di Luciano Pignataro
L’Arnaldo Caprai compie mezzo secolo di storia. Un anniversario che cade in un momento difficile ma non per questo meno significativo visto che parliamo dell’azienda che più di ogni altra, ha fatto conoscere il Sagrantino di Montelfalco in Italia e nel mondo. Ne parliamo con Marco Caprai, al timone dell’azienda fin da giovanissimo.
Come nasce l’avventura della famiglia Caprai nel vino?
«La nostra storia vitivinicola nasce dalla passione di mio padre Arnaldo di fare impresa. Quando nei primi anni ‘70 si è presentata la possibilità di acquistare questa proprietà nell’aria di Montefalco, la lungimiranza di mio padre gli ha consentito di immaginare immediatamente al produzione enologica, perché Montefalco aveva la fama di essere la zona migliore di quest’area per la produzione di vino».
Il progetto ha 50 anni: cosa era il Sagrantino nel 1970? Quale la percezione fuori dall’areale di produzione?
«Cinquant’anni fa era il momento in cui finiva la mezzadria e si assisteva allo spopolamento delle campagne: era l’epoca in cui si stava per assistere alla grande crisi dell’agricoltura. In questo senso mio padre aveva capito che questa crisi poteva essere risolta trasformando l’agricoltura sempre più in un’impresa. Il Sagrantino 50 anni fa era poco più che una produzione familiare, di modeste quantità. Era però ancora vivo nelle persone il ricordo di Montefalco come territorio vitivinicolo di qualità superiore, tanto che durante l’epoca fascista Montefalco era considerata il centro enologico più importante della regione. Il dopoguerra e il problema della fine della mezzadria nonché dello spopolamento delle campagne avevano poi fatto precipitare l’attività enologica in una crisi grave. La percezione del Sagrantino 50 anni fa era già difficile averla a Perugia, figuriamoci addirittura fuori dai confini regionali… Per questi motivi ritengo che recuperare il Sagrantino legandolo al territorio e alla capacità di fare impresa sia stata un’intuizione straordinaria».
È cambiato il mondo del vino in questo mezzo secolo? Come?
«In 50 anni nel mondo del vino è cambiato tutto, a partire dal fatto che il vino è passato da alimento a piacere: oggi è un prodotto ricco di storie, di significati e anche uno status symbol della tavola. Tutti sono impegnati nel cercare di produrre vini sempre più buoni e più identitari. Il mondo del vino rappresenta sicuramente la punta più avanzata del sistema agricolo».
Il ruolo della critica ha sempre il suo peso nonostante la diffusione dei social?
«Il ruolo della critica sarà sempre importante perché determina le scelte del consumatore. Non c’è altro prodotto tanto giudicato e valutato quanto il vino, nemmeno la moda. Fare vino è sempre un mettersi in gioco e accettare di essere giudicati. I social sicuramente in termini di comunicazione sono importanti, non solo quelli aziendali ma anche quelli personali di chi lavora dietro ai grandi progetti del vino. Penso che i social più adatti per il vino siano Instagram e Facebook, che raggiungono il grande pubblico. L’importanza dei social nel periodo di pandemia è aumentato esponenzialmente, anche se poi la visita in cantina e il contatto personale non potranno mai essere sostituiti».
I vini strutturati come il Sagrantino hanno un momento di difficoltà, almeno a livello di percezione critica, innamorata dei vini glu glu in questo momento. Qual è la verità?
«Non ho la percezione che sia così, anzi, vedo che sui mercati internazionali c’è sempre più attenzione ai vini di grande espressione, e così anche nell’online. Oggi viviamo una fase del mercato molto confusa, si fa comunque fatica a delineare uno scenario chiaro. La pandemia sta incidendo sulle caratteristiche dei consumi e, dal nostro osservatorio, stiamo vedendo che i consumatori stanno andando verso vini di una categoria più importante».
Quali sono stati i momenti più difficili e quali le maggiori soddisfazioni in questi decenni?
«Gli ultimi anni sono stati sicuramente una bella sfida. Ogni 10-15 anni il mondo del vino ha attraversato un suo momento di difficoltà, come ad esempio quello del metanolo, ma da lì è scaturito il rinascimento del vino italiano; altro momento difficile è stato quello della crisi della Lehman Brothers e anche da lì siamo usciti con il record di vendite del vino italiano nel mondo. Ora viviamo questa fase molto difficile ma la supereremo».
Quali sono i progetti per i prossimi 50 anni?
«Tanti, ma in primis quello di avere la fortuna di poter continuare a fare questo mestiere cercando di realizzare vini che possano rappresentare l’Italia nel mondo ai massimi livelli».
Infine: che giudizio dare della crisi provocata del Covid?
«Sicuramente si poteva fare meglio, ma questa è una crisi talmente enorme che è difficile tirare conclusione. È anche difficoltoso capire, per chi non è del settore, quanto questo momento sia impegnativo: dobbiamo programmare i prodotti per un arco temporale che va da 3 ai 5 anni, non esiste nessun’altro lavoro al mondo con un tempo di programmazione così dilatato. Un mestiere che necessita tempi così lunghi per forza viene colto impreparato dalla crisi del Covid. Ma penso che alla fine niente sostituirà il piacere di un grande vino, di camminare nelle vigne e di visitare i luoghi da cui nascono i grandi vini italiani».
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