a c. di Tommaso Esposito
Marco Lungo ha scritto come la pensa sulla pizza napoletana.
Un articolo contro corrente.
Chiarisce subito: “L’articolo è andato contro tante regole, tranne quella di come scrivo io…”
Lui scrive di getto, di impeto, con il cuore, ma anche con la ragione.
È vulcanico, prorompente.
Si abbandona a chiose, rimandi e incisi che sono un trattato di tecnologia romanzata, narrata.
C’è chi, come me, ama leggerlo e non disdegna mangiare la pizza ispirata da lui.
Non a caso nell’ultima Top Ten dei pizzaioli emergenti ci sono alcuni “lunghiani”.
E c’è pure chi non ha compreso, chi qualche disorientamento l’ha avuto.
Luciano Pignataro qui ha detto pure lui come la pensa.
A Marco Lungo addebita cinque errori capitali.
È il caso, dunque di fare un chiarimento una volta per tutte e capire fino in fondo il #marcolungopensiero sulla Pizza Napoletana.
Cominciamo daccapo Marco.
Qual è il tipo di farina ideale per la tua napoletana?
La mia scelta d’elezione per la Napoletana Verace è un mix di farine Caputo, il cui prodotto definisco essere “Il Sapore Della Pizza Napoletana Nel Mondo”, volto a correggere quelli che secondo me sono alcuni difetti e di aroma dell’uso delle singole farine di questo molino; è una scelta che mi ritrovo quindi sicura anche all’estero, anche se purtroppo non sempre arrivano dappertutto le farine che mi servono per realizzare il mio blend.
L’evoluzione, però, diciamo quella che vedo come futuro e mio compimento di quanto è possibile esaltare nella Pizza Napoletana, lo ottengo con farine diverse, comprendenti prima di tutto il germe di grano che da molti anni è il mio elemento base nella progettazione di farine quando opero per conto di aziende molitorie.
Prediligo l’impiego di grani di forza con qualsiasi tecnica di impasto (ho dimostrato più volte che si può portare a completa maturazione una farina avente anche oltre 360 di W nei tempi dettati dal Disciplinare STG), impasto che, come ho detto prima, concepisco solo di tipo indiretto.
Come raffinazione la mia scelta è la Tipo 1, cerco poi elevati indici di pianificabilità e, cose imprescindibili, precise caratteristiche di amilogramma, di quantità di zuccheri fermentescibili e di alta percentuale di amidi rotti meccanicamente.
Per quanto riguarda le altre misure più note, il P/L che ricerco deve essere inferiore a 0,5 ed il Falling Number non andare oltre 320.
Quest’ultimo elemento sappiamo però essere troppo spesso non indicativo più di tanto, in quanto è uno di quelli che può anche essere una conseguenza di determinati coadiuvanti tecnologici, per cui non è sempre affidabilissimo.
Serve l’altissima idratazione o è fuffa?
L’altissima idratazione serve in funzione del prodotto che si vuole ottenere e delle caratteristiche della farina che si ha a disposizione.
Come premessa, però, va detto che ultimamente leggo (e vedo) delle cose che non sono palesemente vere, per chi conosce la materia.
Si riportano idratazioni ben superiori all’80% (ho letto recentemente anche un un 150%…) che non è assolutamente possibile che siano utilizzabili nei termini di pizza tonda comunque concepita, se realizzata solo con farina di frumento.
Con farine diverse, si può aumentare l’idratazione ma comunque non fino a quel limite, perché comunque il panetto sarebbe simile ad un palloncino pieno d’acqua, di difficile stesa e di impossibile impalata per informarlo.
Comunque, a parte appunto le cose fantasiose che ormai si sparano nei social network o ai reporter meno preparati, l’alta idratazione si usa per avere principalmente una maggiore attività enzimatica, dato che negli impasti quelli che ci interessano sono tutti idrolitici. Una maggiore attività enzimatica, diastatica e proteasica, porta con sé maggiore disponibilità di zuccheri per i lieviti, la cui dose deve essere aumentata rispetto alla idratazione basica della farina che usiamo, mentre la parte proteasica intaccherà maggiormente il glutine, permettendo quindi alveolature importanti.
Ecco quindi che il prodotto che si ottiene è maggiormente alveolato e soffice, se eseguito bene, però anche meno “portante”, spesso sostiene meno, nonché è meno lavorabile perché il rischio di bucare in stesa ed impalata aumenta di molto, già ad inizio servizio.
C’è, quindi, una massima idratazione possibile per ottenere da una farina il massimo della scioglievolezza, della sofficità e della portanza, calibrando questo tutto che è frutto di compromessi, con la lavorabilità e la gestibilità dei panetti in servizio. Altissima idratazione, per intendersi, è far prendere l’80% e più ad una farina che normalmente si impasta con il 60-62% di acqua.
