di Annito Abate
Trovarsi in Cantina nel momento giusto per capire ed approfondire il “progetto” di un vino in compagnia del suo “architetto” e del “committente”.
Questo è il racconto del terzo di quattro incontri (qui il resoconto del primo e qui il resoconto del secondo) per essere nel posto giusto al momento giusto, ad esempio, quando i vini riposano dopo la fermentazione.
Gli argomenti trattati. L’evoluzione del prodotto e l’importanza del contenitore. L’evoluzione fisiologica del vino, vantaggi e svantaggi, gli antociani, i polifenoli, gli odori e la struttura. L’influenza e conseguenze nel vino del contenitore in acciaio, della botte piccola nuova e quelle di più passaggi, nella botte grande. La micro ossigenazione.
Per saperne di più sulla evoluzione e sui contenitori è utile fare qualche riflessione in compagnia dell’enologo; io l’ho fatto, per la terza volta, alla Fattoria Alois di Pontelatone.
Lungo la strada un piacevole sole invernale “allaga” le carreggiate dei nastri d’asfalto che mi portano, ormai per la terza volta, verso l’alto casertano; ed è proprio entrando in questo territorio che vengo avvolto dalle nebbie che sostano immobili sopra i campi in attesa di essere riscaldate per “levarsi al cielo” e liberare gli “aromi” di una possibile fredda, ma colorata, giornata di dicembre.
Nel piazzale umido di bruma si intravede l’ormai familiare porticato della Cantina, le macchine che hanno “accarezzato” i grappoli bianchi e rossi, fino all’autunno inoltrato, restano ora silenti e lucenti traguardando già verso la prossima vendemmia; le pompe arancioni e corrugate versano avvolte su se stesse e dispiegate al suolo come serpenti ormai domati.
Entriamo nella Sala dei Fermentini, nei contenitori i Vini stanno riposando alla fine del loro cammino di modificazione zuccherino-alcolica, alcuni hanno deciso anche di “devolvere” i loro acidi più aspri in favore di quelli più “dolci”, nell’ammorbidente processo chimico che va sotto il nome di fermentazione malolattica; i liquidi idroalcolici sono in cerca di equilibrio e vogliono diventare, al più presto, biologicamente stabili, se lo meritano avendo portato a zero gli zuccheri e a dosi ridotte la quota del “malico”. Ora, per chi non lo vede come un problema, il prodotto può essere addizionato di “solforosa” per la stabilizzazione finale che si configura come una scelta definitiva, quindi una sorta di punto di non ritorno in quanto precluderà ogni forma di intervento sul liquido idroalcolico, almeno in questa fase; ad esempio se la fermentazione malolattica non è stata svolta, o è stata svolta solo parzialmente, non sarà più possibile tornare indietro nelle decisione.
In questa fase i vini sono in una condizione particolare, sono ricchi di fecce, hanno quindi i cosiddetti “torbidi in sospensione”; di fatto trattasi dei lieviti che tanto hanno dato in fase turbolenta e che ora, cheti, cessano la loro gloriosa vita adagiandosi, grevi, sui fondali dei serbatoi in attesa dell’ultimo sforzo loro richiesto, ma solo se l’enoico architetto ne chiederà loro questo ulteriore sacrificio. E’ questo il momento di operare immediatamente un travaso per allontanare le fecce e scongiurare così possibili “riduzioni”; il vino, infatti, tende a “chiudersi” per mancanza di ossigeno che è stato consumato proprio dalle parti solide in sospensione, residue ed eccessive. Per l’Architetto del Vino è questo un momento che fa “curriculum” per il progetto del suo liquido idroalcolico tutto in divenire; è la scelta della quantità di fecce da allontanare in quanto queste possono aiutare l’evoluzione e cedere antiossidanti naturali, ovvero conservanti, come parte colloidale, sono i polisaccaridi.
Per i vini bianchi è ancora più importante decidere la strada da intraprendere, se l’obiettivo è una “pronta beva” il vino va “ripulito” più velocemente possibile dai lieviti residui che hanno la capacità di assorbire gli aromi allo stato libero e quindi liberarsene vuol dire evitare di perderli; di contro se si vuole, e soprattutto, si può attendere, lo sviluppo dei polisaccaridi aiuterà quello della complessità.
