di Virginia Di Falco
Come mio personale tributo morale al 150.mo dell’unità del nostro Paese, potevo scegliere tra le tre ore cinematografiche di Mario Martone sui moti risorgimentali e l’agile libretto dello storico Montanari sull’identità della cucina italiana. Nonostante l’atmosfera natalizia di fine dicembre, una Roma resa inospitale da pioggia torrenziale e tassa di soggiorno dell’ipertempistico Alemanno, mi ha fatto propendere per l’approfondimento casalingo sul network italiano che in assoluto ha retto meglio alla prova dei secoli: quello dei modelli alimentari.
Lo studio di Montanari parte infatti molto tempo prima dell’Unità (l’Autore è uno storico del medioevo) per ricostruire quell’Italia della cultura che, almeno per alcuni strati della popolazione – come aristocratici e borghesi – aveva anticipato di molto quella politica del 1861. Parte integrante di questa cultura – ecco la tesi di fondo del libro – «erano i modelli alimentari e gastronomici, elementi decisivi, sempre, delle identità collettive». Una tesi, come vedremo, controintuitiva che fa riferimento ad una identità culturale italiana basata su «una rete di città», uno spazio sia materiale che mentale «all’interno del quale circolavano modelli di vita e di cultura, oggetti e saperi, uomini e abitudini. Anche alimentari. Anche gastronomiche».
E così pure l’embrione culturale che anticipa la costruzione dell’Europa viene ricondotto allo scontro-incontro di valori alimentari: «la cultura del pane, del vino e dell’olio (simboli della civiltà agricola romana) si mescolò con la cultura della carne e del latte, del lardo e del burro (simboli della civiltà ‘barbarica’, legata all’uso della foresta più che alla pratica dell’agricoltura)».
Sarebbe proprio questo modello della rete ad unire realtà politiche diverse ma, appunto, rese omogenee dai modelli culturali.
Guardiamo all’esempio del parmigiano, formaggio del quale si parla già alla fine del XIII secolo, detto anche piacentino o lodigiano. La campagna produce, la città convoglia il prodotto sul mercato urbano col proprio marchio e sulla circolazione dei prodotti fonda la condivisione di gusti e pratiche alimentari. Non è la dimensione municipale a rendere forti le città, ma proprio la loro capacità di attivare una rete quanto più ampia possibile di rapporti: «la fortuna dei modelli alimentari si costruisce attraverso la loro capacità di essere diffusi».
L’esempio migliore della circolazione urbana di questi prodotti sono i ricettari di cucina che cominciano a fare la loro comparsa all’inizio del 1300 e che provengono tutti da due matrici principali: una toscana (dei palazzi dell’alta borghesia) e una meridionale (delle corti aristocratiche). Ma sempre di città parliamo: Palermo, Napoli, Siena, e poi Bologna Firenze, Venezia…
Tratto distintivo della cucina medievale italiana è già da allora la pasta, o meglio la varietà dei tipi e dei formati. E proprio i molteplici formati di pasta e torte diventano la metafora della cucina italiana: diversità locali, possibilità di confrontarne le varianti, legittimità di ognuna di esse e disinteresse a ridurle a modello unico. Unità e varietà insomma.
E qui, la particolarità di Napoli rispetto alle altre città. Milano, Roma, Lucca, Modena, Genova vengono tutte identificate con un prodotto di riferimento. Invece Napoli colpisce per la connotazione non urbana del suo mercato alimentare. Non c’è una rete di città che ne sintetizzi la cultura gastronomica ma, un po’ come in Francia, c’è solo una splendida capitale «di cui, virtualmente, l’intero paese è campagna».
D’altronde l’elemento chiave per comprendere l’identità italiana, lo sappiamo, è il rapporto tra campagna e città, dove cultura popolare e cultura di élite si integrano. E consentono poi di parlare di patrimonio gastronomico nazionale.
Ma importanti, nella costruzione dell’identità, sono anche i prodotti «che viaggiano», quelli, cioè, a vocazione commerciale. Così come i prodotti che le identità rinnovano, come da noi il mais, le patate, i pomodori, i peperoni e peperoncini. Tutti prodotti che in origine appartengono a culture diverse ma che nel tempo contribuiscono – mediante il confronto e lo scambio – a costruire solide identità culturali.
La pasta che da cibo per ricchi si trasforma in dieta popolare con i «mangiamaccheroni» di Napoli. Il progetto “unificatore” di Pellegrino Artusi che con il suo manuale di cucina riunisce tutte le soste gastronomiche della sua esperienza, rivisitando i piatti contadini delle feste trasformandoli così nella cucina borghese italiana conosciuta in tutto il mondo. Sono solo due importanti esempi che ci ricordano che – a differenza dunque di quella francese con una lunga tradizione centralistica, sia politica che culturale (e quindi gastronomica, ci ricorda Montanari) – l’identità italiana è figlia di una rete di città, della circolazione di prodotti ed esperienze locali. Non conflittuali, ma ognuna con un portato culturale diverso che, proprio come la tradizione e la modernità, hanno molto da dire e si confrontano da pari a pari.
Ecco perchè l’Autore è scettico nei confronti di quella che definisce «l’invenzione» delle cucine regionali: «il territorio come dimensione specifica della cultura gastronomica non appartiene al passato». Il medioevo si distingue piuttosto, secondo Montanari per un superamento del localismo. Sono i riferimenti alla città quelli davvero importanti, non alle regioni. Lo stesso Artusi, con il suo La Scienza in Cucina, andava in direzione opposta a quella della regionalizzazione: «costruire una rete ‘italiana’ di saperi culinari».
«La ‘cucina delle regioni’ è un’invenzione che risponde a esigenze politiche, commerciali, turistiche. Non culturali» ci ricorda l’Autore. Questo, dunque, il suo monito a chiusura del libro: definire regionale la nostra cucina rischia di far scomparire la sua matrice locale e, al contempo, quella di identità nazionale. Insomma. No al federalismo culinario. Locale è bello. E nazionale è meglio. Proprio come in politica, il dibattito è aperto.
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