Personalmente, per quanto detto prima con una farina da 60-62% di idratazione standard, non andrei oltre il 65-68% e la scelgo sempre di partenza per avere un prodotto migliore nei termini che ho precedentemente detto.
Per una esibizione, una tantum, anche il 75-80% si può fare ma, per mia esperienza diretta, ci sono tanti fattori di ingestibilità del tutto, a fronte di pochi o nessun vantaggio arrivati a quel limite. Ripeto, si millanta molto in questo periodo con le idratazioni. Credeteci solo se siete presenti all’apertura del sacco ed a tutte le pesate di acqua e di farina, oltre a controllare che nell’impastatrice ci si mettano solo quelli oltre a lievito e sale.
Altro argomento. Tu consideri la biga come una pasta di riporto controllata contro criscito, lievito madre e birra. Perché?
La biga la porto avanti da anni perché è un ottimo compromesso per avere i vantaggi di un impasto indiretto senza aggravare di lavoro in maniera insostenibile il laboratorio di pizzeria e garantendo un maggior controllo della forza lievitante rispetto agli altri sistemi di riporto o di sviluppo naturale dei lieviti.
Rispetto al lievito di birra sviluppa maggiormente le componenti aromatiche, migliora la lavorabilità dell’impasto e determina una maggiore durata della pizza in termini delle sue caratteristiche di fragranza, conservandola più a lungo come appena sfornata.
Per questo porto la biga (e, comunque, gli impasti indiretti) come base per la realizzazione di un prodotto qualitativamente superiore rispetto all’impasto diretto con lievito di birra.
Cornicione alto o basso? Size L o XXXL?
Il cornicione che si ritiene corretto in generale, parlando per i canoni comunemente accettati in giro per l’Italia, è quello che serve a fare ciò per cui è nato cioè evitare che, quando la pizza viene maneggiata nel forno con il palino, durante le inclinazioni del disco i condimenti non finiscano sul piano del forno.
Detto ciò, che ne potrebbe dare una dimensione di massima di meno di tre centimetri di altezza, cadiamo poi nel soggettivo ma, soprattutto, nella capacità di realizzazione da parte del pizzaiolo.
E’ scontato che sia mille volte meglio un cornicione surdimensionato ma realizzato a mestiere, rispetto ad uno corretto ma prodotto in maniera pessima, ammassato e non sviluppato internamente.
Personalmente, per il mio gusto, cerco cornicioni alti circa due dita, caratterizzati da visibile esplosività della lievitazione in forno, trattenuta da un velo quasi trasparente di impasto e con una incidenza rispetto al piano di meno di 90 gradi, cioè che la bolla del cornicione deve quindi piegarsi un po’ verso il centro della pizza.
Quello per me dimostra chiaramente la mano del pizzaiolo, sia in impasto, sia in stesa, sia poi nel governo in forno, dove si decide almeno la metà della digeribilità della pizza.
Disco sottile o alto quanto?
Diciamo che è una questione di lana caprina, come si dice. Il piano del disco deve essere sottile tanto quanto sia rispettata e poi sviluppata nel forno la micro lievitazione con il conseguente sviluppo di mollica e crosta superiore ed inferiore, che è la cosa più importante di tutte. Se il pizzaiolo sa fare un ottimo impasto ed ha le mani d’oro in stesa, direi che lo spessore non conta e di questo ne ho più di una prova in giro per l’Italia.
Personalmente mi piace tenermi sul millimetro massimo, con i requisiti di cui sopra pienamente rispettati.
Straccio moscio o crosticina croccante?
Da quanto si vede in giro per il mondo, è preferito di gran lunga un piano piuttosto rigido con crosta inferiore e superiore (per chi la fa, anzi, per chi riesce a farla).
Trovo però che questa sia una limitazione di gusto, anzi, forse una strada forzata intrapresa per la diffusa errata esecuzione della napoletana a “straccio moscio”, locuzione romana molto efficace per descrivere il prodotto medio napoletano.
Infatti, c’è un abisso tra ottenere quell’effetto per ammassamento dell’impasto, piuttosto che sviluppo della micro mollica senza sviluppare una crosta importante. Il primo a mio avviso è una offesa ad una delle basi di una vera pizza napoletana ed è purtroppo un guaio diffuso che ne fa travisare completamente l’arte della sua realizzazione. Infatti, i migliori interpreti attuali della pizza napoletana, quelli che varcano i confini della Tangenziale ed hanno poi lì un successo stabile, realizzano sul piano la micro mollica quasi senza crosta, che parte proprio dal rispetto della micro lievitazione di cui parlavo prima in ogni fase della lavorazione.
