Accade spesso che un vino superi in fama gli uomini che lo producono. L’alea di mito che avvolge certe etichette, ricercate e pluripremiate, conferisce ai loro creatori un non so che di patinato. E con esso sopraggiunge un’incomprensibile insofferenza che le rende, per l’essere acclamate da tutti, quasi antipatiche. Nella testa di chi, nel vino, soffre della sindrome della primogenitura si fanno avanti i “ma” mai contemplati prima.
Quando questo accade occorre tornare alla terra. Ritrovare gli uomini e guardare sotto.
Il Costa D’Amalfi Ravello Fiorduva, da piccoli vitigni della Costa divina, dei quali probabilmente nessuno ricorda il nome tanto il vino è diventato famoso, ha, in questi anni, raccolto notevoli consensi di pubblico e di critica (l’Oscar del Vino quale migliore vino bianco italiano è del 2006). A far la sua parte il fatto che, nel 1995, è arrivata la DOC per i vini della Costa d’Amalfi e che Furore è stata individuata come una delle tre sottozone del disciplinare di produzione.
In pochi anni il Fiorduva è diventato un campione dei listini e in alcuni casi oggetto di speculazioni al rialzo del prezzo che non sono piaciute soprattutto alla azienda che lo produce.
Una giornata, come quella che ho trascorso qualche settimana fa all’azienda Cuomo, è da prescrivere ai più dubbiosi: la suddetta patinatura non c’è.
Marisa Cuomo, semplicemente
Marisa Cuomo e suo marito Andrea Ferrajoli sono una coppia affiatata che riesce, al di là delle intemperanze di lui, un “dannato” perfezionista sul lavoro come nella vita, a riunire intorno a sé una comunità. E’ questo il senso del progetto “etico ed estetico” – come lo chiama Ferraioli – che c’è dietro l’azienda. Quel “dietro” celato dal successo.
La determinazione della coppia nell’affrontare le problematiche del territorio, e nell’immaginare il suo disegno, dà sicurezza anche ai più scettici degli abitanti di quel perfetto incastro di roccia, case, mare e verde che è la Costiera Amalfitana.
Si: un’agricoltura specializzata attenta alla tradizione è davvero possibile.
La sensazione, per chi visita Furore, è difatti che, al di là delle classiche incomprensioni di paese, vecchie e nuove, esista qui, dal punto di vista vitivinicolo, una sola grande famiglia.
Marisa, di origine bosniaca per lato di mamma, proviene è una di 13 figli; una famiglia tanto numerosa che la maestra del paese, oggi in pensione, sorride affermando che, se non fosse stato per i Cuomo, il piccolo istituto avrebbe chiuso e sarebbe stato accorpato a un altro.
La famiglia di Andrea, cui appartenevano i 3 ettari e mezzo dai quali si è partiti, ha invece una famiglia ridotta e allora, chissà, inconsapevolmente, lui continua ad allargarla cooptando nel suo progetto i contadini più remoti. Non gli manca la necessaria caparbietà e capacità di persuasione visto che di questo lembo di terra, da cielo a mare, conosce ogni palpito.
Per ore indaga al computer, con il supporto di Google Earth, i costoni rocciosi e i pianori in cerca di un nuovo appezzamento puntiforme da riattare. Metro a metro, pianta a pianta, ricompone il puzzle della Costiera facendo si che vecchi e giovani ritornino sulle chiazze (“piazze” o terrazzamenti) abbandonate o piantate a merlot per rivoltare il terreno e impiantare i pali di castagno ceduo che l’azienda Cuomo dona ai suoi conferitori. E non solo a loro.
La forza del progetto di Andrea e Marisa, è proporzionale al diametro di questi pali di castagno lavorati e doviziosamente decorticati a pochi chilometri dalla azienda. Sono robusti e belli.
Vi si appoggeranno i tralci della viti di piedirosso, tintore, aglianico, pepella, ginestra, biancolella e falanghina.
