Maicol Izzo di Piazzetta Milu: la differenza fra Spagna e Italia? Leggono i curriculum e ti danno una possibilità

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Così si può diventare chef bistellati

 

Maicol Izzo

Si legge e si scrive proprio così: Maicol. Terzo figlio di Michele e Lucia Izzo, gestisce con i fratelli Emanuele e Valerio il ristorante Piazzetta Milù a Castellammare di Stabia: insieme hanno conquista le due stelle della Michelin e sono uno degli otto bistellati campani, uno dei 53 in Italia. Insomma, al vertice della gastronomia del Belpaese per l’unica guida che conta e che fa mercato. Nato il 27 maggio 1993, a soli 31 anni cos’altro potrà combinare nella sua carriera? Chi vivrà vedrà e mangerà.
Rispettando perfettamente le caratteristiche del segno, ha studiato da odontotecnico ma ha finito per fare il cuoco.

-Da piccolo ti sei diplomato per curare i denti, da grande procuri lavoro ai dentisti. Come è successo?
“Vero, non ci avevo mai pensato. La verità è che i miei genitori sono sempre stati nel settore, avevano una trattoria e poi una braceria, mio padre è ancora imbattibile nel cucina la carne sul fuoco vivo e da lui ho imparato tanto. A 19 anni sono entrato per dare una mano e ho deciso che questo mondo mi piaceva troppo per andare a fare altro. Così ho continuato”.

-E dunque?
“Sono stato due anni da Gennaro Esposito alla Torre del Saracino dove ho imparato tanto soprattutto il rispetto per le materie prime un tempo considerate povere. In questo Gennaro è stato un pioniere, la sua parmigiana di pesce bandiera è ancora oggi uno dei piatti più imitati in giro”.

-Poi l’esperienza che ti ha segnato, quella con Albert Adrià, che il buon Bob Noto definì il cuoco più sottovalutato del Mondo perché fratello di Ferran. Come ci sei arrivato?
“Nel modo più semplice e forse impensabile in. Italia. Avevo fatto una vacanza a Barcellona ed ero rimasto affascinato da uno dei suoi locali, il messicano Hoja Santa. Mandai un curriculum e Albert Adrìà mi fece chiamare dopo tre mesi mettendomi alla prova prima lì, poi in un giapponese e infine da Tickets, sempre a Barcellona, dove sono stato sino al 2016”.

Cosa hai imparato in tutti questi anni?
“In primo luogo la disciplina del lavoro. Si entrava alle 7 e si usciva alle 19, oggi giorno, tutti i giorni. E’ questa la prima condizione del successo, bisogna stare con la testa sempre sul pezzo, imparare, rubare il mestiere, prendersi le ramanzine senza farne una questione personale. Poi la capacità di ripensare la materia e i prodotti che abbiamo sotto gli occhi in maniera assolutamente nuova e rivoluzionaria. Gli spagnoli sono molto meno condizionati di noi e dei francesi dalla tradizione, per questo sono stati i veri innovatori degli ultimi trent’anni. Senza mai perdere però la gioia e la convivialità, la leggerezza nella sala. Anche questo abbiamo provato a replicare a Piazzetta Milu con Valerio ed Emanuel”.

Ma la tua formazione è andata anche oltre, un anno in Costa azzurra.
“Si, da Mauro Colagreco al Mirazur, arrivato primo nella classifica della 50 Best Restaurant, Tre Stelle Michelin, un cuoco eclettico, figlio del tempo, rigore francese e passione italoargentina”.

Infine il ritorno a casa.
“Sì, avevo già una stella da difendere, conquistata dal bravissimo Luigi Salomone che adesso sta a Nola con il suo Re Santi e Leoni e non è stato facile decidere la rotta. Ci siamo confrontati molto fra noi fratelli, trovare la giusta quadra fra la sostenibilità economica e la realizzazione di un progetto. Il nostro primo grazie va sicuramente ai nostri genitori che hanno creduto in noi e si sono fatti da parte lasciandoci mano libera. Poi con Emanuele Valerio abbiamo deciso di puntare tutto sulla novità, cercare di fare qualcosa che ci potesse caratterizzare, far diventare unici in un panorama molto competitivo e pieno di colleghi bravissimi. Non dimentichiamo che la provincia di Napoli è la più stellata d’Italia.”

-Un progetto che parte prima del lockdown
“Proprio così, ci è voluta una buona dose di coraggio, ma abbiamo tirato dritto. L’idea è quella di far fare una esperienza a chi viene da noi evitando di annoiare la clientela: dunque la nostra cena è molto movimentata, proprio come si faceva a Tickets, si offre una bevanda appena entrati, aperitivo in cucina, poi giù in cantina, di nuovo in cucina, sala e infine, dopo che hai pagato e stai per strada, l’ultima coccola da mangiare subito o da portare a casa. Il rischio che si corre in queste degustazioni è proprio di stancare, al tempo stesso vogliamo che chi viene da noi deve stare concentrato sul cibo, sulla nostra proposta, facendogli sentire che per noi è una persona importante. Anche per questo abbiamo ridotto i coperti”.

-Qual è il tuo rapporto con la nostra tradizione?
“Viscerale, come qualsiasi napoletano. Sono i piatti della memoria, della famiglia e sono buonissimi e ancora moderni. Io cerco di interpretarli, di estrarre al massimo il sapore con la tecnica, dare una idea di nuove combinazioni possibili. Vi avrei proposto come piatto la zuppa di lenticchie che amo moltissimo, ma visto che siamo in estate non posso che sostenere il nostro piatto simbolo, la Caprese, un abbinamento semplice e fantastico che solo in Penisola si può mangiare al meglio grazie ai pomodori giganti di Sorrento e al magico fior di latte di Agerola, provare per credere.”

 


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