“Qual è il futuro della pizza? Nello stomaco”. La celebre battuta di Alessandro Condurro in una delle sue prime fantastiche uscite video era un po’ un richiamo, da parte di una icona di questo mondo, a non esagerare con gli eccessivi entusiasmi. Eppure proprio la pizzeria Da Michele alla fine è stato uno dei motori che ha raggiunto lidi inimmaginabili sino a qualche tempo fa, dalle aperture in mezzo mondo che le hanno valso per due anni consecutivi il primo posto fra le catene artigianali di 50 Top Pizza, alla proposta di un eccellente prodotto surgelato da portarsi a casa che noi abbiamo testato con buona soddisfazione.
Lo tsunami di questo settore è stato talmente forte da travolgere ogni categoria interpretativa ponendo oggettivamente tutti noi una ridefinizione del fenomeno proprio per i continui cambiamenti in corso sotto i nostri occhi.
Pizza napoletana o pizza romana o neonata pizza italiana? Pensiamo che siano ormai temi decisamente superati perchè il vero punto è: quale modello di pizzeria vogliamo seguire? Partendo dal contenitore il discorso diventa molto più chiaro e più semplice.
Vediamo, in questo fine agosto in cui tutti tranne noi si sono concentrati sullo scontrino inagurando la moda al feticismo gastronomico, di mettere un po’ di ordine, o almeno provarci.
1-La pizza è napoletana?
La risposta è certamente si. Solo in questa città ha trecento anni di storia, con mille forni accesi mattina e sera solo nel comune di Napoli per non prlare della provincia. Lo stile scioglievole, a prescindere dal cornicione prounciato o meno, ne fa una icona da cui non si può prescindere. La madre di tutte le pizze, lo stile che maggiormente parte alla conquista dell’Italia e del mondo, è questo: un panetto di 250-280 grammi idratato fra il 65 e il 70% cotto in un forno a 400 e passa gradi per 80-90 secondi. Questo è.
2-La pizza è solo napoletana?
La risposta è sicuramente no. E non perchè altri lievitati, molto diversi, vengono chiamati allo stesso modo, ma per il semplice motivo che sono sempre più diversi i modi di consumarla, dalla pizzeria di quartiere all’hotel di lusso, dalla pizzerie disegnata da qualche archi-star alle catene artigianali che vengono acquistate dai fondi. Come il sushi, ormai la pizza non appartiene solo a Napoli ma è figlia dei gusti e delle usanze dei paesi in cui sbarca.
3-Qual è il tratto comune alle due precedenti domande?
C’è però un dato comune di consumo dal quale non si può prescindere. Che tu sia povero o sia ricco, da Forcella al Four Season di Firenze, la pizza vuol dire semplicità, identità, praticità e golosità.
4- E dunque, dove va la pizza?
La domanda giusta, a questo punto è: dove va la pizzeria?
a-Le pizzerie napoletane a Napoli non moriranno mai. Una comunità di milioni di persone affezionata a questi locali come gli inglesi ai pub non vogliono sapere nulla se non rinnovare la memoria del gusto ancestrale della semplicità. Una pizzeria di quartiere, o di paese, avrà sempre il forno acceso per clienti affezionati e abituali. Ci saranno miglioramenti negli impasti e nei tempi di lievitazione, certo. Magari anche di servizio. Ma resta appunto una pizzeria da vivere in semplicità e senza tante seghe mentali. Ciro Salvo a Napoli è da questo punto di vista il modello esemplare, ma dopo di lui ce ne sono decine e decine.
b-Proprio questo modello viene ripreso dalle principali catene artigianali, ovvero dai fondi che puntano a queste catene. Ai manager interessa il giusto punto di equilibrio fra il numero di clienti e la qualità, l’attenzione ai costi arriva, nei casi virtuosi, sino al punto in cui andare avanti significherebbe interrompere il principio dell’artigianalità. Sappiamo benissimo che qualcuno punta a trovare una formula senza pizzaiolo, ma di fatto era quella lanciata dalle multinazionali anglosassoni che abbassa la redditività. E’ proprio il valore aggiunto del capitale umano ad attrarre questi investimenti che garantiscono reddito solo se fanno percepire autenticità al cliente. E l’autenticità non è solo nel prodotto finale, ma soprattutto nell’ambiente che si respira in pizzeria.
c-Le pizzerie come locali di incontro
Oltre quelle di servizio, ormai esistono le pizzerie che sono luoghi di incontro in grado di sostituire anche i ristoranti. I segnali sono molteplici, con locali disegnati da architetti che moltiplicano i servizi, dalla birra artigianale alla carta dei vini e ai cocktail. Dry a Milano, Sant’Isidoro Pizza e Bolle a Roma, fratelli Salvo e 10 di Diego Vitagliano a Napoli
d-Le pizzerie borghesi, e non è più un ossimoro
Sono nate nel post Covid pizzerie che pur mantenendo un involucro popolare, si posizionano verso un pubblico alto spendente. Per capirci i facoltosi frequentatori di Capri che amano la pizza dell’Aurora. Per loro sono sorti, per ora solo a Roma e Milano, locali in cui possono sentirsi a proprio agio per servizio, offerta dei vini, con una media scontrino superiore ai 60 euro ma che può arrivare anche centinaia di euro a seconda dell’etichetta selezionata. Ci riferiamo ad Allegrio a Roma e a Confine a Milano.
e-Le pizzerie d’autore, una variante del tipo a, quelle dove il pizzaiolo sceglie di stare dalla mattina alla sera assentandosi solo nel giorno di chiusura in cui si realizzano anche sperimentazioni, Luoghi dove si fanno anche sperimentazioni. Citiamo Simone Padoan e Francesco Martucci come massimo esempio di questa impostazione, gli accoppiamo Jacopo Mercuro a Roma e Ciccio Vitiello a Caserta.
f- La pizzeria dentro l’albergo. Ultimissima tendenza, iniziata dall’Hotel Angiolieri nel 2016. Una tendenza ormai globale in cui paradossalmente proprio l’Italia arriva ultima.