Semplificando, si può dire che alcuni aromi non sono “liberi” ma restano “imprigionati” nello “zucchero” che li circonda e li protegge, come una Principessa in un Castello sono fascinosamente glicosilati ed in attesa di un Cavaliere che possegga la chiave del tempo per restituirne il “profumo della sovranità”. Il livello di percezione, la soglia, dipenderà poi dallo charme della Principessa, il suo miglior rivelarsi allora dipende dalla “libertà” e dalla “quantità” ed aggiungerei anche dalla “qualità” nell’armonizzarsi e nel relazionarsi; è una questione di glicolisi insomma!
In effetti c’è un modo per evitare le “attese” ed è un enzima che si pone quale “intessitore di relazioni”, a mio parere un ruolo non proprio affascinante, a partire già dal nome: beta glucanasi che sarà in grado di liberare il potenziale aromatico anche prima di svincolarsi delle fecce residue; questa volta oserei affermare che “chi ha tempo, aspetti tempo” il cui trascorrere fa molto bene ai vini, se ovviamente sono dotati della stoffa per esprimersi.
La sosta lunga sulle fecce, allora, è un percorso più naturale perché, ovviamente, si evitano “aggiunte” ed il vitigno ha la possibilità e potenzialità per sviluppare gli aromi che fanno parte del suo patrimonio genetico, se esistenti, altrimenti è tutta fatica e tempo sprecato e sarebbe più saggio consigliarne la “separazione” che ha buone possibilità di diventare un prodotto buono e dignitoso.
In definitiva alla fine della fermentazione si apre un bivio dove la prima strada porta ad un vino longevo dove è consentita la sosta sulle fecce, il tempo aiuterà l’evoluzione, il passo lungo e la franchezza; la seconda strada è quella dell’immediatezza, della pronta beva dove il vino va ripulito per esprimere prima i suoi profumi fruttati rinunciando, tranne “miracoli”, ad esprimersi nel corso di lunghi anni.
Con il primo travaso, se si ha l’intenzione di riutilizzarle per gli usi descritti, le fecce si possono ri.sospendere in soluzione; ci sono due modi differenti per operare il travaso: spostare le fecce fini in un’altra vasca oppure rimetterle in sospensione nello stesso contenitore. Queste operazioni di cantina si compiono per evitare lo sviluppo di composti maleodoranti che vanno in putrefazione, ad esempio l’idrogeno solforato, tanto più difficili da eliminare quanto più alto è il peso molecolare; va detto che l’ossigeno aiuta ma, come sempre accade, c’è un prezzo ed una richiesta di scelta equilibrata per evitare pericolosi fenomeni ossidativi che possono accorciare la vita dei liquidi idroalcolici in formazione.
Si apre allora una riflessione interessante proprio sul progetto-vino che risulta un equilibrio basato sulla sensibilità e sulla conoscenza profonda degli indicatori di “miglioramento” e/o “deformabilità” dei fenomeni; prendiamo ad esempio il vitigno del Greco di Tufo, notoriamente dotato ma soggetto e destinato ad un difficile rapporto con l’ossigeno.
L’affinamento dei bianchi, generalmente oggi avviene in acciaio, possono usufruire anche del legno, magari piccolo e sostare, per periodi più o meno lunghi sulle fecce fini; nell’inox la feccia richiede molto ossigeno e quindi va tendenzialmente tolta, nella lignea materia l’ossigenazione avviene, le fecce permangono, si depositano sul fondo e vengono messe in sospensione con una tecnica che i francesi chiamano batonnage che mantiene vivi i polisaccaridi portando con se anche quel fascino che fa pensare ai grandi vini d’oltralpe, vere chimere per i degustatori che aspirano anche all’annata più favorevole.
Si può affermare che nel legno la maturazione risulta più “pulita” e graduale proprio per la naturale ed opportuna presenza di ossigeno che funge da regolatore del tempo e da ostacolo efficace allo sviluppo dei composti solforati maleodoranti.
Si capisce allora come il legno, direi ben utilizzato, sia un mero strumento di affinamento, oserei dire un contenitore che, discretamente e con gentilezza, non dovrebbe contribuire al profilo aromatico del liquido idroalcolico ma solo donargli un corretto apporto di ossigeno; il tempo deve passare per liberare gli aromi, del vino e del suo vitigno, favorendo la perdita di quelli del legno, facilitando e garantendo un’evoluzione che sappia conservare aromi e profumi come quelli fruttati.
L’umidità e le temperature devono essere quelle “giuste” in quanto influiscono sul prodotto, a volte in maniera non proprio positiva, facendo emergere note alcoliche e “polverosità” in bocca e quindi una struttura inadeguata; quando sorgono dubbi sulla presenza di adeguate condizioni ambientali sarebbe il caso di riflettere se proseguire nell’idea legnosa o virare, più prudentemente, verso scelta “acciaiose” più sicure in termini di risultato.
