Una ricetta per rinascere a 50 anni
Manuela Piancastelli, classe 1956, laureata in Lettere moderne, sposata con Giuseppe Mancini, per vent’anni giornalista del Mattino e dunque mia collega, è autrice di numerosi libri: La vita a Napoli – Di Giacomo giornalista (Bibliopolis); I grandi vini di Terra di Lavoro (Pubblitaf-Il Mattino); Mario D’Ambra (Veronelli editore); I Migliori Vini d’Italia, volumi su Campania, Puglia, Calabria-Molise (Hobby&Work); Pina Amarelli (Veronelli editore), oltre a vari saggi in volume (Il Primitivo di Manduria, I Novelli). Ha collaborato a riviste come Veronelli EV e tuttora scrive per DeVinis e Bell’Italia. Sommelier dell’Ais, è stata presidente del Mtv Campania e fa parte delle Donne del vino della Campania. Ha ricevuto numerosi premi come giornalista (tra questi il Veronelli) e come vignaiola, il più importante dei quali nel 2006: il Premio Cangrande della Scala-Vinitaly come Benemerita dell’Agricoltura. In questa veste abbiamo voluto inserirla in questa serie di interviste dedicata agli attori più importanti della rinascita del vino nel Sud: è lei, infatti, la protagonista in rosa della nascita vitivinicola delle colline attorno Caiazzo, uno dei fenomeni più inaspettati e coinvolgenti avvvenuto negli ultimi anni in Campania dove pure non sono mancate le novità. Manuela, con Peppe, dopo l’esperienza nella Vestini Campagnano ha fondato nel 2003 l’azienda Terre del Principe a Castel Campagnano. L’enologo è Luigi Moio.
Manuela, tu non sei nata nel mondo del vino come gli altri protagonisti. Come ti ci sei avvicinata?
Ho scoperto il vino abbastanza tardi, anche se da bambina, essendo mia nonna friulana, spesso si iniziava un pasto intingendo un po’ di pane nel vino rosso. Per 30 anni sono stata semi-astemia, poi in un momento strano della mia vita ho reincontrato il vino e ne sono rimasta affascinata. Poiché detesto le passioni hobbistiche, ho approfondito, sono diventata sommelier Ais, ho iniziato a scriverne e soprattutto ho conosciuto Peppe. Lui e il Pallagrello hanno rivoluzionato la mia vita.
Come è nata la decisione di puntare sui tre vitigni autoctoni sinora completamente sconosciuti?
L’idea è nata a Peppe in maniera molto semplice. Suo nonno Giuseppe, che era grande proprietario terriero a Castel di Sasso e perse purtroppo tutto al gioco, riceveva ogni anno dai suoi contadini un vino molto buono che nasceva da Pallagrello e Casavecchia. Sul filo della memoria Peppe andò a cercare, ritrovandole, alcune di quelle vecchie viti, fece delle marze e le piantò nella vignarella intorno casa, a Caiazzo. Tutto è nato così, senza l’idea di fare un’azienda: quella è venuta dopo e anch’essa per memoria affettiva. Fu necessario infatti creare un’aziendina per dedicare le prime bottiglie con etichetta a sua madre (alla figlia di nonno Giuseppe, appunto) Tommasina Vestini Campagnano: Masina è tra l’altro, come sai, anche il nome della figlia di Peppe. Solo dopo si rese conto che, per continuare, aveva necessità di far rientrare quelle uve nel Catalogo nazionale delle uve da vino, tra le quali non erano contemplate. Quando Peppe ed io ci siamo conosciuti ancora portava, ogni anno, due-tre quintali di Pallagrello bianco, Pallagrello Nero e Casavecchia nel Centro di microvinificazione della Regione Campania per gli studi che hanno portato al riconoscimento delle varietà. Poi la passione ci ha preso la mano e ora siamo qua.
Quando avete percepito che la strada era quella giusta?
