di Giulia Gavagnin
Nessuno è mai stato apicale per la cultura enogastronomica italiana come Massimo Bottura, forse nemmeno Gualtiero Marchesi. Se quest’ultimo dei cuochi era il “Maestro”, Bottura ne è il Papa. Non lo dico per scherzo o per irriverenza, per canzonare un po’ quel suo gesticolare compulsivo e la tendenza ad arringare la folla con fare vagamente ecumenico. Bottura ha trasfigurato il particolare della cucina italiana in un dogma universale, ha trasformato il parmigiano e la mortadella, espressioni di una realtà provinciale e ritenuta tutto sommato ghiotta ma volgarotta, in oro nero. Marchesi era milanese, era un uomo di cultura prestato ai fornelli, a lui per primo era riuscito di elevare la cucina italiana nello stesso modo inteso dai francesi, quei francesi “che le balle ancor gli girano”. Bottura ha fatto di più, è partito dalla placida provincia padana e ha coniato uno stile italiano alto e inconfondibile, famoso nel mondo che conta. Ha conquistato le stelle Michelin con la Francescana, gli States con il marchio Gucci, ha scritto un libro fondamentale sul pane, fondato i refettori, è ambasciatore dell’Italia nel mondo. Gli resta da compiere il passo successivo, elevare la cucina italiana a patrimonio culturale tout court, diventare per l’Italia nel mondo quello che per i francesi è stato Paul Bocuse. Il Papa, appunto.
Non lo dico con certezza assoluta, non gliel’ho chiesto e mi imbarazzerebbe farlo, ma credo che stia lavorando alla realizzazione di questo sogno.
Nel suo ultimo percorso, ancora nominato secondo il verbo dei quattro di Liverpool, “With a little Help from my friends”, ha condensato cinque mesi di lavoro, riunito sessanta persone, gettato centinaia di ricette per confezionare una summa di sedici piatti per tredici cuochi che hanno costruito la strada della Nuova Cucina Italiana dagli anni cinquanta ad oggi citando se stesso in coda, come erede di un’epoca.
Ha confezionato un concept dalle note jazz, quelle del raro vinile di John Coltrane rigorosamente printed in USA che il mio misterioso e voluminoso commensale gli porge in segno di stima e consolidata amicizia, unici local in una sala dove le lingue parlate sono almeno cinque, e nemmeno tutte indoeuropee.
“Questi signori dietro vengono uno da S. Francisco, uno da Seoul, uno da Londra e si sono dati appuntamento qui” dice con orgoglio Bottura, intravedendo da lontano la realizzazione del sogno, di riunire più bandiere possibili sotto il vessillo dell’eccellenza italica nell’angolo discreto di Emilia.
Quei signori forse sanno chi era Gualtiero Marchesi, forse conoscono i Santini e Pierangelini, ma forse ignorano l’esistenza del cuoco dei re Nino Bergese, di Milena Cantarelli, dell’eccentrico Trigabolo di Argenta, del ghibellino Fabio Picchi, del solista Salvatore Tassa, del colto Corrado Assenza, tutti nomi presenti in questo canovaccio ispirazionale che cita i maestri per trasfigurarsi in qualcos’altro che parla il verbo canonizzato di via Stella.
Nella cipolla fondente che non è una cipolla, nell’insalata di spaghetti senza spaghetti, nel savarin di riso senza riso, nel budino di cipolla che è invece proprio un riso, c’è tutto il campionario botturiano, con la mortadella, il parmigiano, il balsamico, il Delta del Po, i cromatismi caleidoscopici, e le vibrazioni per cui qui, alla Francescana, vengono da ogni angolo del mondo.
In coda al percorso c’è il camouflage, con Bottura che cita giocosamente se stesso, come erede e sintesi di quello che l’ha preceduto.
Fatto salvo il piatto a vocazione più strettamente vegetale, il tortello di zucca omaggio a Nadia Santini che sostituisce la pasta fresca con uno strato di zucca cotta al forno per una scelta suggestiva ma non del tutto convincente, il percorso è una hit dietro l’altra.
A iniziare dalla citazione di un fuoriclasse della cucina filologica regionale come Fabio Picchi (“minestra di pane”), dove il gusto della inconfondibile macchia mediterranea toscana viene ridotta a un concentratissimo brodo da sorbire, ai bombastici ravioli di capesante e mortadella boosterizzati di cavolfiore e mela omaggio a Pierangelini; l’idea del savarin di riso che i Cantarelli ammansivano in quel di Samboseto, che in realtà non è un riso, con lingua e spugnole a duettare all’unisono e il budino di cipolla di Corelli che in realtà è proprio un riso, e che riso, tra caramel di cipolla, foie gras e civet a la royale.
L’acme, il picco, nel germano ripieno di anguilla del Trigabolo, che di quella banda di visionari eredita la verve, un wafer di pelle croccante, anguilla, rafano, spinaci, marasche che sembra esplodere.
Chissà se dopo questa Enciclopedia a Bottura verrà in mente di catechizzare il mondo trasformando in gusto la cultura tout court.
Potrebbe ispirarsi alla Divina Commedia de lo gran padre Dante.
Forse gli abbiamo dato un’idea.
Comunque vada, sarà un successo.
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