In una foto, Andrea me ne mostra il perfetto mix: grappoli di uva a bacca bianca e nera penzolano tra le foglie della pergola che si tatua sul cielo.
Una volta, data l’altezza della pergola, questo, era un perfetto sistema di coltura promiscua che assicurava frescura ai grappoli nei mesi più caldi: il vino da vendere, il foraggio per le bestie e l’orto per la famiglia. L’influenza delle eruzioni del Vesuvio sui terreni della zona ha impedito l’attacco della fillossera, e quindi la conservazione delle viti su piede franco.
Ma prima che le piante siano messe a dimora sulle chiazze nel nuovo impianto a pergola, gli operai della azienda hanno incarico di dissodare il terreno per rimuove pietre e radici andando a fondo per almeno 50 cm. “Altrimenti la pianta avrà dei problemi e si è faticato per nulla” racconta Andrea.
Due straordinari contadini di Pimonte, padre e figlio, lavorano a giornata di buona lena, mentre tanti ucraini, volenterosi e pieni di energia, fanno il lavoro che gli italiani non vogliono fare più. L’azienda Cuomo li assume.
In equilibrio sui muretti
Ho percorso svariate decine di metri sul filo delle macere con Andrea Ferrajoli nella mia visita alle vigne per Slow Wine 2013. In equilibrio su una striscia di pietra e calce di 30 cm, ho ammirato il vuoto e ho pensato a un “comodo” atterraggio su un tronco.
Alcuni ceppi escono parallelamente al terreno, tra una roccia e l’altra, perché i contadini, un tempo, sfruttavano ogni spazio utile del lembo di terra che avevano a disposizione, anche le pareti.
Saltellando da una chiazza all’altra, Ferrajoli controlla l’attecchimento delle piante, le fallanze e la consistenza del terreno pensando a quale albero da frutta piantare in vigna. Fa parte del suo progetto l’inserimento di alcuni sostegni vivi come avveniva un tempo (erano di solito mandorli, noci o nespoli).
Alcuni tratti di queste mura – tirate su pietra su pietra per delineare le chiazze ricavando il loro materiale costruttivo direttamente dalla terra e poi riempite con la terra di riporto che le precipitazioni dai Monti Lattari portano a valle – sono del ‘400, racconta Ferraioli che me ne mostra due bei esempi solidi. “Oggi si costruisce a prezzi astronomici con la malta perché nessuno sa farlo come un tempo” continua.
Il metodo antico prevedeva due file di pietre tra le quali c’era una intercapedine di pietrisco. In questo modo il muretto era solido e lo erano anche gli scaloni che servivano le vigne poste più in basso. Ferrajoli non nasconde la sua ammirazione di fronte ad alcuni scaloni di accesso alle piazze in particolare: perpendicolari al muro o con piccoli gradini sporgenti sospesi nell’aria. Aspetta di vederne uno cadere per capire come sono fatti. Chissà se accadrà.
Ma intanto li utilizziamo in tranquillità per raggiungere la chiazza successiva.
Tra un sali scendi e l’altro, Andrea racconta le ultime novità della azienda: l’acquisizione di nuovo appezzamento che forse occorrerà raggiungere in elicottero alla vendemmia (5 euro per trasportare due cassette di complessivi 30 kg non basterebbero in questo caso, sebbene siano una bella sommetta); la nascita, da poche settimane, della cooperativa dei suoi conferitori e, infine, il progetto della nuova ampia cantina nella quale concentrare la produzione. La indica puntando il dito in direzione di Agerola, precisando però che la attuale, dotata di una linea di imbottigliamento molto sofisticata (alla quale Andrea non fa che aggiungere apparati e strumenti) e di una bella doppia grotta scavata nella roccia dove i vini di elevano, resterà immutata.