Peppe è stato sempre convinto che lavorare su quei tre vitigni autoctoni fosse la strada giusta ma non aveva assolutamente la percezione di come il fenomeno sarebbe potuto esplodere. Da vero, autentico pioniere si preoccupava solo di far crescere le sue “creature”. Io invece, conoscendo i meccanismi della comunicazione, mi resi subito conto che avevamo tra le mani qualcosa di molto prezioso e, pur essendo totalmente estranea all’azienda, decisi di investire tutte le mie energie per aiutare Peppe in quell’avventura. Capii che dovevo puntare su tre elementi: un’altissima qualità del prodotto, una storia vera da raccontare – quella del vino dei Borbone – e sull’attenzione dei media, in quel periodo abbastanza alta verso il mondo degli autoctoni, una novità del panorama enologico italiano. Era il momento giusto per fare uscire dal cono d’ombra questi vini: organizzai nel settembre ’99 la prima vendemmia notturna in Campania con grande risposta mediatica, spinsi Peppe a “corteggiare” Luigi Moio, il solo enologo al Sud a conoscere questi vitigni (era responsabile del Centro di microvinificazioni) e l’unico a poter intraprendere una strada di conoscenza scientifica su queste varietà, misi in campo tutte le mie amicizie per far degustare i vini a quante più persone possibile. Poi sono stati i vini a far diventare tutto ciò un piccolo miracolo.
Al Sud sei quella che sicuramente aveva il rapporto più stretto con Gino Veronelli. Qual è il tuo ricordo e cosa ti ha trasmesso?
Veronelli mi ha confermato che le anime grandi sono anime semplici. Gino era un uomo dalle qualità intellettuali straordinarie, è stato sempre più avanti di tutti, capiva le cose in anticipo e per questo spesso non è stato compreso: era troppo fuori dal coro. Ed è stato molto tradito, molto usato: lui lo sapeva e aveva la grandezza di fregarsene, di tirare dritto per la sua strada. Ho amato molto il suo rimanere giovanissimo dentro: a 75 anni faceva battaglie etiche e politiche che io, ben più giovane di lui, non avrei mai fatto ma che facevo a vent’anni. Lui ha avuto la grande saggezza e l’eccezionale forza di arrivare ragazzo alla fine della sua vita. Forse è questo, per me, il ricordo più bello di Gino e il suo più grande insegnamento.
Da giornalista, come valuti la stampa e la critica specializzata in questa fase storica?
E’ un momento difficile, di cambiamento profondo del pubblico. I giornalisti – non solo in questo settore – hanno meno credibilità di un tempo e sul vino si è scritto tanto, troppo e non sempre nel modo giusto. Ritengo che la critica specializzata, che pure continua a svolgere un ruolo fondamentale nell’indirizzare il pubblico verso la qualità, debba ripensare i modelli di comunicazione. Anche perché oggi sul mercato sono presenti decine di migliaia di etichette e solo stare dietro a tutto ciò comporta energie e competenze enormi. D’altra parte scopro l’acqua calda dicendo che le guide hanno sempre meno presa sul mercato, il pubblico è più maturo e smaliziato e troppo spesso, su molte riviste minori che pure hanno larga diffusione, si confondono gli articoli con i redazionali ritenendo che i lettori siano deficienti.
Secondo te è cambiato il modo di comunicare il vino? Cosa deve fare un produttore per essere efficace?
