di Antonio Siniscalchi
Manuela Piancastelli
Napoli, Zuccaro & Cannella
Cibi e vini da favola nel Cunto de li Cunti
Valtrend edizioni
«Devo ammettere che ho sfruttato il lato positivo dei vari lockdown del Covid nel senso che ho avuto il tempo e la concentrazione necessari per affrontare questo lavoro. Poi ho scoperto che Giambattista Basile è morto, nel 1632, di una malattia molto simile al Covid, un’epidemia influenzale che prendeva alla gola togliendo il respiro e questo elemento mi è sembrato un segno del destino».
Manuela Piancastelli, giornalista, saggista e vignaiola. È appena arrivato in libreria il suo nuovo libro «Napoli, zuccaro&cannella. Cibi e vini da favola nel Cunto de li cunti», edito da Valtrend, illustrazioni di Giusy Ghioldi. Un libro intrigante, scritto con uno stile limpido, ricco di approfondimenti storici e letterari, dove riemerge dal Cunto il racconto dei cibi, dei vini, dei sapori della Napoli del primo Seicento. Manuela Piancastelli ha anche voluto far rivivere al lettore le contraddizioni e le grandezze della Napoli spagnola, di un’epoca di passaggio, ha voluto tracciare l’identikit dei sazi e degli affamati, è andata alle origini dei mangia-foglia e del come e soprattutto del perché si siano trasformati in mangia-maccheroni.
- Tu sei stata vent’anni giornalista al Mattino. Poi hai lasciato questo lavoro per dedicarti al vino. Quanto queste due passioni, scrittura e vino, si sono influenzate fra di loro in questo libro?
«In realtà ho lasciato il giornale ma non ho mai abbandonato la scrittura. Ancora oggi collaboro a riviste prestigiose come Bell’Italia e negli ultimi venti anni ho scritto una decina di saggi soprattutto legati all’enogastronomia. Tuttavia certamente le competenze e gli interessi maturati negli anni in un mondo diverso, come quello del vino, sono stati determinanti nella scelta del taglio da dare a “Napoli, Zuccaro & cannella”.
- Come nasce l’idea di questa ricerca sul cibo e vino nel Cunto de li Cunti, il capolavoro di Giambattista Basile?
«Basile è stato, moltissimi anni fa, l’oggetto della mia tesi di laurea in Lettere moderne. Quindi è un amore “antico”. Negli ultimi anni, tuttavia, mi è capitato spesso – presentando libri o scrivendo articoli – di trovare nel Cunto de li Cunti, più noto come Pentamerone, spunti interessanti che riguardavano l’enogastronomia. Citazioni, frasi a dir poco illuminanti, simbologie gastronomiche ma anche vere e proprie ricette. Mi è quindi venuta voglia di rileggere il Cunto in una chiave nuova, incredibilmente mai percorsa da altri studiosi, e cioè cercando di ricostruire la storia di Napoli a cavallo di due secoli proprio attraverso il cibo raccontato da Basile».
- Napoli, Zuccaro & cannella è un titolo intrigante che ci porta subito al rapporto fra Napoli e il cibo…
«È un rapporto antico, fortissimo. Napoli è sempre stata una capitale, ad inizio Seicento era la più grande metropoli europea, seguita da Londra e Parigi, ed ha perciò elaborato un complesso sistema di scambi fra produzione e consumo. Napoli ovviamente non produceva ma il suo enorme contado, di cui potremmo dire che faceva parte di fatto l’intero Regno, era un immenso bacino produttivo che dava da mangiare a 450mila abitanti più migliaia di “pendolari”. Inoltre il suo complesso melting pot rappresentato da mercanti, soldati, artisti di tutt’Europa ha anche consentito uno scambio di culture, gusti, ricette, usi alimentari, tradizioni che hanno reso unica e irripetibile la cucina napoletana».
- I napoletani prima erano mangia-foglie poi sono diventati mangia-maccheroni. Perché?
«Napoli è sempre stata la capitale della dieta mediterranea. Per secoli la cultura alimentare napoletana si è incentrata sulle verdure, non per povertà ma per scelta. Le verdure, le cosiddette “foglie”, venivano apprezzate tanto dai ricchi quanto dai poveri, infatti le troviamo anche nei ricettari che erano dedicati ai cuochi di corte. Le “foglie” erano sempre cotte con le carni, così nasce la minestra maritata. Poi a inizio Seicento i napoletani inventano “l’ingegno”, ossia la trafila meccanica che consente di fare un salto di qualità nella produzione della pasta rendendola un fenomeno di tipo industriale. E diventano i maggiori produttori di pasta secca superando i genovesi e i sardi. E naturalmente si trasformano in mangia-maccheroni, epiteto che prima era dato ai siciliani».
- E Basile come racconta tutto questo?