Nell’affinamento dei rossi i tannini consumano ossigeno ma le fecce aiutano dando la necessaria copertura ed il legno, il cui utilizzo con questa tipologia è più diffuso, anche in questo caso, dà la possibilità di mantenere il vino sulle fecce conservandone le caratteristiche positive. I purpurei liquidi idroalcolici hanno una forte “domanda di ossigeno” e, ad esempio, una botte piccola, adeguatamente “liberata” con il tempo dagli aromi del legno, può essere la maniera più efficace per far arieggiare la massa. I legni, in genere, si liberano dai tannini dopo circa 2 o 3 anni, ovvero altrettanti passaggi, non assicurando più la copertura e la protezione al vino ed esponendolo a precoci ossidazioni, in particolare quando lo scambio tra liquido e pareti del contenitore è maggiore, come avviene nelle forme meno grandi.
Il vino è in equilibrio fino a quando l’ossigeno viene consumato dai legni che dopo qualche tempo esauriscono questa possibilità diventando contenitori esausti che espongono la massa a rischio ossidazione; una possibilità per rallentare e mitigare questo fenomeno è l’uso di botti più grandi.
L’ossigeno fissa il colore, lo rende più stabile ed intenso anche con l’aiuto del tannino; anche questo indicatore è parte del progetto-vino in quanto maggiori sono queste componenti più marcate saranno i risultati; è immediato comprendere che l’uso consapevole del contenitore, “giocando” sul tipo e sulla dimensione, può restituire un vino più luminoso, trasparente e con tonalità meno intense, come nel caso di legni grandi.
Un altro fattore che incide sul risultato è dato dalla pulizia delle vasche con trattamenti per evitare l’accumulo dei tartrati che tendono a precipitare sul fondo e a sigillare lo spazio tra le doghe andando ad alterare la funzione di scambiatore d’ossigeno tra interno ed esterno, e viceversa, con conseguenze facilmente immaginabili.
Carmine Valentino, bicchieri alla mano, svolge la sua illuminante lezione mentre preleva alcuni campioni di vino dai Fermentini.
Falanghina proveniente dal conferimento di vigneti a Solopaca allevati a tendone (il liquido è carico, denso, intorpidito, ovviamente, dai lieviti ancora in sospensione, profumato ed, al piccolo assaggio che mi sono concesso, è anche “saporito” e sorprendentemente già molto pronto), l’ho visto nascere, qualche mese addietro nella prima lezione, quando è stato vinificato sotto i miei occhi, i grappoli dorati al sole, un mese in fermentazione, qualche travaso e 4-5 mesi sulle fecce fini (ero presente anche in questo momento, nella seconda lezione), nessuna malolattica svolta.
Pallagrello Bianco, un percorso simile a quello del suo bianco “compagno di maturazione”, qui le note di pesca sono evidenti al naso, anche di questo vino ne abbiamo seguito tutte le fasi.
Ripuliti ed avvinati bene i calici, si prelevano due campioni diversi di rosso Casavecchia, il primo, dieci giorni di macerazione a temperatura controllata, ossigenazione giornaliera con irrorazione benefica del cappello di vinacce, svinatura, sosta in acciaio per quattro mesi, malolattica svolta parzialmente appena dopo la fermentazione e passaggi sia in legno piccolo, sia grande; il secondo ha una massa diversa, così come la fattura, un bel frutto rosso che preannuncia una bella maturazione, un vino che viene messo a riposare in botti ovali da venticinque ettolitri.
Oggi è giornata di attraversamenti regionali e, prima di salpare alla volta di Ercolano, mi soffermo a guardare i colori sfumati che risalgono la collinetta verso il vigneto che si apre tra le montagne, la nebbia si è ormai sollevata di quel poco che basta per percepire le sensazioni di questo inverno che ancora si abbraccia all’autunno: i gialli, i rossi, tutte le tinte bruciate. Penso al riposo dei vini, alla loro evoluzione fisiologica tutta in divenire; noto come la natura, grande direttrice d’orchestra, si armonizza con le varie fasi produttive facendo percepire, forte, quella in corso, cheta, silente, importante, delicata, fatta degli stessi colori, profumi e sapori della Sua Terra, il momento che preparerà, si spera, alle grandi emozioni da “vivere” nei calici.
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