Intanto deve avere qualcosa da comunicare e non tutti ce l’hanno. Bisogna avere, a monte, un’idea, una passione, un progetto da condividere con altri. Oppure molti soldi per inventare campagne di marketing in grado di rendere verosimili false idee, false passioni e falsi progetti. Non basta fare vino, o formaggio, o scarpe, o vestiti. Qualunque cosa si faccia, per creare emozione – e quindi per poter essere vincente sul piano della comunicazione – deve contenere qualcosa di vero. Penso a Bartolo Mascarello: più che per il suo Barolo era conosciuto per la coerenza e la testardaggine con cui continuava a farlo a dispetto di tutte le mode. Mascarello comunicava se stesso ed era vincente. Se mi giro intorno, vedo troppe persone che si arrabbattano a trovare un’idea bizzarra per attirare l’attenzione dei media: dai grappoli capovolti alla musica tra i filari. Io da giornalista a queste persone darei solo un trafiletto tra le curiosità, da produttrice li prenderei a calci nel sedere, da consumatrice mi farei una risata. Ma costoro fanno male al mondo del vino vero, lo fanno diventare un circo equestre di nani e ballerine.
Perché ormai tutti al Sud hanno l’enologo ma pochi ancora si preoccupano di come comunicare e come vendere?
Perché noi meridionali siamo in ritardo perenne sui tempi della storia e abbiamo la presunzione che tutto ci sia dovuto solo perché esistiamo, soprattutto l’attenzione dei media e del mercato. Magari ci rendiamo anche conto di avere difficoltà a fare il vino e perciò deleghiamo questo compito all’enologo ma poi non ci preoccupiamo di nient’altro. Siamo miopi e spocchiosi, spesso ignoranti di ciò che accade intorno al nostro piccolo mondo antico, quindi fondamentalmente stupidi.
Ripercorriamo due momenti clou della tua vita. Il primo è la rottura nella Vestini Campagnano. Cosa ti ha insegnato questa esperienza così difficile?
Che è meglio evitare le società soprattutto se è stata ceduta la maggioranza.
Il secondo è la decisione di lasciare il Mattino per dedicarti all’azienda. Perché la motivazione del vino è stata più forte di quella di lavorare in un quotidiano di prestigio che è l’aspirazione di tanti giovani?
I motivi sono stati molti. Intanto io appartengo a quella generazione di giornalisti sotto choc che hanno iniziato a lavorare a inizio anni ’80, quando c’erano ancora le rotative, i dispacci di agenzia e nei giornali si respirava un’atmosfera di appartenenza, di gruppo, di casta se vuoi, che creava un forte legame fra le persone e la testata. In vent’anni è cambiato tutto, i giornali sono diventate aziende come le altre, il giornalista un dipendente e basta, per paura del potere derivante dalle specializzazioni queste ultime sono state semplicemente eliminate e oggi in un giornale se dimostri di conoscere un argomento, peggio ancora di avere piacere a seguirlo, sicuramente ti mettono a fare un’altra cosa. Poi credo che quello di giornalista sia un lavoro a tempo: troppo usurante, senza domeniche, senza orari, feste comandate né vita sociale. Ero stanca e avevo un’alternativa: la nostra azienda, i nostri vini, i nostri sogni. Non è stato facile: mi sono ritrovata all’improvviso senza stipendio, senza sicurezze, a investire i risparmi di una vita in quest’impresa folle e coraggiosa di ricominciare tutto da zero a 50 anni. Ma sì!
Cosa pensi della crisi della stampa quotidiana?
I tempi del quotidiano sono ormai obsoleti rispetto alla comunicazione in tempo reale della tv e del web. In questo mondo che cambia a ritmi vertiginosi la risposta italiana è giornali fotocopia, fatti sulla scaletta dei tg che a loro volta sono fatti sulle scalette dei siti web. Insomma è tutto un copia e incolla. Finita questa generazione di lettori, non so se ce ne sarà un’altra. L’unica eccezione è La Repubblica che non ha paura di osare: il bellissimo R2, a mio avviso, è una risposta – oggi – alle nuove esigenze del pubblico. Domani, si vedrà.
Torniamo al vino. Quali sono quelli che ti piacciono?