«Basile parla continuamente di cibo, spesso usato come metafora per dire altro. Molte fiabe portano nomi di verdure come “Petrosinella”, “La selva di agli”, “La mortella”, di frutti come “I tre cedri”, o di pietanze come “Le due pizzette” e “Le sette cotenelle”. Basile, come altri scrittori coevi, è un testimone attento delle trasformazioni gastronomiche e parla moltissimo, nelle sue fiabe, di verdure, minestre, carni ma anche ad esempio della “trafila” della pasta, dimostrando quindi che si trattava di un mezzo meccanico molto conosciuto a inizio Seicento».
- Come erano i sapori nel Seicento a Napoli?
«Dobbiamo innanzitutto inquadrare il periodo. Napoli all’epoca di Basile era un vicereame spagnolo e prima era stata dominata dagli Angioini e dagli Aragonesi, quindi era una città abituata alla complessità culturale e alimentare. E difatti i napoletani amavano i sapori complessi, c’era ancora una larga parte di cultura culinaria che amava mescolare dolce e salato, c’erano preparazioni ricchissime che oggi non potremmo mai digerire. Non era ancora la grande, straordinaria cucina settecentesca ma c’erano tutti i presupposti. E vigeva una rigida gerarchia sociale nella cucina. C’erano i cibi per i ricchi, considerati “naturalmente” più delicati e quelli per i poveri, con stomaci capaci di digerire alimenti più rustici e pesanti. Una vera e propria gerarchia gastronomica che delineava una gerarchia sociale».
- Qual era il piatto preferito nel Seicento a Napoli?
«Sicuramente la minestra maritata e poi alcune pietanze che potremmo considerare antenati dei timpàni, dei pasticci di carne o di pesce chiusi in “cassette” di pasta. Erano molto apprezzati anche la trippa e il tarantello, una specie di salame di tonno. Fra i dolci, il migliaccio, gli struffoli, la pastiera e le pizzette dolci».
- Nel tuo libro c’è un intero capitolo dedicato ai vini. Che cosa si beveva nella Napoli spagnola?
«Basile in un’Egloga dedicata alla Taverna del Cerriglio fa un elenco di decine di vini differenti, prima ancora il marchese Del Tufo li aveva ampiamente descritti. I più pregiati erano il Greco dell’area vesuviana e il Lacrima, che era rosato, come rosso c’era il Mangiaguerra e poi c’erano la Falanghina, la Cerella, il Mazzacane (che si produceva a Vico Equense), l’Asprinio, l’Aglianico, il Vernotico, la Vernaccia, la Raspata…C’era una biodiversità impressionante, sul mercato napoletano arrivavano centinaia di vini diversi e ripartivano per tutto il mondo allora conosciuto».
- E la pizza?
«Della pizza, come la intendiamo oggi, Basile non ne parla mai. Prima di lui c’era stato solo un poeta, Velardiniello, che accenna ad una pizza “a rota de carro”. Ma come fosse fatta, al forno o fritta, o con quali condimenti, è mistero. Piuttosto sono sempre presenti le pizzette fritte, in versione dolce e salata. Erano un cibo di strada ma anche una veloce preparazione casalinga e persino, in versione più raffinata, presenti in menu importanti».
- Cosa è rimasto, della Napoli gastronomica di Basile, nella Napoli gastronomica di oggi?
«Praticamente tutto, anche se naturalmente trasformato. Ma sono rimasti i profumi, i colori, la ricchezza e la varietà delle verdure, è rimasto il cibo di strada e persino l’ostentazione della ricchezza tramite il cibo. Basti pensare ai pranzi di nozze che ormai sono fiere gastronomiche nelle quale gli invitati, anche se volessero, non riuscirebbero a trangugiare tanto cibo. Insomma, l’ostentazione del cibo è ancora uno status symbol. E lo è diventato anche la rappresentazione sui social dove c’è una continua grande abbuffata che fa quasi venir voglia di mangiare una minestrina e andare a letto».
- Torniamo a te e al tuo presente di vignaiola. Come vedi il futuro del Pallagrello e del Casavecchia, i vitigni che hai riscoperto con tuo marito Peppe Mancini?
«Comincio a vederlo molto positivo perché sono nate una miriade di piccole aziende nel Casertano che stanno raccogliendo il nostro testimone, ci sono moltissimi giovani che stanno creando aziende dedicate a queste uve, quindi credo che avranno un futuro. Terre del Principe ha creduto in maniera enorme e controcorrente nel Pallagrello e nel Casavecchia, in anni in cui ci prendevano per pazzi a puntare solo su questi vini sconosciuti. Ma abbiamo aperto gli occhi ai contadini su un tesoro che avevano tra le mani, il cambio generazionale ha fatto il resto: oggi i loro figli ci stanno credendo».
- Progetti per il futuro?
«Sto lavorando a un altro libro, questa volta sarà sulla storia del Pallagrello, una storia antica ed importante. Sto mettendo insieme gli appunti degli ultimi venti anni, ancora una volta saranno protagonisti, insieme, l’amore per la scrittura e l’amore per il vino».
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