di Giulia Gavagnin
Se esistesse un Wolfgang Amadeus Mozart dei fornelli, il suo nome sarebbe Massimiliano Alajmo. In questo momento in Italia non esiste una cucina tricolore così onnicomprensiva, permeata in ogni dettaglio di spessore e leggerezza, intrisa di spunti regionali ma sempre, costantemente, italiana con citazioni coerenti dalla laguna al Mediterraneo. Strana storia quella degli Alajmo di Rubano, anonimo borgo abitato della provincia padovana sulla direttrice per Vicenza, avamposto del “fu”-miracolo economico del nord-est, luogo di produttività alieno da qualsiasi soffio di bellezza. Una famiglia votata alla gastronomia, di nonni cuochi e studiosi del buon mangiare, padre Erminio maestro di sala e mamma Rita cuoca sopraffina al punto da meritare una stella negli anni in cui la chef-mania era là da venire. Poi, l’arrivo del figlio genio, Massimiliano, il piccolo Mozart dei fornelli, il più giovane di sempre a conquistare due stelle, a 22 anni, record per poco doppiato con l’arrivo della terza, quando gli anni sono soltanto 28. Oggi, tre lustri dopo, con il suo volto pulito e la figura quasi ascetica potrebbe essere una star televisiva, un uomo immagine da centinaia di migliaia di copie di libri vendute e invece no, vive tra i fuochi, è l’unico chef del suo livello a non avere paura di mostrarsi con la casacca non immacolata, perché in cucina continua a starci per davvero, ancora alla ricerca dell’essenza tra perfezione e materia, con piglio quasi mistico.
Massimiliano Alajmo sta vivendo la piena maturità, pur avendo soltanto 44 anni, età in cui molti suoi colleghi festeggiano l’arrivo della prima stella. E’ ancora giovane, ma professionalmente appartiene alla generazione dei cuochi di mezzo, quelli che per davvero hanno rivoluzionato la cucina italiana attraverso gli insegnamenti di Marchesi, di Adrià ovvero pure intuizioni personali: i Bottura, i Cedroni, gli Scabin, i Cracco, i Beck. Con il fratello Raffaele sta creando un impero della gastronomia, si è insediato laddove sventola il vessillo del leone di San Marco, nell’omonima piazza al Gran Caffè Quadri, ha locali a Parigi e Milano, sta per conquistare anche Marrakech e l’affascinante provincia sudafricana dell’eno-turismo di lusso. Quando si parla di lui qualche gourmet neofita storce il naso, non lo capisce, dice di non rimanere stupito. Una volta lessi un commento accigliato in un social in cui l’utente scrisse che “i capelli d’angelo li mangio a casa mia”. Non aveva capito che era un’idea di capovolgimento del concetto di pasta, con la crema e il corallo dei crostacei e sottili filamenti, a creare una nuvola aerea e impalpabile.
Quindi, un consiglio: gli amanti della cucina a ultrasuoni o dei fuochi d’artificio con triplo salto carpiato restino a casa, non varchino la soglia de Le Calandre. La cucina di Massimiliano Alajmo è profondissima, ma è leggera ed essenziale, anzi, persegue sempre la ricerca dell’essenza, del nucleo, quasi dell’origine. E’ una cucina del tatto e del sussurro, della ricerca della perfezione nel solco della tradizione. Quando il locale fu soggetto a restyling e vennero eliminate le tovaglie, il “grande Vecchio” Arrigo Cipriani, sorridendo, disse che così avrebbero risparmiato 150 mila euro l’anno di lavanderia. Ovviamente scherzava. Le venature in evidenza del tavolo ligneo invitano l’ospite a toccare la materia, al centro del progetto-Alajmo. L’origine è il legno immutabile, l’arrivo è il cibo mutabile, materia che cambia attraverso il fuoco e la manipolazione. Insieme alla Materia corre parallelo il Simbolo, perché Alajmo è un cuoco di cucina italiana a 360 gradi, esalta il Mediterraneo con i suoi simboli noti nel mondo, l’olio d’oliva e il pomodoro da un lato e gli inconfondibili profumi salmastri della Laguna di Venezia dall’altro, con le inevitabili complessità di un terroir frammentato in una moltitudine di isole.
In un ambiente sobrio dove il servizio di sala è magistralmente diretto da Andrea Coppetta Calzavara, nei piatti del menu 2019 duettano e duellano il Mediterraneo Universale e il gonfalone di San Marco, con un’invenzione di recente conio che racconta chi era e chi è Massimiliano Alajmo, il “cappuccino-murrina”, riedizione riveduta, corretta (e perfetta) di uno dei piatti più copiati al mondo, quel cappuccino di seppie che travestiva la seppia da caffè e pareva un piatto che Marchesi avrebbe sempre desiderato fare, oggi si spoglia dell’essenzialità del bianco e del nero, da verticale diventa orizzontale, acquista i colori delle antiche vetrerie muranesi con il magma della fucina e i raggi del sole che si specchiano nella laguna e si incendia con la forza espressiva del riccio di mare.
Un piatto perfetto, una sintesi di vent’anni di cucina sul tetto del Mondo, un’immagine che entrerà dalla porta principale nei testi sacri di settore.
C’è l’orto veneziano che incontra il sole del sud, un jardin du printemps dove fave fresche, basilico e asparagi fanno da contraltare a un ovetto di mozzarella con succo di datterini da mangiare in un sol boccone, per un inizio leggero che introduce il tema dell’illusione, la “finta” ricotta d’uovo con crema di ostriche, caviale, astice crudo e asparagi, finta perché in realtà c’è solo uovo frullato con la consistenza della ricotta, un piccolo gioco di texture e aromi di mare.
Siamo a Padova, ma si vola direttamente a “Napul’è”: si chiama così il gioco dedicato a Alfonso Mattozzi, una versione personale della montanara, cuscinetto di semola di grano duro fritta, con pomodoro, mozzarella, acciuga, ma per non sbagliare torniamo in laguna con la moeca secondo Max, il granchio nudo e disarmato riempito di scampo, fritto impeccabilmente con farina di riso, la specialità che più glocal di così si muore.
E si muore davvero con un trittico micidiale che ci porta ancora in laguna e poi Oltralpe, con risotto frutti di mare, scampi e gelato di carciofi, rognone grigliato con sorbetto di senape all’estragone e insalata di finocchi e piccione arrostito al timo con Kumquat e marmellata di pepe.
Se il rognone smussa gli angoli e viene addomesticato con la grazia che appartiene naturalmente al cuoco, il piccione stupisce per il fondo perfetto e il wafer di cialda di riso con i fegatini che non riesce a essere ridondante in una preparazione cardine nell’alta cucina: esame superato a pieni voti secondo il modesto parere di famelici del piccione quali siamo.
Chiudono i giochi due giochi: il Raf-Barbaro, dolce-non dolce, tra sambuco, rabarbaro e olive candite e Illusione, ovvero il Gioco al Cioccolato 2019, un giro a tappe nel mondo pralinato che dopo undici portate ci voleva proprio (!).
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