Sono soprattutto un’amante dei bianchi strutturati. Adoro alcuni vini “strani” come il Breg di Gravner, l’Efeso di Librandi e impazzisco per il Vulcaia fumé di Inama. Per i rossi sono fuori moda, amo i vini muscolosi, gli Amarone vecchio tipo, alla Masi per intenderci, il Falerno tosto di Michele Moio: insomma a me un elegante ed esile Pinot nero può rovinare una cena…
Quale bottiglia prodotta da te ti ha regalato più soddisfazione?
Il Vigna Piancastelli: è un progetto che parte da lontano e che ha impiegato alcuni anni per diventare realtà. Ho dovuto aspettare che la vignarella crescesse, che il vino si elevasse per tre anni… La prima annata aveva lasciato la critica un po’ indecisa, non si capiva se il vino piaceva o no. Quest’anno invece sono arrivate le soddisfazioni: la Corona dei Vinibuoni d’Italia, la finale dei Tre bicchieri del Gambero Rosso, il vino è tra i 50 outsider italiani dell’Espresso, nell’Annuario dei Migliori vini italiani di Luca Maroni ed è stato selezionato tra i Top italian wines di Merano.
Hai mai pensato: questo vino era inutile?
Lo penso spesso, per fortuna non è mai capitato con i vini miei.
Terre del Volturno igt o Terre del Volturno doc?
E’ un dibattito che non mi appassiona: non ritengo le doc molto importanti per il mercato, soprattutto laddove – come in questo caso – non hanno un particolare appeal territoriale. Per fortuna il disciplinare dell’Igt Terre del Volturno è abbastanza severo sulle zone di coltivabilità e sulle rese. L’importante è fare il vino bene, per anni il Sassicaia è stato vino da tavola ed è diventato un mito lo stesso.
Autoctoni o internazionali?
Ho fatto la scelta degli autoctoni e credo che questi siano la carta vincente dell’Italia e della Campania perché in questo momento il mercato ha due spinte eguali e contrarie: la globalizzazione e la tipizzazione. Noi italiani con la globalizzazione non abbiamo chances: Cile, Australia, California ci mangiano in un boccone. Ma abbiamo una storia unica e millenaria costruita sulle differenze: è su quelle che dobbiamo puntare. Ma non ho nulla contro chardonnay e cabernet, anzi mi fanno tenerezza: pur così buoni sono diventati il diavolo in persona.
Spalliera, raggiera o…alberello?
Quella più vicina alla tradizione del luogo, quella più rispettosa delle uve, delle esposizioni e del terreno.
Quanto il Caiatino deve a te e tu devi al Caiatino?
Credo di aver dato molto al territorio, come giornalista e come vignaiola. Il Caiatino ha dato però a me molta serenità.
Quali sono i rapporti con gli altri viticoltori?
Buoni, con alcuni ci legano rapporti di grande stima e amicizia. Quando siamo usciti dalla Vestini Campagnano, alcuni ci offrirono le chiavi delle loro cantine per consentirci di continuare nella nostra avventura. Sono gesti che non si dimenticano.
Cosa pensi della biodinamica?
E’ un’idea bellissima ma di quasi impossibile realizzazione soprattutto laddove le proprietà sono molto frazionate. Avere un’azienda agricola a 360° che ti produca dall’uva al favino, dal fieno e le granaglie per le bestie il cui letame devi utilizzare, che ti controlli le falde acquifere e che non abbia intorno nessuno che fa trattamenti, inquina l’aria e fa danno, è da noi davvero molto difficile.
Ci sono produttori con i quali ti piace scambiare chiacchiere e impressioni? Chi sono?
Purtroppo non capita frequentemente, corriamo un po’ tutti.
Tu hai presieduto il Mtv Campano. Perchè hai lasciato? Delusa?
Sì, molto delusa dall’indifferenza dei produttori: sembrava che mi facessero un piacere personale a partecipare a Cantine Aperte.
Scusa la domanda banale: essere donna aiuta, è penalizzante o è indifferente?
