e in tuta da lavoro, investimenti in strutture, impianti e barrique. C’è stata anzi una continua acquisizione di terreni, sino alla tenuta di Mirabella dove è organizzata una foresteria e dove tra poco sarà inaugurato un campo da golf e un impianto di vinoterapia. I vini della Mastroberardino riflettono in pieno il carattere irpino, un carattere che conosco bene essendo mia moglie di Avellino: non strillano, non si preoccupano di stupire, mantengono sempre lo stesso tono, preferiscono il passaparola alla comunicazione-evento, durano nel tempo, sia i bianchi che, ovviamente, i rossi. Direi che gli irpini sono passisti silenziosi, anche se purtroppo individualisti come tutti i meridionali e poco propensi ad unire le forze perché eredi della cultura sospettosa contadina. Forse è stata proprio questa diffidenza verso quel che non si conosce a fondo ad aver spinto Antonio a tenere la barra dritta sulle uve del territorio, una scelta premiante perché i suoi Taurasi hanno il fascino delle donne belle senza trucco, mentre i due bianchi si distinguono da sempre per i varietali ben definiti e fissati nella memoria collettiva dei degustatori e dei consumatori. Con Piero inauguriamo questa nuova rubrica, dedicata agli uomini che hanno difeso la viticoltura meridionale nei momenti difficili e che oggi sono diventati i testimoni del suo futuro, qui dove la vite è stata piantata la prima volta in Italia, qui dove è nata l’agricoltura italiana ed europea attorno a città strabilianti e non più ripetute per secoli e secoli.
Fiano, Greco, Aglianico. Non sappiamo se questi vini sarebbero sopravvissuti senza la Mastroberardino, sicuramente siete voi ad averli lanciati sul mercati. A quali di questi tre ti senti più legato?
Di sicuro negli ultimi cinquant'anni della nostra storia aziendale il merito della sopravvivenza dei tre vitigni e vini è tutto di mio padre, Antonio, che ha lottato contro ogni forma di avversità, naturale e sociale, dal dopoguerra in avanti, per ridonare lustro e fulgore a delle storie di successo che la mia famiglia può testimoniare da oltre due secoli. I tre vitigni hanno in comune il carattere, la tenacia, lo spirito montanaro testardo che li rende arcigni anche in condizioni difficili. La loro longevità, la resistenza al trascorrere del tempo, la freschezza che conservano anche nelle vendemmie più difficili costituisce un fattore distintivo affascinante, oltre che una grande risorsa per chi ha la ventura di poterli accompagnare e presentare sulle tavole più prestigiose del mondo: non ti fanno fare brutta figura!
Mi sento particolarmente vicino all'Aglianico perché è un vitigno che dà vita al Taurasi, uno dei pochi vini che dopo settant'anni di affinamento in bottiglia pare ancora un giovanotto, come possono testimoniare le bottiglie degli anni Venti e Trenta che degustiamo in verticale periodicamente e che lasciano allibiti gli esperti più scafati!
Una tua breve storia commerciale di questi tre vini. Iniziamo dal Greco
Il Greco di Tufo ha una storia lunga: abbiamo le nostre brochure promozionali d'anteguerra che lo denominano “Tufo”, senza il nome di vitigno. Mio padre completa la denominazione Greco di Tufo nel Dopoguerra, per rendere il nome meno sfuggente e fissarlo nella mente del cliente. Il vino comincia ad affermarsi con maggior decisione tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio dei Sessanta, percorrendo le nascenti vie del turismo costiero. Si sviluppa negli anni Settanta (ottenendo anche la DOC), ponendosi all'attenzione della embrionale critica enologica (Veronelli ne tesse le lodi), fino a consacrarsi, tra la fine degli anni Settanta e gli inizi dell'Ottanta, in uno con l'evoluzione della dieta mediterranea. Diventa uno straordinario fenomeno di mercato, sia pure solo nella fascia medio-alta dello stesso, per tutti gli anni Novanta, resistendo, insieme al Fiano di Avellino, anche alle tendenze che vogliono favorire particolarmente i consumi dei grandi rossi. Nel 2003 ottiene il riconoscimento della DOCG, tra i pochi bianchi italiani.
Il Fiano….
Valgono molte delle cose dette per il Greco di Tufo. Per il Fiano di Avellino c'è da aggiungere che nel dopoguerra la varietà era quasi completamente scomparsa, per cui la ripresa ad opera di mio padre fu decisamente più difficile. Tuttavia il Fiano, più austero, nobile ed esclusivo rispetto al Greco, alla distanza si afferma come un signore di campagna stilisticamente ineccepibile. La sua longevità lo impone via via all'attenzione come il vino bianco italiano in grado di presentare in degustazione le verticali più ambiziose e nutrite.
È tuttora fiore all'occhiello per la nostra regione, e il suo lungo ciclo di vita consente di esplorarne i caratteri in evoluzione con grande gratificazione.
E l’Aglianico, quando e come è diventato Taurasi?
