Di Carmen Autuori
E’ tutto incentrato sul cibo, elemento fondante del presepe popolare napoletano, o meglio su ‘o magnà il sostantivo che ne sostituisce il concetto, l’ultimo lavoro di Alessandro Basso, antropologo del Natale.
Anche questa volta, al pari di altre pubblicazioni natalizie (Abbassato in un antro è ‘l Paradiso con la prefazione di Roberto De Simone, L’Oriente ai piedi della grotta e Zì Fortuna dei pastori, tutte dello stesso autore) la rappresentazione della natività diventa il teatro della vita dove si muove una folla multietnica di pastori, mercanti, contadini, gran visir ottomani, magi e lavandaie ma soprattutto << caciocavalli di Regno, mozzarelle di Battipaglia stillanti latte, trecce di Campobasso, bocconcini di cardinale, dentici, orate, spigole, merluzzi, triglie, anguille e capitoni (o come li si chiamava nel Settecento: “tomacchi”), frutti di mare – vongole, cocciole e fasulari, cannolicchi, ostriche e tartufi – pollame, vitella, vitellone, manzo, piedi di porco, salsicce forti calabresi, sopressate di Matera, peperoni di ogni colore e dimensione, «rosari» di agli, aringhe in botti scoperchiate>>.
L’ universo mangereccio del presepe, edito da Francesco D’Amato, è un viaggio nella memoria, di Alessandro ma anche di ognuno di noi, attraverso sette scritti natalizi di Domenico Rea: “L’universo mangereccio del presepe” (1974), “Crescendo napoletano” (1990), “Il presepe” (1959), “Catalogo di un vecchio Natale” (1985), “Il presepe commestibile” (1984), “I dolci e il barocco” (1990) ed “Il nostro presepe” (1985).
L’introduzione è una lettera del curatore al suo “don Mimì” che, al pari di Annamaria Ortese e Raffaele La Capria, non ha scritto parole su Napoli ma ha dato parole a Napoli, ovvero voce a chi non sapeva di poter parlare, agli abitanti del dedalo di vicoli dove il mare, e tutti i luoghi comuni che appartengono a questa città dalle mille sfaccettature, non arriva.
E’grazie a Rea che Basso, ragazzo di provincia, risolve il suo personale cortocircuito tra la Napoli oleografica e quella reale fatta di vicoli scuri, di uomini e donne senza denti e senza dignità, sacrificata – ieri come oggi – sull’altare del dio danaro. E lo fa proprio attraverso il presepe, figura oleografica partenopea per eccellenza, che nel testo diventa ‘mangereccio’ perché come scrive Rea << dal presepe, il popolino apprese una sola lezione: lo scialo dell’apoteosi gastronomica, la rivincita sulla fame, la realizzazione dell’ancestrale sogno di Pulcinella. Allora, qual è la prima cosa da fare per onorare degnamente il vendicatore di tutti gli oppressi e dei napoletani in particolare? Festeggiarlo al massimo. Rendergli gradita l’ospitalità>> omaggiandolo di tutte le cose più buone di quella terra felix sovrastata (e intimorita) dal Vesuvio.
Ma ha ancora un senso fare il presepe?
<< Il presepe non morirà mai perché, come afferma il maestro De Simone, è il paradigma della vita e della morte – chiarisce Alessandro Basso -. Certo, dal punto di vista strettamente antropologico, venendo meno quei riferimenti culturali di un tempo antico basati sulla favolistica e sulla tradizione orale, anche il presepe ha subito una sorta di metamorfosi che vira verso la modernità. E lo vediamo con la presenza di personaggi dell’attualità che affiancano i pastori tradizionali, oppure con lo stravolgimento della geografia presepiale con Benino, dal cui sogno tutto ha inizio, che non è più posto in alto ma quasi affiancato alla grotta, oppure da i pastori che una volta erano rappresentati in coppia, e mi riferisco al cacciatore ed al pescatore trasposizione cristiana dei gemelli Castore e Polluce ed oggi non più tanto per fare qualche esempio>>.
In un tempo, dunque, in cui il Natale inizia ad ottobre con gli addobbi pacchiani dei centri commerciali, sarebbe una buona idea dedicarsi alla lettura di questo elegante volumetto che ha il grande pregio di sostituire l’odore finto della plastica che ormai caratterizza il nostro Natale con quello delle bucce di mandarini che la onnipresente zia Flora, punto di riferimento nella vita reale di Alessandro Basso tanto quanto Roberto De Simone in quella letteraria, sbuccia con le unghie laccate di rosso.
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