In questo tipo di pizza, vediamo che i condimenti non scivolano via ma anzi si legano al piano e lo permeano man mano che passano i minuti, dando quindi sapore e leggerezza alla pizza nel suo insieme. Ammassando invece l’impasto in stesa, questo non sarà più permeato dall’occhiellatura financo microscopica e non permetterà, quindi, la gelificazione degli amidi con conseguente sviluppo della mollica nel tempo di permanenza nel forno, statuendo così quella pesantezza che è uno dei maggiori capi d’accusa della pizza napoletana all’estero, già dopo l’uscita di Pozzuoli – Arco Felice.
Pizza mollicosa non è il contrario di pizza scioglievole?
Assolutamente no!
La mollica è dovuta principalmente alla gelificazione degli amidi nel forno.
La mollica è uno dei primi elementi che si valuta in un prodotto per valutarne la “texture”, la tessitura. La sua realizzazione è tanto più corretta quanto è più scioglievole, questa è proprio una base di valutazione tecnica fondamentale.
Molliche umide, ammassate o che si ammassano a palletta una volta staccate, indicano pessime esecuzioni, quantomeno in cottura.
Come vedi, anche qui la percezione è sviata da chi non sa realizzare il prodotto, per cui tra impasto (io metto anche impallettamento), stesa e forno, quel tipo di elemento non si sa proprio ottenere.
Guai a dimenticare questa cosa! Si finisce facilmente poi a preferire, ad esempio, cornicioni svuotati che non dimostrano nulla se non, tutt’al più, la capacità di portare in ammaccata le bolle di lievitazione sul bordo.
Poca roba sopra o molta? In quale equilibrio con la quota pane?
In questo, il Disciplinare STG è ad esempio perfetto, perché la proporzione 250 gr di panetto per 180 gr di condimento è corretta per tutti i tipi di pizza che uno vuole realizzare.
Ovviamente, ci sono delle piccole tolleranze ma, come regola, prendendo quella come riferimento non si sbaglia.
Inoltre, è importante anche notare una cosa, allargando il discorso, cioè il peso totale del prodotto rispettando il Disciplinare: sta sotto i 500 grammi. Questa cosa è fondamentale da rispettare se si vuole avere una corretta gestione della propria offerta ristorativa in quanto, come è noto anche già a livello di banqueting di livello, il pasto di una persona può prevedere da 600 a massimo 800 gr di elementi solidi.
Queste sono le soglie di “sazietà” media degli individui, cioè una persona a pasto generalmente non ingerisce più di quelle grammature, escluse le bevande, prima di dire basta.
Ne consegue che il rispetto di quella grammatura totale lascia almeno 120-250 grammi medi al raggiungimento della sazietà, che poi il ristoratore può sfruttare con altri prodotti, a Napoli tipicamente con la nota ed unica offerta di fritti ed altri antipasti, ad esempio, e/o con il santo babbà al termine, premio supremo a completare una visita in pizzeria.
Dulcis in fundo, Marco, la pizza napoletana si cuoce a quale temperatura, in quale forno?
Per il forno a legna assistiamo da tempo ad una scalata alle temperature, tanto che oggi qualcuno opera a ben oltre 500°, temperature che probabilmente non si raggiungevano mai decenni fa, sia per problemi di economia, sia per indisponibilità dei moderni tronchetti di faggio essiccati ad altissima resa termica, sia per refrattarietà e coibentazione dei forni di una volta, difficilmente paragonabili a quelli di oggi. Oggi si cerca anche la massima produttività del forno, le pizzerie sono piene ed è necessario sfornare alla massima velocità, cosa che personalmente ritengo essere stata una delle molle della corsa alle temperature da fonderia.
L’aumento della temperatura oltre un certo limite, però, produce pizze meno cotte all’interno del piano ed anche del cornicione, dato il tempo necessario anche solo per il passaggio del calore attraverso l’impasto per poi cuocerlo, e così ci si trova sempre più spesso nel piatto della pizza che è tecnicamente cruda in mediana di piano ed all’interno del cornicione là dove sviluppa mollica.
Per cui, caro Tommaso, anche qui c’è solo la cosa giusta da fare per quell’impasto e per quella farina.
Ti do per certo che a 550° la pizza esce internamente cruda così come, sempre nel forno a legna, a 320° la si biscotta nel migliore dei casi.
Ritengo il range di temperature tra 420 e 480° gradi il più corretto, in funzione del prodotto che è caratterizzato e condizionato, per la sua cottura, dal peso del panetto e dal suo condimento.
Nel forno elettrico questo range è più ristretto e più basso, tanto che una pizza, la stessa pizza che cuoceremmo ottimamente nel forno a legna alle temperature suddette, si cuoce invece in range che vanno dai 310 ai 350 gradi circa.
Personalmente, quindi, privilegio su tutte la cottura il più possibile completa ed omogenea di tutto l’impasto.
La digeribilità della pizza passa in gran parte attraverso le gelificazione degli amidi e questa avviene in forno, lo ricordo sempre.
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