Per avere valore, essere donna non basta: devi essere bella in maniera discreta, intelligente ed equilibrata all’inverosimile perché nessuno ti perdona le sbavature. Se piangi, sei una donnetta (un uomo invece è sensibile), se ridi troppo un’oca (un uomo è un allegrone), se t’incazzi un’isterica insoddisfatta (lui invece è stressato), se gradisci le attenzioni maschili una puttana (l’uomo è un dongiovanni), se ami il tuo lavoro una carrierista (lui è impegnato). Insomma, è uno stress. Ma se riesci a dribblare tutto questo, può essere un vantaggio.
Avere successo genera invidia? E l’invidia crea problemi o si può ignorare?
L’invidia è generata non solo dal successo, ma anche dall’intelligenza, dal fascino, dalle competenze. In assoluto è avere personalità che dà fastidio, induce gelosie e rancori esagerati, quasi sempre immotivati. Io ho sempre preferito ignorare coscientemente invidie e gelosie e andare avanti per la mia strada. Il peggior disprezzo è la noncuranza.
Cosa ti dà fastidio nel mondo vitivinicolo italiano?
Ci sono troppe persone – preferisco non chiamarli vignaioli – che amano le scorciatoie.
Raccontami del rapporto con l’estero. Cosa cercano gli stranieri che gli italiani ignorano?
Gli stranieri cercano l’anima delle persone, forse perché spesso nei loro Paesi non la trovano facilmente. E coerenza: vogliono che un vino non cambi filosofia nel tempo, magari non ti comprano ma ti ammirano.
Ora un rapporto ben più importante. Con Peppe. Lavorate insieme, ma quando è nato l’amore?
In una bella giornata di maggio del ’99: lo inseguivo già da un anno per un’intervista sul Mattino, aveva prodotto le sue prime centinaia di bottiglie e volevo conoscerlo ma lui si sottraeva all’incontro perché il vino era rifermentato in bottiglia e non voleva farmelo assaggiare. Dovetti aspettare la nuova annata…Venne a prendermi in redazione per visitare insieme la cantinella di allora, 4 metri quadrati con tre piccoli serbatoi. Ci innamorammo a prima vista e nonostante avessimo ambedue altri legami importanti, a settembre già vivevamo insieme. Da allora non siamo stati mai lontani più di dodici ore. Sposarlo è stato la più grande emozione della mia vita: è l’unico uomo che non ha mai cercato di cambiarmi.
Litigate sul lavoro?
La nostra media di litigio è di 4-5 minuti al mese, sotto ogni standard europeo. Motivo di qualche battibecco è che Peppe è molto preciso (pignolo, dico io), io insofferente a ogni regola (disordinata, dice lui). Poi però passiamo 4-5 ore a chiederci scusa….
E il rapporto con Luigi Moio, il vostro enologo?
E’ un rapporto di grande amicizia ma soprattutto di grande stima e rispetto. Io gli sono estremamente grata perché ci ha accompagnati per mano lungo una strada per noi sconosciuta, ci ha insegnato tutto del vino, ha condiviso con noi momenti e scelte difficili, come quella di seguirci nella nuova azienda: noi da offrirgli, in cambio di tutto ciò, non avevamo niente, solo il nostro affetto. Io dico sempre che Pallagrello e Casavecchia sono stati il nostro Pinocchio: Peppe gli ha dato il cuore, io la parola e Luigi l’intelligenza. Senza Luigi il nostro Pinocchio non avrebbe avuto gli strumenti per capire la vita.
Come passi il tuo tempo libero se nei hai?
Libero da che? Il mio tempo è tutto libero
Ascolti musica? Quale?
Moltissima, solo musica classica fino a inizio Novecento: il limite temporale è Debussy con la sola eccezione di Philip Glass
Cosa ti piace leggere?
Narrativa, divoro decine di romanzi.
Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Non ne ho, l’ho realizzato.
Cosa diresti ad un giovane che si vuole avvicinare a questo mondo? E’ ancora possibile?
Tutto è possibile, se si ha dentro una passione autentica.