di Luca Marfè
Tra le mura del Palazzo di Vetro per una guerra bella, giusta: quella contro lo spreco del cibo. Massimo Bottura torna a New York dopo essere stato incoronato al vertice della 50Best Restaurants.
Il tema è delicato e a queste latitudini sta molto a cuore ai grandi della Terra. Al centro del dibattito l’agricoltura, considerato il settore chiave in termini di impatto ambientale. Sia per quanto riguarda lo sfruttamento e l’impiego delle risorse naturali, sia per quelle che sono le conseguenze di un processo sempre più articolato: inquinamento e cambiamenti climatici.
Ancor più allarmante è la breccia tra ciò che viene prodotto e ciò che viene effettivamente consumato.
Lo spreco, dunque, è un doppio colpo, morale e ambientale. Nonché economico. Sta diventando, insomma, una vera e propria emergenza del nostro tempo.
Bottura lo sa. Lo sa da molto prima di queste strette di mano, di questi incontri istituzionali. Lo sa dall’alba di una lunga fase di vigilia dell’Expo, l’esposizione universale che si è svolta a Milano nel 2015. È stato proprio lì che ha deciso di rivoluzionare la cucina più alta affinché potesse tendere una mano a chiunque. E non in un gesto di carità, ma in un’atmosfera di servizio, di livello altrettanto alto. Meglio ancora se mescolato con ciò che, senza il suo tocco, sarebbe finito in un bidone della spazzatura.
Sorride a tutti, parla al telefono un attimo prima di concedersi a domande e telecamere. Dietro al vetro degli occhiali, un’inquietudine di fondo che anima il suo sguardo. L’inquietudine di chi, oramai ben al di là dei propri affari, vuole cambiare il mondo. Salvarlo da se stesso.
Dall’Osteria Francescana di Modena fino alle Nazioni Unite.
«Grazie, qui a New York mi sento a casa. All’Onu, invece, è la prima volta. Splendida emozione».
Combattere lo spreco del cibo, un tema sensibile, addirittura fondamentale. Che cosa si può fare di concreto?
«Le statistiche parlano chiaro: produciamo cibo per 12 miliardi di persone, ma circa un miliardo di individui non ha nulla da mangiare. Sprechiamo quasi un miliardo e mezzo di tonnellate di cibo ogni anno. Per produrre questo miliardo e mezzo, cioè il 33% della produzione mondiale, sprechiamo energia, capitale umano, acqua. E poi? Cosa facciamo? Buttiamo e bruciamo tutto. E inquiniamo. Una follia. E allora, durante l’Expo abbiamo avuto questa idea: noi cuochi abbiamo deciso di metterci insieme, ci siamo concentrati sul coraggio di osare, sulla qualità. Delle idee e del cibo. Abbiamo strutturato e ristrutturato questo spazio, recuperando un’architettura abbandonata a Milano da cui è venuto fuori un luogo meraviglioso: il Refettorio. Architetti, designer, artisti, ciascuno con il suo tocco, con la sua zampata. E tutti quanti noi a cucinare ciò che in un attimo si sarebbe trasformato in inevitabile spreco. Per le persone più bisognose, in molti casi per dei senzatetto, per gli immigrati, per i rifugiati. Ma mai per carità, sempre e soltanto per spirito di servizio. Perché il cibo è prima di tutto amore».
Quali i valori di questo progetto?
«Tre valori fondamentali: uno è la qualità delle idee, appunto, i cuochi che si mettono a disposizione del mondo intero e che mettono in gioco la loro conoscenza, la loro creatività e il loro tempo per trasformare, per rendere visibile l’invisibile, per stravolgere ciò che gli altri pensano sia già da buttare».
Quali sono i valori che ispirano questo “viaggio”?
«Il sentimento, l’ospitalità. Non ci serve una mensa come tutte le altre. Ci serve una mensa in cui i piatti vengano preparati con amore e vengano serviti a tavola con professionalità, con il giusto tono. Esattamente come avviene nei nostri ristoranti. È questo che fa la differenza. La cucina è cucina. E cucinare è vita, è affetto. Sia che tu lo faccia nel tuo ristorante, magari con tre stelle Michelin indosso, sia che tu lo faccia in una mensa per persone che hanno bisogno di un gesto di vicinanza. Il valore è lo stesso, deve essere lo stesso».
Com’è stato recepito questo progetto qui alle Nazioni Unite e che cosa ha detto ai tanti volti internazionali incrociati per i corridoi del tempio della diplomazia mondiale?
«Sono appena tornato dal Colorado, dove ho incontrato il governatore che ha espresso il desiderio di ospitare un refettorio pure a Denver. Ho visto delle cose assai toccanti. Cosi come a Merida o a Tessalonica o a San Francisco o a New York. È di questo che voglio parlare. Voglio provare a spiegare a chiunque la mia visione della lotta allo spreco affinché questa eredità possa sopravvivere alla mia persona e alla mia storia. Il sogno è che altri la sentano propria, la portino avanti anche dopo di me. Nel frattempo, nel mio piccolo, spero di essere un valido esempio per i giovani cuochi che nutrono l’ambizione di relazionarsi con l’universo della cucina in maniera diversa. Che sognano di farlo con testa e cuore».
Dai un'occhiata anche a:
- Massimo Bottura: il segreto della cucina italiana all’estero è la semplicità che emoziona
- Roberto Canestrini, l’enologo giramondo più esplosivo che ci sia
- Nanni Arbellini e Pizzium, quando i sogni americani si realizzano anche in Italia
- Maddalena Fossati: la cucina è un valore identitario e noi lo abbiamo capito
- Enzo Coccia, il ragazzo della Duchesca che ha creato la pizza moderna
- Alfonso Caputo di Taverna del Capitano a Nerano: il cuoco e il mare
- Nando Salemme di Abraxas e l’osteria contemporanea
- Addio Raffelino, Maestro di vita. Maurizio Paolillo ricorda Raffaele Vitale