I 4000 metri di vigna Del Duca e il corvo che fece a pezzi la quaglia
Sulle chiazze del dottor Luigi Guerra si lavora alacremente al ripristino di una serie di macere. La famiglia è titolare di Le Terrazze del Duca, un magnifico B&B con vista sulle vigne e sul mare. Di Furore, che, di per sé, non è che un paesello grazioso sviluppatosi lungo la strada di collegamento tra Agerola e Amalfi, costruita negli anni Trenta, questa è una delle ultime storiche residenze, con volte e pareti affrescate, pavimenti in cotto di Ogliara e decori di Vietri. Custodisce il torchio e la macina in pietra del frantoio dell’epoca e, dai giardini e dalle stanze, la vista è superba.
I Del Duca, famiglia di antica schiatta, hanno intrapreso un cammino impegnativo per ripristinare circa 4000 metri di chiazze e svariate centinaia di metri di muretti. Era stata, negli anni Novanta, tra le aderenti al progetto di vigna sperimentale che prevedeva la creazione di impianti a filare non produttivi, e oggi risistemata, sotto la guida dell’azienda Cuomo, della quale è conferitrice insieme ad altri 50, a pergola.
Le vigne di Furore – che come areale può essere visto come uno zoccolo di roccia a tre punte – una con esposizione sud – ovest, una sud e una sud – est – sono per il 60% state assicurate a un futuro mi dice Ferrajoli con moderata soddisfazione: manca un 40%.
Una delle ultime me la mostra dal curvone che qui chiamano Pizzo Corvo. Sporgendosi dal parapetto la vista è mozzafiato e le vigne fitte, perfettamente disegnate e digradanti verso il mare. Inaspettate e raggiungibili con una monorotaia.
Sulla nostra testa vola un corvo che vive tra gli anfratti della roccia. Andrea e Marisa ne conoscono vita, morte e miracoli: da un po’ duetta con un falco pellegrino che gli dà filo da torcere in volo ma non lo supera in possenza. E lui se la prende con le quaglie. Recentemente con un colpo di petto ne ha ammazzata una in volo. “Se ne è vista solo una indistinta nuvola di piume” racconta Andrea.
Una grande famiglia al lavoro. Del vino e di Bacco
Raffaele e Dorotea, i figli di Andrea e Marisa, sono ormai coinvolti attivamente negli affari della azienda. Chi nell’amministrazione e nell’accoglienza e chi nel rapporto con i clienti. Le degustazioni dei vini della azienda si svolgono da “Bacco”. A crearlo, con il nome Hosteria Di Bacco, negli anni Trenta, il nonno Raffaele. L’albergo ristorante, è di recente entrato nella gestione esclusiva di Erminia Cuomo, sorella di Marisa, che è in cucina, e di Raffaele Ferrajoli, illuminato sindaco del paese da svariati decenni. Con loro i figli.
Una degustazione o un pranzo sulla terrazza di questo locale, fresco e accogliente, dice molto della atmosfera che si vive anche in cantina: nel segno della famiglia. Nipoti, piccoli e grandi; parenti di ogni ordine e grado, sono in attività in sala e in cucina. Raffaele ama intrattenersi per raccontare episodi di oggi e di ieri. Tra gli altri, la conoscenza con Anna Magnani della quale, al noto fiordo del paese, circa 800 scalini più giù, si conserva la casa che acquistò come buon ritiro. Lì sono state girate le scene nella quale la Magnani tracanna vino da una fiaschetta di Chianti che Raffaele conserva come un cimelio.
All’attrice, il ristorante ha dedicato i “Ferrazzuoli”, una pasta fatta con l’uso di un ferro che somiglia vagamente alle volgari “casarecce” dell’industria pastaia. Erminia li prepara con pesce spada, pomodoro e rucola.
Li trovo perfetti con il Costa D’Amalfi Rosato 2011 (davvero in gran forma in questo millesimo), servitomi con altre etichette in anteprima: profumatissimo, dinamico in bocca, succoso, sapido e lungo al punto giusto. Mi lascia un allegro saluto rosa a Furore al tramonto sulla via del ritorno a casa.
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