Il Taurasi esiste praticamente da sempre nella nostra storia familiare. La denominazione “Campi Taurasini” risale a Tito Livio. Nel caveau di famiglia ci sono bottiglie di un secolo circa. C'è poco da aggiungere: è il simbolo della nostra storia, perché è il vino che per sue caratteristiche può meglio di ogni altro testimoniare qualità e costanza di risultati!
Il riconoscimento delle Docg è stato davvero così utile?
La Docg è utile a fornire legittimazione ad un territorio, cioè a coronamento di un'opera di valorizzazione che fanno gli uomini quotidianamente per tanti anni. Dunque, può arrivare solo dopo tale opera, né può da questa prescindere …
Qual è il più grande insegnamento di tuo padre Antonio che vorresti trasmettere ai tuoi figli?
La grande tenacia, l'instancabile determinazione, la volontà inesauribile di contrastare le avversità. Il mondo è cambiato, oggi le opportunità per i giovani volenterosi e capaci si aprono a ventaglio, mentre si chiudono nei confronti di coloro che non si rendono artefici del proprio successo. Ieri invece le opportunità erano decisamente minori, e forse riusciva a coglierle solo chi poteva schierare in campo qualità fuori dal comune e una straordinaria costanza nel perseguire i propri scopi. Sono comunque fortunato: grazie alla collaborazione preziosa di mia moglie Tiziana, anche le mie figliole, pur in tenera età, sono avviate sulla buona strada e paiono esprimere caratteri positivi … incrociamo le dita!
Quando e come hai iniziato a lavorare in azienda?
Le prime esperienze risalgono all'infanzia, piccoli lavori manuali come la costruzione dei cartoni, che all'epoca veniva fatta appunto manualmente. In cantina ho fatto i primi giochi, imparato ad andare in bici, … Il lavoro vero e proprio inizia nel 1990, pochi giorni dopo la mia laurea, anche se i primi viaggi all'estero per motivi di lavoro, in compagnia di mio padre, erano avvenuti già a fine 1989, durante la preparazione della tesi di laurea.
Come hai conciliato la carriera universitaria con il lavoro nella cantina di famiglia?
In realtà non è un problema di conciliazione: si è trattato di una sinergia culturale da un lato e di uno straordinario meccanismo di auto-rigenerazione psichica e spirituale.
Ciascuno dei due mondi ha molte cose da insegnare: il mondo dell'impresa insegna a decidere con rapidità, sapendo che gli effetti delle decisioni errate possono manifestarsi con gravità e generare effetti negativi a catena. Nell'impresa ogni momento della vita quotidiana è contrassegnato da una decisione, bisogna mantenere lucidità attimo per attimo, e, dalla mia prospettiva, tante persone proiettano verso di te aspettative, si attendono che tu eserciti la giusta opzione, dunque senti il peso della responsabilità, specialmente nei primi anni.
La carriera universitaria, in particolare l'attività di ricerca e di produzione scientifica, è invece un percorso che si costruisce con una prospettiva temporale differente, alimentato da una grande passione (altrimenti meglio dedicarsi ad altro …), senza focalizzare eccessivamente l'attenzione su obiettivi immediati, eppure facendosi trovare sempre pronti agli appuntamenti chiave. Questa duplice prospettiva mi ha consentito di trovare sempre un rifugio cerebrale di un mondo nei confronti dell'altro, un altalenare di vacanze, in grado di ridarti in ciascun mondo la grinta per affrontare il successivo ostacolo.
Insomma, una complementarità decisamente salutare.
Cosa c’è nella tua biblioteca?
Le mie letture preferite sono i testi di filosofia della scienza, con particolare cura ai grandi pensatori delle scienze sociali. Uno dei testi che mi ha colpito di più è una delle opere di Karl Popper, “La società aperta e i suoi nemici”, sia per gli straordinari, illuminanti contenuti, sia per il difficile contesto nel quale fu generato.
E di una musica di cui non puoi fare a meno
Ho amato tanti generi musicali, da adolescente ho anche fatto il DJ radiofonico, dedicandomi in particolare alla musica rock … altri tempi! Oggi mi piace risentire le musiche inglesi e americane degli anni Sessanta e Settanta, un po' di cantautori italiani e tutto ciò che è etnico ed evoca mondi distanti dal mio quotidiano.
Come passi, se ne hai, il tempo libero?
Di tempo libero ne ho, organizzando al meglio gli impegni. Mi dedico in primo luogo alla famiglia, con approccio molto tradizionale. Poi leggo molto. Infine mi dedico allo sport, in questo periodo prevalentemente al golf.
Quali sono i maggiori ostacoli incontrati nell’ampliamento della vostra attività?
Il mantenimento di condizioni di sviluppo coerente tra la base produttiva agricola e le potenzialità di diffusione sul mercato delle produzioni campane, al fine di evitare contraccolpi agli equilibri esistenti nella filiera vitivinicola.
La presenza di aziende sempre più numerose è un supporto o un ostacolo allo sviluppo del territorio?