5-Qualcuno ha sbagliato lettura (per fortuna)
Quando il piccolo mondo antico dei gastrofighetti italiani si trovò a fare i conti con il mondo pizza, precedentemente liquidato come usanza etnica e relegato a curiosità territoriale nelle guide cartacee, si cercò di raccontarlo con le stesse categorie con le quali si leggeva l’alta cucina. Una lettura ideologica, ossia adeguare la realtà ai propri schemi mentali e invece di analizzarla o, semplicemente, raccontarla. Diciamolo chiaro e una volta per tutte: un cuoco può diventare pizzaiolo ma un pizzaiolo non può mai diventare un cuoco: sono mestieri diversi, formazioni culturale e sociali diverse, con tradizioni diverse anche se rientrano nel campo della gastronomia. Come dire, auto e moto restano auto e moto anche se hanno entrambe il motore a scoppio. Questo non vuol dire gerarchizzare queste funzioni, vuol dire che non si può pretendere di fare una stessa narrazione per funzioni totalmente diverse.
L’ex pensiero dominante gastronomico, quello della libertà dei cuochi come valore assoluto a precindere dall’etica ambientale, ha tentato questa operazione, e c’ è chi ha voluto fare da sponda (“la mia pizza”) proponendosi come “il pizzaiolo” in un presepe di pastori, ma appare chiarissimo il fallimento dell’operazione. Alla fine ogni narcisista psicopatico implode perchè parlare solo di se è un argomento decisamente noioso per l’interlcutore.
La pizza resta un alimento popolare anche se servita nei locali di lusso. E’ uno di quei casi in cui il nome non fa la differenza, me l’hanno insegnato quegli imprenditori che hanno rotto i rapporti con qualche grande nome ripetendo in questo caso lo schema stellato uguale prestigio uguale profitto: non è stata persa neanche una pizza dopo l’uscita di scena della pseudo star, si sono solo risparmiati i soldi delle consulenze. Questo perchè bisogna partire da come il pubblico percepisce il ristorante e la pizzeria: il 99,9% delle persone ha ben chiaro che sono due cose diverse. I gastrofighetti della ztl no. La pizza, come il sushi, ha buoni esecutori ma non ha padroni perchè frutto della memoria popolare collettiva elaborata nei secoli. Non è codificata come l’alta cucina francese dai cuochi, è patrimonio comune come la cucina tradizionale italiana.
6-Interpretare il mondo pizza senza paraocchi
Ma, al di là di queste quisquiglie, la verità è che solo 50 Top Pizza negli ultimi sette anni ha colto tutti i fenomeni del mondo pizza con molto anticipo e ha preceduto tutti nel raccontarli. Dalla decisione di uscire fuori dall’Italia in maniera coerente e specialistica alla nascita della classifica delle catene artigianali che è il vero fenomeno degli ultimi anni come dimostra la recente acquisizione della Pizzerie Da Zero da parte di un importante fondo di investimento. Mentre neocritici provenienti dalla telefonia o da altro stavano provando a trasfigurare qualche pizzaiolo (le cui pizze erano suggerite da uno chef) in uno cuoco, il mondo andava avanti esattamente in direzione opposta. Ma un dilettante non poteva capirlo perché privo degli strumenti interpretativi.
7-Ultima domanda: cosa deve fare un buon imprenditore?
Sappiamo come sono gli imprenditori italiani: amano gestire tutto in prima persona, al massimo mantenendo le cose in famiglia. In tal caso il mio consiglio è quello di studiare bene il campo e capire non chi è il pizzaiolo di grido per investirci, ma creare un progetto con professionisti concreti che sappiano replicare il prodotto, possibilmente con una lunga gavetta alle spalle, come Sorbillo e Porzio per capirci. Oppure puntare a un franchising come Da Michele che ovunque apra regala soddisfazioni. Insomma, meno fuffa e tanta concretezza. Ricordate la reclame? Non serve un pennello grande ma un grande pennello. Ecco.
Conclusione
Uno slogan famoso di Mao Zedong era: c’è una grande confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente. Il mondo pizza si sta diversificando, adesso vi rientrano cose diverse se non opposte che hanno in comune il disco magico cucinato davanti al cliente. Essere al passo con i tempi significa prendere atto della realtà in continuo cambiamento senza avere la presunzione di imbrigliarla con categorie superate. Si tratta di registrare quello che avviene, poi ciascuno sceglie la collocazione commerciale o culturale più idonea. Una sola cosa è sicura: il mercato è ancora in una crescita vertiginosa, a prescindere dalla contingenza economica, perchè la pizza è il classico alimento che funziona proprio quando la società subisce uno stress test.
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