di Monica Caradonna
«Sono un trasportatore di felicità». È Martin Berasategui a parlare. E lo fa quando ormai la cena è finita. Gli ospiti sono andati quasi tutti via e l’atmosfera è diventata più intima. C’è tutta la brigata, c’è Joseba Lezama, il suo braccio destro, c’è Floriano, che richiama l’attenzione di Giovanni, il più giovane dei Bros, ogniqualvolta il maestro inizia a parlare e il giovane cuoco si distrae. Una sosta di poco più di ventiquattrore nella capitale del Barocco «solo per loro» ci tiene a sottolineare il cuciniero di San Sebastian. Ha tolto la giacca bianca e ha indossato la t-shirt brandizzata dei Bros con tanto di autografo. Si è seduto in un cerchio virtuale in cui la squadra degli ex allievi ha preso posto intorno a lui, il maestro indiscusso. Parla di politica e di calcio, del suo Real e del concetto di sacrificio. «Chi lavora con me – spiega Martin – deve avere la mia stessa voglia di alzarsi la mattina carico di passione. È la passione che muove il nostro lavoro». È il primo ad arrivare nella sua cucina ed è l’ultimo ad andar via. Saluta ciascuno dei suoi collaboratori – all’incirca un centinaio – uno ad uno con una pacca personalizzata sulla spalla. Chi non ha spirito di abnegazione si autoelimina. «La vita è una lotta e la cucina è come una maratona, ma c’è gente che vuole entrarci senza lavorare. A me quelli che vogliono fare la maratona senza sacrificio non convincono» – commenta tra un bicchiere di Pol Roger Sans année e una batteria di gin tonic preparati sapientemente da Richard che per tre anni ha lavorato nella crew di San Sebastian nell’ombra di Martin. «Io sono grande perché sono i miei ragazzi a farmi grande» e a testimoniarlo basta snocciolare i nomi di quelli che dopo aver sofferto e amato nella cucina di Berasategui hanno messo in petto le stelle della rossa più ambita.
Ma «è l’umiltà che lo rende grande» ripete Floriano come un mantra, parlando di Martin, suo maestro, ma «un vero padre» preferisce commentare lui.
E la felicità, Martin, in una sera di vento di maestrale, a Lecce, dove ha ritrovato i suoi allievi, l’ha portata davvero. Bastava osservare gli occhi di Floriano e Giovanni, di Isa, di Hugo, di Richard e di Matteo che nella cucina di Berasategui sono entrati solo dopo aver fatto i lavori più umili. «Ho spazzato anche il parcheggio – racconta Floriano – e trasportavo le bottiglie vuote di vino», «ma non ha mai ricevuto un rimprovero» gli fa eco Joseba. La felicità in quel luogo che ha segnato un solco nella gastronomia pugliese si è ritrovata negli abbinamenti, nell’equilibrio dei piatti, nelle cromie mai esagerate, nella scelta meticolosa delle materie prime. Ne hanno contate più di 300 tra ingredienti e aromi mai ripetuti e sempre esaltati in un totale di dieci portate che hanno ripercorso la storia di uno dei più grandi cuochi del mondo. «Con la mia cucina posso far diventare bianco Obama e scuro il Papa» e ha ragione lui che ha sangue spagnolo e ispirazione francese e lo dice mentre ricorda con un velo di emozione negli occhi di quando era obbligato a svegliarsi presto per andare in treno in Francia dove ha assorbito contaminazione che lo hanno caratterizzato.
L’hanno chiamata cena impossibile i Bros, ma è stata invece la più concreta e possibile lezione di vita che un uomo semplice e umile come il cuciniero Berasategui ha dispensato a una brigata di giovanissime leve che sorride poco ma che conosce il senso profondo del sacrificio, che conosce il senso della ricerca e non si fa offuscare dalla grande attenzione mediatica che aleggia su di loro. Sono gli allevi di Martin. Cucinano con testa e cuore, con emozione e disciplina.
E oggi, nonostante il più grande sfiori solo i 27 anni di età, possono essere orgogliosi di aver scritto una nuova coraggiosa pagina nella storia del Salento e della Puglia gourmet che si declina sulle note della sperimentazione e del coraggio.
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