Evidentemente aiuta, perché è maggiore il numero degli operatori che si impegna nella promozione di un messaggio, il che consente di ridurre le distanze rispetto alla cosiddetta soglia del rumore. Oggi la comunicazione continua a crescere di importanza e il mondo del vino continua ad essere eccessivamente frammentato e poco coordinato nei propri sforzi di valorizzazione.
La vostra famiglia all’inizio degli anni ’90 si è divisa. Come hai vissuto questo episodio e che bilancio storico se ne può fare a distanza di tanti anni?
È stata una fase vissuta con grande partecipazione da tutti i familiari, che ha condotto con buon senso ad una decisione comune, per consentire a ciascuno di trovare la propria dimensione personale e professionale in un contesto a sé più confacente. Il mondo è grande e c'è spazio per tante iniziative. I rapporti sono di cordiale collaborazione, e questo consente di dire che le scelte operate hanno prodotto benefici a tutti.
Come è cambiato il vino da quando hai iniziato ad occupartene professionalmente?
Si respira un'aria meno ingenua, c'è più malizia in giro. La compagine imprenditoriale non è più caratterizzata solo dalla presenza di “famiglie del vino”, bensì pullula di operatori di varia provenienza, che affrontano il settore con prospettive differenti. Tutto questo ha prodotto mutamenti di scenario e di condotte abbastanza evidenti, con vantaggi e svantaggi.
Che momento vive il vino campano in Italia e, se possibile, nel mondo?
Il vino campano vive un buon momento in termini di immagine percepita, per la straordinaria qualità dei suoi vini. Tuttavia ha bisogno di costruire un posizionamento chiaro, di essere intelligibile dal pubblico, di far conoscere più in profondità le proprie peculiarità distintive, di cogliere un momento positivo per tracciare un solco più efficace, atto a durare nella memoria dei consumatori. C'è tanto da lavorare …
Quando hai avuto la percezione che il vino campano era uscito dal tunnel?
Non credo sia mai stato nel tunnel negli ultimi vent'anni. Di tunnel forse si può parlare pensando alla metà del secolo scorso.
Spesso leggere le carte di un locale regala la sensazione di fare un balzo indietro nel tempo. La ristorazione sembra essere un passo indietro alle aziende di vino? Una sensazione sbagliata?
In certi casi si ha questa sensazione. In altri invece la ristorazione fa anche balzi in avanti … e anche questo a volte lascia pensare!
Che giudizio dai dell’Ocm vino?
Una visione pragmatica, per certi versi un po' anglosassone, uno scossone per un mondo un po' troppo abbarbicato a concezioni conservative. Bisogna muoversi e cercare una dimensione competitiva compatibile con le nuove regole del gioco. Siamo qui da generazioni e vogliamo continuare ad esserci. Ora, con tutte le cautele del caso, con tutte le necessarie tappe di avvicinamento a un assetto più prossimo alle tematiche di mercato, questa filiera europea deve darsi una dimensione nuova.
Come giudichi il ruolo della stampa generalista e di quella specializzata? I giornalisti hanno aiutato il vino?
I giornalisti hanno indubbiamente aiutato il vino. Nel bilancio, tra voci stonate e contributi positivi, non c'è dubbio che tutti parlano di vino, e questo è positivo. Poi, le persone dopo tanto ascoltare si fanno un'idea propria e cominciano ad essere artefici delle proprie scelte, più consapevoli, si assumono maggiormente la responsabilità delle loro decisioni d'acquisto e di consumo, per cui anche le voci stonate non fanno più tanti danni …
Cosa deve fare e cosa no lo Stato per il vino?
Le Istituzioni devono creare le condizioni di credibilità e di funzionalità di un sistema produttivo, poi esercitare il giusto controllo sulle regole essenziali di funzionamento, possibilmente astenersi dal formulare strategie competitive …
Magari agevolare le iniziative di coordinamento dei sistemi di imprese su base territoriale in modo da consentire che sia operato un trascinamento ad opera degli operatori privati nei confronti delle comunità in cui la vocazione vitivinicola è più spiccata, ma senza sconfinare in attività di prima linea, spostando delegazioni di condottieri per il mondo a sventolare vessilli non ben identificati.
Perché il ceto politico meridionale sembra non avere percezione precisa dell’importanza della filiera agroalimentare per lo sviluppo del territorio e delle comunità?
L'imprenditorialità non sempre è in cima ai pensieri di questi esponenti, i quali vedono emergenze e priorità differenti. Da un certo punto di vista è comprensibile. Vero è anche che dare spazio alla componente imprenditoriale consente anche di avviare a soluzione altri problemi.
Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Poter vivere la mia vita in serenità con la mia famiglia e mantenere sempre la dimensione umana nelle cose che faccio, continuando a dare il mio contributo alla crescita di chi mi sta vicino.
Allo stato attuale sono appagato, dunque non mi sento di definirlo un sogno nel cassetto, ma non avrei davvero da confessare particolari ambizioni.
Quali le annate di Taurasi preferite, a parte le prossime?
Il 1958 e il 1968 perché grandi leggende che hanno aperto le porte alla Campania del vino; poi forse il 1988 per eleganza.