Sono sempre le grandi aziende a salvare i piccoli vitigni, quelli dimenticati nei filari, incapaci di affrontare e resistere da soli sul mercato globale senza avere alle spalle un progetto di ricerca serio e affidabile. Questa è la storia della viticoltura italiana e Librandi in Calabria ne è un esempio: insieme ad Attilio Scienza dell’Università di Milano e allo Studio Enosis di Donato Lanati, ha realizzato il campo sperimentale Rosaneti, una sorta di Vigna del Ventaglio dei Borbone, un’ampia selezione giardino di varietà viticole autoctone calabresi, teso alla ricerca e al recupero di vecchie cultivar. Questo lavoro, preceduto già a metà degli anni Novanta da una sperimentazione sul magliocco è stato impostato, su precise basi scientifiche e con progetti organici, nel 1998. Di questo e altro si è parlato nel corso di un convegno a Cirò Marina al quale, coordinati dal professore Mario Fregoni, hanno partecipato esperti italiani e stranieri: per la prima volta si è riusciti ad ottenere una mappa scientifica di circa trenta uve calabresi, trenta fra le oltre cento catalogate in varia misura e sulle quali continuerà lo studio. L’azienda di Antonio e Nicodemo Librandi ha raccolto a Rosaneti le marze ed avviato le selezioni. Nasce qui, in questa sorta di Jurassic Park vitivinicolo, uno dei grandi rossi meridionali di nuova generazione, quel Magno Megonio la cui prima vendemmia è del 1995. Il segno di una svolta precisa, capace di coniugare ricerca e nuove possibilità, per uve sempre strapazzate o ignorate in passato, di realizzare grandi performance grazie alle rivoluzione tecnica in corso in Italia ormai da almeno una ventina di anni. L’introduzione del freddo e delle barrique, tanto per citare due strumenti ormai diffusi ovunque, contribuiscono ad affrontare meglio le difficoltà dei vitigni autoctoni salvaguardando al tempo stesso la biodiversità e soprattutto la tipicità altrimenti non ripetibile altrove. Sul terreno argilloso e calcareo il magliocco esprime il meglio di se stesso, la versione 2006 è una esplosione di frutta, ciliegia e mora, in bocca i tannini sono ben domati, intensità e persistenza ben lunghe in bocca come al naso in una assoluta corrispondenza. Annata dunque fra le migliori, capace di raccontare molte cose negli anni a venire, come ha dimostrato anche la verticale arrivata sino al 2002 in cui il Magno Megonio è apparso integro e pimpante. Lo beviamo appagati sull’agnello del ristorante Dattilo di Roberto Ceraudo, siamo proprio vicino l’azienda, dove la cucina esprime la libertà del mare e nel contempo l’anima terragna e montanara del maschio palato bruzio. Un vino dei ricordi jonici, l’impresa di due fratelli insieme da mezzo secolo, emblema di una terra ancora da scoprire.